Archivi giornalieri: 21 aprile 2023

Neredide Rudas

  
 
 

Neredide Rudas L’isola dei coralli e l’identita’ 

Il corallo, quella preziosa arborescenza di cui la Sardegna è ricca e che anziché espandersi all’esterno si ramifica nelle profondità marine, metaforicamente rappresenta per Nereide Rudas la storia e l’identità dell’Isola: un’identità lacerata e fessurata. Ciò perché, come Sardi, storicamente, abbiamo sempre avuto un rapporto problematico con la realtà, una non conciliazione con il mondo. Di qui l’insicurezza e la sofferenza, frutto anche degli imperativi che ci hanno imposto dall’esterno i dominatori che si sono via via alternati nell’Isola: imperativi drammaticamente azzeranti, repressivi e nullificanti.
L’Identità di cui parla Nereide Rudas nel saggio non è analizzata però secondo le modalità della sociologia o dell’antropologia, ma secondo l’ottica specifica dell’attenzione psichiatrica: un’identità scissa, vissuta come problema, dentro i labirinti della sofferenza e dei tormenti, non come tranquilla modalità di essere nel mondo: quella sofferenza che ha segnato l’esistenza individuale e collettiva dei sardi.
Un’identità di cui l’autrice – più che cogliere l’essenza – s’interroga sul corpo dei significati che vogliamo esprimere con essa. Un’Identità dinamica, come percorso e progetto, non data e definita una volta per tutte, il che non significa che non ci sia qualcosa di stabile. Un’identità individuale ma che affonda in un corpo sociale, che invera quella dei singoli e la fa diventare concreta.
Un’identità che nei romanzieri e scrittori sardi – in Deledda come in Lussu, in Giuseppe Dessì e Salvatore Satta come in Salvatore Cambosu e Francesco Masala – è così forte che la Sardegna non è un semplice scenario, uno sfondo, ma la vera protagonista, non un luogo ma il luogo, non l’oggetto ma il soggetto.
Colpisce nel saggio di Nereide, pur in presenza di analisi di tipo psichiatrico e psicanalitico, la cifra della scrittura, la levità e il nitore del linguaggio, la suggestione della sua prosa, che affascina, che incanta e che cattura.
Certo per Nereide Rudas la memoria di noi sardi come una preziosa arborescenza di corallo, anziché ergersi e dilatarsi nell’aria si è inabissata nel nostro mare interno. Invece di espandersi e svilupparsi nel di-fuori, si è sommersa ed estesa nel di-dentro: ma, indovandosi, è diventata tenace e labirintica.
Certo, siamo un’Isola con sacche di arretratezza e di infelicità e non abbiamo ancora metabolizzato il nostro lutto, ma abbiamo grandi possibilità. Per la Sardegna si profila un orizzonte più felice e prospero se sapremmo coltivare e mettere a frutto i coralli nascosti. Bisogna però, secondo l’autrice, impegnarsi in un grande sforzo collettivo, in un serio, profondo e rigoroso progetto culturale. E conclude: allora la misteriosa “creatività” dei sardi di cui ho tentato di illuminare la faccia nascosta, si potrà dispiegare più potente e libera.

Gli ASSASSINI DI SA DIE E L’IGNORANZA

GLI ASSASSI NI DI SA DIE
E L’IGNORANZA.
ORA CI SI METTE ANCHE LA STAMPA

di Francesco Casula

Sono molti i becchini di Sa Die de sa Sardigna. Le istituzioni regionali e i Partiti in primis. Ora ci si mette anche la Stampa: in un quotidiano on line Cagliari-Casteddu, leggo che sarebbe “una inutile festa”.
Mi auguro che sia semplice ignoranza: ovvero che non conoscono (o non hanno capito):
1. Il significato storico.
Intanto occorre chiarire che non si è trattato di “robetta”: magari di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi: come pure è stato scritto. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius al 28 aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
“Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale”,
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico
né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione
di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione, lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.

2. Il significato simbolico.
I Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. E cacciano Piemontesi (con Nizzardi e Savoiardi), non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere. Sono infatti militari, funzionari, impiegati. Cagliari all’alba dell’800 contava 20.000 abitanti, la burocrazia e il potere piemontese 514 esponenti: più di uno per ogni 40 cagliaritani!
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante oggi nella Festa di Sa Die de sa Sardigna è proprio il suo il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Sia ben chiaro: nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza; quel mondo grande e terribile di cui parlava Gramsci.

Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .

Ricordando, a 48 anni dalla sua morte, Salvatore Satta .
 
di Francesco Casula
 
Ricorre oggi il quarantottesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell’anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna. In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina. Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene. Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere – come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente). Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano. Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente. Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”. L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi. Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie. La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.
 
 
 
 
 
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SA DIE DE SA SARDIGNA

SA DIE DE SA SARDIGNA

di Francesco Casula

Pro amentare sa dispidida de sos Piemontesos est nàschida ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma deo prefèrgio a li nàrrere “Festa natzionale de sos Sardos” – cun sa lege n.44 de su 14 Cabudanni de su 1993. Cun issa sa Regione Autònoma de sa Sardigna at chertu istituire una die de su pòpulu sardu, de tzelebrare su 28 de Abrile de cada annu, in ammentu – fia narende- de sa rebellìa populare de su 28 de Abrile de su 1794, est a nàrrere de sos “Vespri sardi” chi nch’ant giutu a s’espulsione dae Casteddu e dae s’Isula de sos Piemontesos e de àteros istràngios fideles a sa corte sabauda, inclùdidu su Vitzeré Balbiano chi nemos podiat bìdere.
Su problema chi oe tenimus in dae in antis, a livellu mescamente culturale, no est tantu su de torrare a pònnere in discussione sa data o, peus, su balore matessi de una “Festa natzionale sarda”, ma de non nche la torrare a unu ritu ebìa, a una vacàntzia iscolàstica ebia o a un’eventu petzi folclòricu e de festa.
Su problema est su de la cambiare in un’ocasione de istùdiu – mescamente in sas iscolas – de s’istòria e de sa cultura sarda, de cunfrontu e de discussione collettiva e populare, pro cumprèndere su chi semus istados, su chi semus e cherimus èssere; pro difèndere e isvilupare s’identidade nostra e sa cussèntzia nostra de pòpulu e de natzione; pro gherrare pro una Comunidade moderna e soverana, chi siat bona a pònnere in campu s’orgògliu e su protagonismu de sos Sardos, detzisos, in fines, a otènnere unu riscatu, o siat unu tempus benidore de ditzosidade e de bonistare, lassende•si in palas sa rassignatzione, sas lamentas, sos prantos e sos cumplessos de inferioridade e aende s’ànimu de “nche bogare” sos “Piemontesos noos” o romanos o milanesos chi siant, non prus pagu barrosos, prepotentes isfrutadores e “tirannos” de cussos dispididos dae Casteddu su 28 de Abrile de su 1794.
“Fu un momento esaltante – at iscritu Giovanni Lilliu – fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Semper e cando, lassende a un’ala totu custu e s’eventu particulare, su chi contat oe est su balore simbòlicu de autocussèntzia istòrica e de fortza unificante. Perunu torròngiu in palas nostàlgicu o risentidu cara a su tempus coladu, duncas: ma su tempus coladu sepultadu, cuadu, rimòvidu, si tratat, in antis de totu, de nche lu tirare dae suta de terra e de lu connòschere, a manera chi diventet fatu nou chi intèrrogat s’esperièntzia de su tempus atuale, pro pònnere fronte a su tempus presente in s’atualidade drammàtica sua, pro definire un’orizonte de sensu, pro nos situare e pro abitare, abertos a s’alenu suo, su mundu, gherrende contra a su tempus de s’ismèntigu. Unu tempus coladu chi – pèrdidu petzi in aparièntzia – tocat de l’agatare ca est durada, eredidade, cussèntzia. In issu, infatis, si inferchit su balore de s’’Identidade, no istàticu e tancadu, non memòria cristallizada ma patrimòniu chi benit dae largu e fundamentu in ue fàghere falare aportos noos de culturas, de bidas individuales e sotziales chi determinant semper identidades noas
Su messàgiu de Sa die est diretu mescamente a sos giòvanos e s’ocasione istòrico-culturale est destinada in antis de totu a sos istudentes, pro chi otèngiant sa cunsapevolesa de apartènnere a un’istòria e a una tzivilidade e de ereditare unu patrimòniu culturale, linguìsticu, artìsticu e musicale, ricu de siendas de elaborare e cunfrontare cun esperièntzias e propostas de unu mundu prus mannu e cumplessu. In ue, moende dae raighinas seguras e frunidos de alas fortes, potzant bolare in artu: sos giòvanos e 

 
 
 
 
 
 
 

Sant’Anselmo d’Aosta

 

Sant’ Anselmo d’Aosta


Nome: Sant’ Anselmo d’Aosta
Titolo: Vescovo e dottore della Chiesa
Nascita: 1033, Aosta
Morte: 21 aprile 1109, Canterbury, Inghilterra
Ricorrenza: 21 aprile
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Canonizzazione:
1163, Roma, papa Alessandro III

Questo Santo è chiamato, a ragione, il primo degli Scolastici, ossia quei filosofi che ripresero lo studio della vera e sana filosofia del grande Aristotile, cristianizzandola.

Nacque Anselmo ad Aosta, cittadina del Piemonte, nell’anno 1033, da Gandolfo e Ermemberga, nobili e ricchi signori. Il padre, uomo d’affari, poco si curò dell’educazione del figlio, anzi conosciuta la sua vocazione la ostacolò. La madre invece, donna di soda pietà, conscia dell’alta sua missione, già con il latte materne instillò nel figlio quella pietà che in modo straordinarie doveva poi onorare il nostro Santo.

Quindicenne deliberò di abbandonare il mondo, tanto gli apparve brutto, e decise di consacrarsi al servizio del Signore. Però la volontà contraria del padre e la repentina perdita della madre lo distolsero dal suo proposito.

Così duramente provato, Anselmo s’abbandonò per un po’ di tempo al malevolo influsso del mondo: il suo spirito si raffreddò, il mondo gli apparve bello ed affascinante ed il suo cuore inesperto gli si attaccò.

Il Signore però l’attendeva, e ben presto lo ritrasse da sì fatale china, servendosi dello stesso suo padre. Incominciò questi a trattare il figlio così severamente, da costringerlo ad abbandonare la casa e cercare in terra straniera un migliore avvenire.

Riparò in Francia ove Dio lo chiamava. Per tre anni andò ramingo senza casa e senza scopo alcuno, ed infine l’amore allo studio lo spinse ad entrare come discepolo nel monastero del Bec in Normandia, ove insegnava il celebre Lanfranco di Pavia.

Quivi Anselmo trovò grande diletto nello studio; il suo cuore delicato che non reggeva ai maltrattamenti paterni, trovò nel suo maestro un nuovo padre che teneramente l’amava e conobbe l’oggetto che veramente doveva amare: il Divin Maestro. Allora ritornarono presto nell’anima sua i giovanili propositi e i santi desideri di perfezione: sicchè decise risolutamente d’abbandonare il mondo. Entrò nell’Ordine Benedettino e vestì l’abito religioso.

« Si vide in lui, scrive il P. Rosa, novizio e giovane professo, l’asceta austero, e il fratello dolce e affabile che si rende caro a tutti; nel priore, il lavoratore indefesso e il provveditore instancabile, custode rigido della disciplina religiosa; nell’abate, il consigliere e il padre autorevole non meno che amabile coi suoi figli; ed inoltre maestro, filosofo e mistico, scrittore e predicatore, promotore e riformatore della vita religiosa ».

È ammirabile la fortezza di quest’uomo : ebbe tanto a soffrire, sia da parte dei confratelli più anziani, sia da parte del re inglese il quale giunse ad esiliano: ma e questi e quelli egli ricambiò con atti di squisita carità.

Dopo alcuni anni d’esilio, fu richiamato alla sua sede primaziale di Cantorbery, ove santamente rese l’anima al Signore che generosamente aveva servito, il 21 aprile 1109.

I suoi scritti gli meritarono dalla S. Chiesa il titolo di Dottore.

PRATICA. Formiamo la nostra mentalità cattolica sopra la dottrina vera che è quella della Chiesa, leggendo i periodici, i giornali, i libri da lei approvati e non permettendoci mai di leggere stampa cattiva o frivola.

PREGHIERA. Dio, che al popolo tuo desti per ministro di eterna salvezza il beato Anselmo, esempio preclaro di pazienza, dehil fa’ che come l’abbiamo avuto dottore in vita sulla terra, così meritiamo di averlo intercessore in cielo.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Canterbury, nell’Inghiltérra, sant’Ansélmo Vescovo, Confessore e Dottore della Chiesa, illustre per santità e per dottrina.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Quando nacque Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Dove nacque Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Quando morì Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Dove morì Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Di quali comuni è patrono Sant’ Anselmo d’Aosta?

     

  • Chi sono i dottori della Chiesa?

     

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San Giovanni Damasceno

– San Giovanni Damasceno
Sacerdote e dottore della ChiesaS. Giovanni Damasceno nacque a Damasco da illustre famiglia e studiò filosofia e teologia a Costantinopoli, sotto la guida del monaco Cosma. L’empio imperatore…

San Gregorio Nazianzeno

– San Gregorio Nazianzeno
Vescovo e dottore della ChiesaS. Gregorio, detto il Teologo per la sua profonda scienza delle Sacre Scritture, nacque da nobili genitori l’anno 329 nella piccola città di Nazianzo in…

Sant' Ildegarda di Bingen

– Sant’ Ildegarda di Bingen
VergineIldegarda di Bingen sarebbe stata famosa in qualunque secolo, ma nel suo i risultati e la sua influenza, particolarmente come donna, furono straordinari…

San Giovanni d'Avila

– San Giovanni d’Avila
SacerdoteGiovanni, prete santo, mistico e scrittore, godette grandissima stima nella Spagna del xvi secolo; fu amico di S. Ignazio di Loyola (31 lug.) e consigliere…

San Gregorio di Narek

– San Gregorio di Narek
Dottore della Chiesa armenaSan Gregorio nacque in Armenia nel 951 da insigne famiglia sacerdotale — suo padre era arcivescovo — ed era ancora fanciullo quando fu affidato alle cure…

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Oggi 21 aprile si venera:

Sant' Anselmo d'Aosta

Sant’ Anselmo d’Aosta
Vescovo e dottore della ChiesaQuesto Santo è chiamato, a ragione, il primo degli Scolastici, ossia quei filosofi che ripresero lo studio della vera e sana filosofia del grande Aristotile, cristianizzandola. Nacque Anselmo ad Aosta…

Domani 22 aprile si venera:

San Leonida di Alessandria

San Leonida di Alessandria
Martire, padre di OrigeneQuesto nome venne già portato e illustrato dal valoroso re di Sparta, caduto alle Termopili, alla testa dei suoi eroici soldati. Anche il Leonida cristiano fu un valorosissimo combattente che suggellò…

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Oggi 21 aprile nasceva:

San Gennaro

San Gennaro
Vescovo e martireS. Gennaro nacque nella seconda metà del secolo III molto probabilmente a Benevento anche se alcune fonti dicono che sia venuto alla luce a Napoli. Di famiglia nobile e molto cristiano, predilesse fin…

Oggi 21 aprile si recita la novena a:

– Santa Caterina da Siena
I. Per quello spirito di orazione che voi aveste fin da bambina, per cui in essa metteste tutte le vostre delizie, e con l’angelica salutazione tante volte da voi ripetuta quanti erano i gradini delle…
– Santa Gianna Beretta Molla
O Dio, nostro Padre, tu hai donato alla tua Chiesa santa Gianna Beretta Molla, che nella sua giovinezza ha cercato amorevolmente te, e a te ha portato altre giovani, impegnandole apostolicamente in testimonianza…
– San Giorgio
I. Incomparabile s. Giorgio, che, professando fra i disordini della milizia idolatra il cristianesimo il più perfetto, dispensando ai poveri tutte le sostanze di cui per la morte di vostra madre diveniste…
– San Luigi Maria Grignion da Montfort
1. O grande apostolo del regno di Gesù per Maria, tu che indicasti alle anime i sentieri della vita cristiana suggerendo l’osservanza delle promesse battesimali e insegnasti come un segreto di santità…
– San Marco
I. Glorioso s. Marco, che al primo udire le prediche di s. Pietro, vi convertiste alla fede con tanta sincerità e con tanto fervore da essere da s. Pietro medesimo denominato suo figlio, e, come tale…