Archivi giornalieri: 1 aprile 2023

Cessione del quinto

è stata trattenuta solo la cessione del quinto

 

Avevo una cessione del quinto e una delega di pagamento di ulteriore 1/5 sulla busta paga, andando in pensione con quota 100 . La banca ha avuto il rimborso dall’assicurazione della somma rimanente della delega rimanente. Qualche mese fa l’assicurazione tramite il suo legale mi ha mandato una raccomandata A. Chiedendo il rimborso di circa 7500 euro quale somma erogata alla banca per il saldo della delega di pagamento. Può l’assicurazione pignorarmi la pensione? Nel caso che una finanziaria procede al pignoramento, i due pignoramenti sono della stessa natura?

La compagnia assicuratrice copre il creditore (la banca) per il mancato rimborso del prestito delega da parte del debitore in seguito ad anticipato passaggio in quiescenza (pensione quota 100): è naturale che se il debitore non salderà l’importo residuo in unica soluzione, la compagnia assicuratrice provvederà al pignoramento della pensione presso INPS in modo da ottenere una trattenuta mensile finalizzata al rimborso coattivo del residuo prestito delega rimasto insoddisfatto.

Il fatto che la pensione sia già gravata da trattenuta mensile finalizzata al rimborso di un prestito dietro cessione del quinto, anch’esso originato da un anticipato passaggio in pensione, è assolutamente irrilevante. Il prestito dietro cessione del quinto, infatti, non rimborsato nel corso della vita lavorativa per cause di forza maggiore, in base alla normativa vigente, può essere esteso alla retribuzione pensionistica senza necessità, per il creditore insoddisfatto, di procedere con il pignoramento della pensione (e, in effetti, nel caso illustrato la compagnia assicuratrice non risarcisce il creditore: il risarcimento viene erogato solo in caso di premorienza del debitore rispetto ai tempi di estinzione del prestito dietro cessione del quinto.

Dopo l’azione esecutiva promossa dalla banca che ha erogato il prestito delega rimasto insoddisfatto dal debitore andato in pensione prima del tempo, sulla pensione insisteranno due trattenute: una per il rimborso del prestito dietro cessione del quinto e l’altra per pignoramento in seguito al mancato rimborso del prestito delega. In altre parole, sulla pensione insisteranno trattenute fino al 40% dell’importo spettante al pensionato al netto degli oneri fiscali.

Un altro creditore che volesse procedere giudizialmente per ottenere il rimborso forzato di un ulteriore prestito erogato al pensionato e da questi non rimborsato, si vedrà assegnato solo il 10% della quota eccedente il minimo vitale della pensione (le trattenute su stipendio e pensione non possono essere superiori al 50% delle somme accreditate) mentre la trattenuta del restante 10% (della quota eccedente il minimo vitale) verrà accodata dal giudice, cioè per vedersi assegnata la ulteriore trattenuta mensile finalizzata al rimborso coattivo del prestito erogato e non rimborsato, il creditore del nuovo finanziamento dovrà attendere che venga completamente rimborsato il prestito delega, dal momento che il prestito delega è un credito della medesima natura di qualsiasi altro prestito erogato, a favore del creditore, da una banca o da una finanziaria.

1 Aprile 2023 · Patrizio Oliva

 
 

Avviso di selezione pubblica per 483 operatori sociali

Avviso di selezione pubblica per 483 operatori sociali

La domanda di partecipazione può essere inviata online dal 3 al 21 aprile 2023

Pubblicazione: 31 marzo 2023

È stato pubblicato un avviso pubblico per il reperimento di 483 operatori sociali/esperti ratione materiae, cui conferire incarichi individuali con contratto di lavoro autonomo per lo svolgimento di prestazioni libero professionali per l’espletamento di adempimenti sanitari di competenza istituzionale, in relazione agli obblighi di legge (legge 104/92 e legge 68/99) e progetto HCP (Home Care Premium).

La domanda di partecipazione può essere inviata esclusivamente online, tramite credenziali SPID, CNS o CIE, utilizzando il modulo indicato sulla pagina dell’avvisodalle 10 del 3 aprile fino alle 14 del 21 aprile 2023

Domande mutuo ipotecario edilizio: avviso per la prima graduatoria

Domande mutuo ipotecario edilizio: avviso per la prima graduatoria

Online l’avviso relativo alla prima graduatoria delle domande di concessione di mutuo ipotecario edilizio per gli iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali (Fondo Credito)

Pubblicazione: 31 marzo 2023

L’Istituto comunica che è stato pubblicato l’avviso con cui si informano gli utenti iscritti alla Gestione Unitaria delle prestazioni creditizie e sociali (Fondo Credito) che le graduatorie relative alle domande di mutuo e surroga presentate nel mese di febbraio, a partire dal 4 febbraio, saranno pubblicate nella prima settimana di aprile.

Avviso di selezione pubblica per 701 medici

Avviso di selezione pubblica per 701 medici

È online l’avviso pubblico per la selezione di 701 medici con funzioni relative all’invalidità civile e alle attività medico-legali in materia previdenziale e assistenziale affidate all’INPS

Pubblicazione: 31 marzo 2023

È stato pubblicato un avviso pubblico per la selezione di 701 medici ai quali conferire incarichi individuali finalizzati ad assicurare il presidio delle funzioni relative all’invalidità civile e alle attività medico-legali in materia previdenziale e assistenziale affidate all’INPS (Accordo Collettivo Nazionale sottoscritto l’11 ottobre 2022 tra l’INPS e le Organizzazioni Sindacali di categoria maggiormente rappresentative a livello nazionale).

La domanda di partecipazione dovrà essere inviata esclusivamente online, tramite credenziali  SPID, CNS o CIE, utilizzando il modulo disponibile nella pagina dell’avviso dalle 10 del 5 aprile alle ore 14 del 26 aprile 2023.

I musei abruzzesi sono i meno visitati d’Italia Abruzzo Openpolis

I musei abruzzesi sono i meno visitati d’Italia Abruzzo Openpolis

Nonostante un patrimonio culturale enorme, il quadro dei musei abruzzesi non è dei migliori e il Pnrr potrebbe non aiutare. Ne abbiamo parlato con il responsabile di una delle strutture che accolgono più visitatori per capire come invertire il trend.

 

L’Abruzzo dispone di un patrimonio culturale sterminato, stratificato in secoli di storia. Un insieme di beni culturali e architettonici, tradizioni e tipicità locali, aspetti ambientali e paesaggistici che rendono la regione così peculiare.

Eppure nel 2021 i musei abruzzesi sono stati tra i meno visitati in Italia. Inoltre, a oggi tra gli interventi dedicati alla cultura in Abruzzo previsti nel piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) non vi sono musei.

Tuttavia in regione ci sono anche pratiche virtuose, come il museo delle armi e delle mappe antiche all’interno della fortezza di Civitella del Tronto (Teramo), che risulta essere il polo più visitato in tutto Abruzzo.

L’Abruzzo è ancora indietro

Nel 2021 i musei aperti in regione hanno totalizzato 193mila visitatori, facendone la penultima regione del paese (l’ultima è il vicino Molise, con 96mila accessi). E va ancora peggio in rapporto al numero di strutture, dove l’Abruzzo è addirittura ultima. Nel 2021 ogni museo ha accolto mediamente 2.300 visitatoricontro una media nazionale di 11.336.

Dati che colpiscono se rapportati al patrimonio culturale della regione e che la pandemia può spiegare solo in parte. Nel 2019 le visite per struttura erano state molte di più (oltre 3.700) ma comunque collocavano la regione all’ultimo posto in Italia per utenza media. Distante dalla quota nazionale di quasi 30mila visitatori per struttura in quell’anno.

Solo pochi musei abruzzesi, prima e dopo la pandemia, sfuggono a questa tendenza.

A oggi neanche il Pnrr sembra poter contribuire alla crescita dei poli museali della regione. Come abbiamo scritto lo scorso settembre, infatti, tra gli 87 interventi finanziati dal ministero della cultura nel Pnrr non sembrerebbero esserci musei.

Le potenzialità ancora inespresse

Dal punto di vista tematico, in Abruzzo prevale l’offerta di musei di archeologia, parchi e aree archeologiche: 21 tra complessi e strutture, per un totale di oltre 47mila visitatori nel 2021: circa 2.200 ciascuno in media. A questi si possono aggiungere i 3 musei di storia, con 1.265 accessi complessivi nel 2021.

Vi sono poi 16 musei d’arte: 8 per quella moderna e contemporanea (con quasi 3mila visitatori totali nel 2021, 354 ciascuno) e altrettanti per quella dal medioevo all’800 (con oltre 13mila visite complessive, 1.700 per struttura). Seguono 11 musei di antropologia e etnografia, 10 su natura, scienza e tecnica e 10 tra chiese, luoghi di culto e di esposizione di oggetti sacri.

Tuttavia quelli che totalizzano più visite sono 2 architetture fortificate presenti nella regione, che totalizzano insieme quasi 48mila visite. Si tratta del Castello Piccolomini di Celano (17.767 visitatori, terza struttura più visitata in Abruzzo nel 2021) e della fortezza di Civitella del Tronto, che ospita il museo delle armi e delle mappe antiche.

4 su 84 i musei abruzzesi che nel 2021 hanno superato la media nazionale di visitatori.

Dentro la fortezza di Civitella

Quello di Civitella è il museo che ha dichiarato il maggior numero di visitatori nel 2021: 30mila, quasi 3 volte in più della media nazionale, pari in quell’anno a 11.336. Non si tratta di un dato nuovo: anche nel 2018 era risultato di gran lunga quello più visitato in Abruzzo. Uno dei pochissimi in regione a oltrepassare la media nazionale di 11mila visitatori per struttura.

Fabio Bracchi è il presidente della cooperativa Integra, che insieme alla coop Pulchra gestisce da anni la biglietteria, la custodia, le attività didattiche, gli eventi promozionali e in generale i servizi del museo fortezza di Civitella del Tronto, di proprietà comunale. Nel suo vasto perimetro trovano spazio tre piazze d’armi, una ex chiesa e il museo di armi e mappe antiche. Oggi l’area è interessata da lavori di ristrutturazione che interessano principalmente pavimentazione e tetti, per complessivi 6 milioni di euro.


La ex chiesa del museo fortezza

La struttura ha avuto il suo picco di ingressi nel 2016, quando al mese di agosto erano state oltre 45mila le persone a visitarla. Il terremoto che colpì a fine estate l’Appennino centrale “ha creato un solco”, come sottolinea Bracchi, “perché, sia per il terremoto che per la pandemia, ci vuole un attimo a fermarsi e molto a ripartire”. Oggi gli ingressi non sono come nel pre-sisma ma la fortezza nel teramano rimane la più visitata della regione.

In questi anni abbiamo puntato molto sulla comunicazione coordinata. Inoltre, nel 2015 siamo stati uno dei primi musei italiani a sviluppare il tour virtuale, e questo ha portato anche molti ingressi reali. Ovviamente il grosso del lavoro è fatto dagli accordi che stipuliamo con i tour operator.

Si punta molto anche sull’integrazione con il tessuto socio-economico e ricettivo del territorio: “Crediamo che il passaparola sia fondamentale, soprattutto per le piccole strutture di provincia come le nostre – continua Bracchi – ci incontriamo spesso con gli operatori, gli albergatori e con i ristoratori, anche nell’ottica di eventi gastronomici all’interno della fortezza”.

Il museo di Civitella si autosostiene senza finanziamenti pubblici – continua il presidente della cooperativa – anche se non è sempre facile pianificare le attività a medio e lungo termine. Infatti siamo in proroga con il comune, rispetto al nostro contratto di gestione. Vedremo che accadrà, anche se senza avere mai grandi certezze è difficile investire con ampio respiro sul futuro”. Un futuro che in ogni caso i gestori del museo vedono con ottimismo, tanto che dopo la fine dei lavori di ristrutturazione della fortezza l’obiettivo è raggiungere 60mila visitatori annui.

Come allargare la fruizione del patrimonio culturale abruzzese

Pur in un contesto di pandemia, in mancanza del turismo internazionale e con le restrizioni per quello interno, il basso numero di visite ai musei abruzzesi pone una questione ben più ampia dei singoli biglietti staccati.

Parliamo della capacità dell’Abruzzo di proporre in ambito nazionale e internazionale una propria, nitida e distinta, vocazione culturale. Non solo in termini turistici, ma anche di valorizzazione degli aspetti specifici della regione, tanto per i residenti quanto per chi arriva da fuori regione.

Infatti, anche quando parliamo del museo più visitato della regione, una minoranza è composta da stranieri: il 25,4% nel 2022, stando ai dati forniti dallo stesso Bracchi. Degli italiani, invece, la provenienza più frequente è la Lombardia, seguita dai turisti abruzzesi e marchigiani, le due regioni al cui confine si trova il territorio di Civitella.

Valorizzare il territorio e intercettare il turismo internazionale, secondo la direttrice dell’area di scienze sociali del Gran Sasso Science Institute Alessandra Faggian, è una sfida che il sistema culturale ed economico abruzzese dovrebbe porsi.

Non possiamo puntare solo sul turismo e non pensare ad altri usi un po’ più produttivi del territorio. Dovremmo spingere fortemente il turismo internazionale e destagionalizzare. Il turismo è un po’ una perla per noi. Per esempio se gli americani lo scoprissero e riscoprissero avremmo un boom.

In quest’ottica, i dati sui musei sono uno degli indicatori – non l’unico – dei risultati del sistema Abruzzo nel proporsi come realtà culturale vitale. Un approccio che valorizzi e promuova l’identità locale, nella sua apertura al mondo, è prioritario.

1 su 5 i musei abruzzesi che prima della pandemia avevano almeno il 25% di visitatori internazionali.

Tuttavia, prima dell’emergenza Covid, solo una minoranza di musei abruzzesi risultava visitato in modo sistematico da turisti stranieri. Nel 2019, poco più di una struttura su 5 aveva dichiarato tra i suoi utenti almeno il 25% di visitatori internazionali, contro una media italiana di quasi un museo su 3 con una forte componente di visitatori dall’estero.

Cosa serve per un’offerta culturale all’avanguardia

Il 2021 è stato per i musei italiani e abruzzesi un anno di transizione. Con l’emergenza in progressiva uscita ma non del tutto conclusa, si è trattato di un’occasione unica per potenziare e arricchire l’offerta museale.

Un aspetto di cui il patrimonio culturale della regione avrebbe particolarmente bisogno. Solo per fare un esempio, meno del 17% delle strutture regionali dichiara la disponibilità di supporti multimediali, come allestimenti interattivi, ricostruzioni virtuali, realtà aumentata.

27,4% dei musei abruzzesi nel 2021 ha effettuato interventi di ristrutturazione o di ampliamento (media Italia: 28,2%).

Oltre un quarto dei musei d’Abruzzo, in linea con la media italiana, ha in effetti promosso interventi di ristrutturazione dell’edificio, riguardanti i locali, gli impianti, la messa in sicurezza degli spazi o anche l’ampliamento delle superfici.

Sempre uno su 4 (25%) ha svolto interventi di restauro conservativo o di recupero dei beni, una quota inferiore alla media nazionale (31,7%). Ma solo il 22,6% dei musei d’Abruzzo ha rinnovato gli allestimenti, mentre in Italia quelli che hanno approfittato di questa fase per trasformarsi sono stati più di uno su 3 (34,1%). Con punte superiori al 40% in Campania, Lazio e Trentino Alto Adige.

Del resto, solo il 16,7% dei musei abruzzesi ha dichiarato di aver acquisito nuovi beni nel 2021 per ampliare la propria collezione, 12 punti in meno della media nazionale 28,8%.

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Foto: museo fortezza di Civitella del Tronto

 

Il lavoro da remoto prima e dopo la pandemia Europa

Il lavoro da remoto prima e dopo la pandemia Europa

La pandemia ha avuto un forte impatto sul mondo del lavoro, anche se molti effetti sono poco chiari oppure figli di processi ancora in corso. Abbiamo analizzato il fenomeno insieme ad altre 6 redazioni di Edjnet, soffermandoci in questa analisi sul lavoro da remoto.

 
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Il Covid ha avuto un impatto significativo su numerosi ambiti della vita quotidiana delle persone, e il lavoro non ha fatto eccezione. Dalla temporanea sospensione di alcune attività alla crescente consapevolezza collettiva dell’importanza dei lavori “essenziali”. Dal rischio sanitario sul posto di lavoro ai rischi ancora in fase di definizione legati al lavoro da remoto. Fino alle problematiche relative alla separazione tra occupazione e vita privata in ambito domestico, per chi lavorava o lavora tutt’ora da casa. Con un peso particolare sulle donne, considerate ancora – per stereotipi di genere – le principali responsabili della cura della famiglia.

Ma se la pandemia ha realmente modificato il mondo del lavoro, si è trattato di cambiamenti permanenti, di vere e proprie rivoluzioni? Insieme ad altre 5 redazioni dello European data journalism network (Edjnet), sotto la direzione di Alternatives économiques, abbiamo cercato di rispondere a questa domanda, investigando una serie di dimensioni in cui la pandemia ha avuto un impatto sul mondo dell’occupazione. Tra queste, il rapporto tra domanda e offerta e il lavoro da remoto, una condizione ormai consolidata per numerose professioni. Ma anche il ruolo centrale di lavoratori essenziali e piattaforme. Queste ultime hanno infatti visto una crescita senza pari durante il periodo della pandemia. Cercando i dati più recenti per illustrare i cambiamenti che, ormai un anno o due dopo il lockdown, hanno lasciato delle tracce evidenti.

Premessa la difficoltà di valutare la situazione a così poca distanza dall’inizio della pandemia, abbiamo constatato che in tutti i casi il Covid ha comportato dei cambiamenti all’interno del mondo del lavoro. Tuttavia si tratta perlopiù di dinamiche ancora in corso o fittamente intersecate tra loro. Pertanto in questa analisi abbiamo scelto di isolare un elemento, quello che ha rappresentato la maggiore novità all’interno del mondo del lavoro, in Italia in modo particolare, per quanto non è detto che sarà una novità destinata a permanere: il lavoro da remoto.

Il lavoro da remoto, uno dei principali cambiamenti portati dalla pandemia

Come evidenzia Eurostat l’aumento dei lavoratori da remoto è stato uno degli eventi di maggiore portata di questo periodo. Si tratta di una modalità che esisteva già prima dello scoppio della pandemia, ma che era fortemente limitata soprattutto in alcune aree, come quelle rurali.

Mediamente nell’Unione europea le persone che lavoravano abitualmente o occasionalmente da casa costituivano il 14,4% del totale degli occupati, nel 2019. Due anni dopo, successivamente alla fase più dura di lockdown, la quota era salita di quasi 10 punti percentuali.

24% le persone che lavorano abitualmente o occasionalmente da casa in Ue (2021).

Se consideriamo soltanto i lavoratori da remoto “abituali”, la cifra è passata dal 5,5% del 2019 al 13,5% del 2021.

Una situazione che comunque risulta molto diversificata da paese a paese. Registrando le cifre più elevate nei paesi dell’Europa nord-occidentale e quelle più basse nella parte orientale del continente.

Paesi Bassi riportano la quota più elevata di persone occupate che dichiarano di lavorare, abitualmente o occasionalmente, da casa (53,8%). Seguono Svezia, Lussemburgo e Finlandia con quote superiori al 40%. Agli ultimi posti invece alcuni stati dell’Europa orientale e centrale. In particolare Romania e Bulgaria con meno del 10%. A livello regionale spicca il dato di Stoccolma, dove nel 2021 oltre il 40% degli intervistati dichiara di lavorare abitualmente da casa.

L’Irlanda è invece il paese nell’Unione europea che ha registrato il più marcato aumento tra 2019 e 2021 (+19,4 punti percentuali). In nessun caso si è verificato un calo e soltanto la Polonia ha visto un incremento molto contenuto, pari a meno di 1 punto percentuale.

L’Italia e le difficoltà del lavoro da remoto

Stando ai dati Eurostat analizzati sopra, l’Italia è uno dei paesi che, prima della pandemia, registrava la minor incidenza di lavoro da remoto (il quinto dopo Bulgaria, Romania, Lituania e Ungheria). Una situazione che è certamente cambiata con la pandemia stessa, ma che ancora oggi risulta difficile fotografare. In primis per via della carenza di dati a riguardo.

Come evidenzia l’istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), la stragrande maggioranza delle persone non aveva avuto nessuna esperienza di lavoro da remoto prima dello scoppio della pandemia.

87,6% degli intervistati dichiara di non aver mai fatto esperienza di alcuna forma di lavoro da remoto prima dell’emergenza sanitaria.

Da un altro sondaggio, realizzato da Inapp, sappiamo che nella fase più acuta della pandemia quasi 9 milioni di persone, nel nostro paese, hanno lavorato da remoto, pari a circa il 40% di tutti gli occupati. Una cifra che si sarebbe poi abbassata nel 2021 al 32,5%.

Un privilegio, ma con degli aspetti negativi.

Si è trattato certamente di un cambiamento positivo, che ha permesso a molte persone di rimanere a casa durante la fase di emergenza sanitaria, pur continuando a lavorare. E che ha inoltre aperto la strada al ripopolamento delle zone rurali. Un privilegio che tuttavia ha comportato anche una serie di problematiche. Per esempio quella di una maggiore sregolatezza delle ore lavorative, come emerge da uno studio di Eurofound (la fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro). La condizione di lavoro da remoto ha infatti significato spesso, come evidenzia l’agenzia, un eccesso di ore lavorate.

Nel nostro paese Istat ha condotto una ricerca su chi ha continuato a lavorare da remoto anche dopo l’allentamento delle restrizioni (il sondaggio è stato svolto tra dicembre del 2021 e gennaio del 2022) e ne è emerso che oltre la metà degli intervistati avvertiva almeno un ostacolo in tale modalità di lavoro. Tra cui anche la sovrapposizione rispetto ad attività personali e familiari, dovuta proprio alla sregolatezza degli orari lavorativi.

54,2% degli intervistati afferma di aver incontrato almeno una difficoltà, lavorando da remoto.

La difficoltà più frequentemente rilevata riguarda la connessione a internet (28,6%). Una questione che ha a che fare con le ampie disuguaglianze digitali ancora oggi radicate nel n

Il decreto Cutro colpisce i diritti dei richiedenti asilo Migranti

Il decreto Cutro colpisce i diritti dei richiedenti asilo Migranti

Il recente decreto restringe il campo di applicazione dello strumento della “protezione speciale”, introdotta nel 2018 al posto della protezione umanitaria. Si torna al passato, con il rischio dell’aumento dei migranti irregolari.

 

Il “decreto Cutro”, varato di recente dal governo, limita fortemente la protezione speciale, con l’effetto di ledere i diritti dei richiedenti asilo e il rischio di un aumento dei migranti irregolari sul territorio.

Nell’ultimo mese si è parlato molto della tragedia avvenuta a pochi metri della spiaggia di Cutro (Crotone), dove il 26 febbraio oltre cento migranti hanno perso la vita in un naufragio causato dal collasso dell’imbarcazione, proveniente dalla Turchia, che li trasportava. La risposta del governo è stata quella di introdurre, pochi giorni dopo, un decreto che pone ulteriori ostacoli nel percorso dei richiedenti asilo.

Il decreto 20/2023 (detto anche “decreto Cutro”), ancora non convertito in legge, si occupa di “disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione illegale”. Tra i vari temi, si sofferma sui flussi di lavoratori stranieri, sul rinnovo dei permessi di soggiorno e sul potenziamento della rete di centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).

Uno dei cambiamenti più importanti e di maggiore impatto riguarda la protezione speciale. Ovvero una delle modalità attualmente esistenti per garantire l’asilo alle persone straniere presenti sul territorio italiano. Tale forma di protezione non viene eliminata, ma fortemente limitata, annullando di fatto le recenti riforme che l’avevano potenziata.

Cosa si intende con protezione speciale

Quella speciale è una forma di protezione straordinaria, introdotta nel 2018 dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, con il cosiddetto decreto sicurezzaal posto dell’abrogata protezione umanitaria.

Quest’ultima era una forma di protezione residuale riservata a chi, per gravi situazioni di carattere umanitario, non poteva essere allontanato dal territorio nazionale. L’aveva introdotta l’articolo 5 comma 6 del testo unico sull’immigrazione (d. lgs. 286/1998).

Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano.

Salute, età, rischio di trovarsi in situazioni difficili per cause esterne, ambientali o politiche: erano tutte ragioni per accordare la protezione umanitaria. Il decreto sicurezza ha però soppresso tale forma di asilo e l’ha sostituita con una serie di casi straordinari. Come lo sfruttamento lavorativo, la violenza domestica, le cure mediche, le calamità e gli atti di particolare valore civile.

In seguito, il decreto 130/2020 introdotto da Luciana Lamorgese, ministra dell’interno del secondo governo Conte, ha ampliato la categoria della protezione speciale. Contestualmente a questo ampliamento, si è verificato un aumento del numero di casi in cui tale forma di asilo è stata effettivamente accordata.

Negli anni tra il 2016 e il 2018, la protezione umanitaria è stata messa in atto all’incirca nel 21% delle domande di asilo. Sfiorando il 25% nel 2017 (per un totale di circa 20mila persone).

Si può notare invece che l’applicazione della protezione speciale ha avuto un raggio di gran lunga inferiore. Nel 2019 in maniera particolare è stata attuata soltanto nello 0,6% dei casi (per un totale di 616 persone) e nel 2020 nell’1,8% (757). Nel 2021, in seguito alla riforma Lamorgese che, come accennato, ha esteso l’applicazione della protezione speciale, la quota è salita al 13,7% (7.092 persone).

59.159 le persone che hanno ricevuto la protezione umanitaria tra 2016 e 2018.

Nei tre anni successivi (2018-2021), appena 8.465 persone hanno invece ricevuto la protezione speciale, circa 7 volte di meno. La quasi totalità è peraltro attribuibile all’anno 2021 e quindi al momento in cui l’applicazione è stata estesa.

Le strutture per richiedenti asilo e rifugiati.

Esplora il sistema di accoglienza. Scarica i dati.

 
Le strutture per richiedenti asilo e rifugiati.

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Le modifiche introdotte dal decreto n.20

Il decreto 20/2023 non elimina la protezione speciale, ma ne attua una risignificazione giuridica e normativa rispetto all’ultima formulazione del 2020.

Il decreto elimina il diritto alla vita privata e familiare dai criteri per il divieto di espulsione.

L’articolo 7 in particolare modifica l’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione, sui criteri che determinano il divieto di espulsione, abrogando la parte aggiunta dal decreto Lamorgese nel 2020 (il terzo periodo del comma 1.1). Al rischio di subire persecuzioni, tortura e trattamenti inumani o degradanti, la riforma aveva aggiunto la potenziale violazione del diritto alla vita privata e familiare – un diritto fondamentale tutelato dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Affermando che “non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica.” Il “decreto Cutro” elimina tale periodo.

Si torna in questo senso alla concezione precedente, quella del decreto sicurezza, in cui i criteri per ottenere la protezione speciale erano molto rigidi. Facendo quindi un passo indietro rispetto alla riforma che aveva reso la protezione speciale un meccanismo capace, almeno in parte, di sopperire alla protezione umanitaria.

Le espulsioni e l’inefficace politica dei rimpatri

Modificando la normativa che definiva i casi in cui l’espulsione si riteneva non attuabile, il decreto facilita di fatto le espulsioni. Con “espulsione” si intende l’atto amministrativo o giudiziario con cui si obbliga lo straniero a lasciare il territorio nazionale. A differenza di procedure simili come il respingimento, l’espulsione prevede anche un divieto di reingresso per un periodo limitato di tempo.

L’atto di espulsione non comporta l’effettivo allontanamento.

Come evidenzia l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), il provvedimento amministrativo di espulsione si configura, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva 2008/115/Ce (anche conosciuta come “direttiva rimpatri”), come “decisione di
rimpatrio
”. Ovvero come l’atto amministrativo che dichiara l’irregolarità del

soggiorno di un cittadino di paesi terzi e impone o attesta l’obbligo di rimpatrio. Che tuttavia non comporta l’effettivo allontanamento.

Il fine ultimo dell’espulsione è quindi quella di allontanare e rimpatriare i migranti. Tuttavia negli anni si è potuto constatare che i numeri dei rimpatri effettivi hanno sempre costituito una quota molto contenuta delle decisioni prese in questo senso.

Nel 2018 il 21% delle decisioni di rimpatrio si è concluso con un rimpatrio effettivo. Nel 2019 la quota è salita al 30%, mentre nel 2020 ha toccato il punto più basso del quadriennio (14%) e nel 2021 si è attestata al 15%.

Nonostante gli annunci nessun governo fino ad oggi è riuscito ad aumentare il numero di rimpatri in misura significativa. Con queste premesse quindi ridurre la possibilità di accedere a una qualsiasi forma di protezione non può che portare a una crescita del numero di irregolari. Significa incrementare il numero di persone che si trovano sul territorio in una situazione di presunta irregolarità, senza poter lavorare né integrarsi nel tessuto sociale e quindi spesso portate all’illegalità. Una situazione che crea soltanto sacche di disagio, con conseguenze negative sia per i cittadini che per i migranti stessi.

Foto: SeaWatch Italy

 

La disparità di genere nelle regioni italiane Mappe del potere

La disparità di genere nelle regioni italiane Mappe del potere

Le regioni sono organi fondamentali del sistema istituzionale, a cui la costituzione attribuisce anche potestà legislativa. Per questo è importante monitorare la loro attività sotto diversi punti di vista, incluso l’equilibrio di genere.

 

La nascita del governo Meloni ha segnato un precedente importante in Italia. Per la prima volta una donna ha avuto accesso all’incarico più importante dell’esecutivo, quello di presidente del consiglio. Più di recente anche il principale partito di opposizione ha optato per una leadership femminile, quella di Elly Schlein, inaugurando così una dinamica del tutto nuova per la politica italiana.

Ma la politica non è fatta solo di leader nazionali e, per quanto importanti siano queste novità, la questione di genere va analizzata a tutti i livelli. Con l’insediamento dei nuovi consigli regionali in Lombardia e Lazio gli organi rappresentativi delle regioni italiane sono di nuovo tutti in carica. Possiamo quindi verificare come sono cambiati gli equilibri di genere da questo punto di vista.

Regioni e norme sull’equilibrio di genere in consiglio

Per analizzare la dinamica di genere all’interno delle giunte e dei consigli regionali bisogna innanzitutto tenere presente che, come stabilito dalla costituzione (art. 122), sono gli statuti e le leggi regionali a disciplinare i meccanismi di elezione del consiglio e del presidente della giunta. Questo però avviene nel quadro di una disciplina di carattere nazionale.

In materia di equilibrio di genere nel 2012 e poi nel 2016 sono state introdotte delle modifiche alla legge 165/2004. Con questi interventi si è provveduto a definire un quadro comune prevedendo 3 diversi meccanismi a seconda del tipo di legge elettorale adottato dalla regione:

  • sistema proporzionale con voto di preferenza – il genere più rappresentato non può eccedere il 60% delle candidature, inoltre devono essere previsti almeno 2 voti di preferenza distinti per genere;
  • sistema proporzionale senza voto di preferenza – oltre alla proporzione del 60% i nomi in lista devono essere in ordine alternato di genere;
  • sistema uninominale – il totale delle candidature di ciascuna lista deve rispettare il criterio del 60%.

Per le regioni a statuto speciale però il discorso è differente. Queste infatti non devono conformarsi a una norma nazionale, ma solo ai loro statuti. Pur prevedendo questi delle norme più o meno generiche sull’equilibrio di genere (legge costituzionale 2/2001) le regioni a statuto speciale sono dei casi a parte che non possono essere uniformati alla disciplina generale.

Le donne nei consigli regionali

Come abbiamo visto le leggi elettorali regionali intervengono sui candidati prevedendo in particolare che nessun genere sia rappresentato in misura inferiore al 40%. Le ragioni principali di questo approccio sono sostanzialmente due. Intanto intervenendo sui candidati piuttosto che sugli eletti si incide in maniera molto più indiretta sulla libera scelta degli elettori evitando profili di incostituzionalità. La soglia del 40% invece è solitamente accettata come margine entro il quale si può considerare sostanzialmente garantito l’equilibrio di genere.

Tuttavia quando si passa dalla proporzione di candidati a quella degli eletti le cose cambiano significativamente e da almeno il 40% di candidate si passa al 23,5% di consigliere regionali. Una differenza considerevole che porta con sé molte domande su quali siano i meccanismi politici, sociali e culturali alla base della disparità di genere.

Solo nel consiglio dell’Emilia-Romagna le donne sono almeno il 40%.

In effetti solo nel consiglio regionale dell’Emilia-Romagna le donne raggiungono il 40%. Lazio, Umbria, Veneto e Toscana seguono, superando almeno il 30% mentre in altre 8 regioni la quota di consigliere oscilla tra il 19% e il 29%. Tra queste anche la Lombardia (27,5%) che, come il Lazio, è recentemente andata alle elezioni.

In fondo alla classifica si trovano invece Puglia (13,7%), Friuli-Venezia Giulia (12,2%), Basilicata (9,5%) e Valle d’Aosta (8,6%).

Quantomeno in Puglia, nonostante il basso numero di consigliere, la presidenza dell’aula è stata affidata a una donna (Loredana Capone). Un caso quasi unico nel 2023. L’unica altra regione con una presidente del consiglio è l’Emilia-Romagna (Emma Petitti).

le donne a ricoprire il ruolo di presidente del consiglio regionale. Loredana Capone in Puglia e Emma Petitti in Emilia-Romagna.

L’andamento storico negli ultimi anni

Nonostante numeri ancora piuttosto bassi è innegabile che l’introduzione di un quadro normativo comune a livello nazionale in materia di equilibrio di genere abbia favorito la crescita del numero di donne nei consigli regionali. Dopo l’introduzione delle modifiche legislative del 2012 e del 2016 le regioni hanno iniziato a integrare le nuove regole nella propria normativa e tra il 31 dicembre 2014 e lo stesso giorno del 2020 si è assistito a un chiaro aumento della presenza femminile. Per gli anni successivi il dato ha continuato a crescere ma in maniera meno marcata.

Un percorso inverso invece è stato seguito dalle giunte regionali. Qui infatti nel 2015 la quota di donne raggiungeva il 34,3% ma nei 5 anni successivi è calata di quasi 10 punti (24,9%). Dopo il 2020 il dato è tornato a crescere ma in maniera molto contenuta. È difficile stabilire con certezza le ragioni di un calo così evidente. Si possono però rilevare 2 elementi significativi, uno di tipo normativo e l’altro politico.

Intanto è importante sottolineare come, contrariamente a quanto avviene per i consigli regionali, non esistono norme nazionali che incentivino l’equilibrio di genere in giunta. Un meccanismo che invece è previsto nei comuni delle maggiori città italiane.

Dal punto di vista politico invece si può osservare come nel 2015, anno di massima rappresentanza femminile nelle giunte regionali, il centrosinistra amministrava 3 regioni italiane su 4. Oggi invece la situazione è ribaltata ed è il centrodestra a governare nella maggior parte delle regioni. Questo dato ovviamente non implica che le amministrazioni di centrodestra siano necessariamente meno attente all’equilibrio di genere. Basti pensare che oggi, come vedremo, l’unica donna alla guida di una regione è un’esponente della Lega, Donatella Tesei.

La disparità di genere nelle giunte regionali

Dopo alcuni anni in cui la quota di donne in giunta è tornata lievemente a crescere oggi il dato nazionale si assesta al 26,6%, circa 3 punti percentuali sopra i consigli regionali (23,5%).

le regioni in cui le donne in giunta superano il 40% (Toscana e Lazio).

Sono solo 2 le regioni in cui la quota femminile supera il 40%: la Toscana (44,4%) e la nuova giunta regionale del Lazio (45,4%)Precisamente a 1/3 arrivano invece Umbria e Veneto e poco sotto Sicilia, Sardegna (entrambe al 30,8%) e Friuli-Venezia Giulia (30%). Leggermente più basso poi il dato della nuova giunta regionale Lombarda (29,4%).

In fondo alla classifica invece Abruzzo, Marche (entrambe 14,3%), Liguria (12,5%) e Valle d’Aosta. Anche qui la giunta è entrata in carica solo di recente, ma in questo caso nessun incarico è stato conferito a una donna.

È utile specificare che la proporzione non considera i sottosegretari di giunta. Si tratta di un tipo di incarico non previsto dalla costituzione e introdotto solo in alcune regioni. Il caso più significativo è quello della Lombardia, dove i sottosegretari sono ben 4, mentre in Emilia-Romagna, Abruzzo e Molise ne è stato nominato uno solo.

Includere i sottosegretari nel conteggio però non fa che peggiorare la dinamica di genere nelle regioni interessate, visto che quasi sempre l’incarico è conferito a un uomo.

Infine se si guarda agli incarichi di vertice in giunta i dati sono ancora più bassi, in particolare rispetto ai presidenti di regione.

regione italiana è governata da una donna. L’Umbria con la presidente Donatella Tesei.

Non che negli scorsi anni il dato fosse molto maggiore. Nel 2015 ad esempio le presidenti di regione erano 2: Debora Serracchiani in Friuli-Venezia Giulia e Catiuscia Marini sempre in Umbria. D’altronde in questa regione è dal 2000 che il vertice della giunta è guidato da una donna.

Cinque invece le regioni con una vicepresidente: Lazio, Veneto, Calabria, Emilia-Romagna e Toscana.

Foto: Donatella Tesei (Facebook)

 

Un quinto delle entrate comunali proviene da altri enti Bilanci dei comuni

Un quinto delle entrate comunali proviene da altri enti Bilanci dei comuni

I trasferimenti da amministrazioni centrali sono entrate slegate dai corrispettivi in termini di servizi ma contribuiscono ai bilanci delle amministrazioni.

 

I comuni, enti di prossimità per eccellenza, erogano servizi fondamentali per le comunità. Per questo hanno bisogno di fondi adeguati che garantiscano stabilità. Questi possono derivare da strumenti predisposti dalle amministrazioni stesse, come per le imposte e le multe, ma anche da trasferimenti di altri enti e organi dello stato. Si tratta di un contributo non da poco per le casse dei comuni.

20,09% l’incidenza media dei trasferimenti correnti da amministrazioni pubbliche sui bilanci comunali (2021)

Le entrate per trasferimenti correnti da amministrazioni pubbliche

Questa particolare fonte di entrata rientra tra i trasferimenti correnti. Si tratta di tutte le entrate diverse da tributi e tariffe. Possono essere incassate dallo stato, dai cittadini, dalle imprese oppure da altri enti. In questo caso particolare, le amministrazioni pubbliche considerate sono i ministeri, le agenzie, le regioni oppure altri enti locali.

A questo tipo di entrate non corrisponde una controprestazione in termini di beni e servizi. Inoltre, essendo queste entrate di tipo corrente, non possono essere utilizzate per finanziare i progetti di investimento come la costruzione di infrastrutture o l’acquisto di immobili. Andiamo quindi ad analizzare, comune per comune, questa fonte di sostentamento così importante.

A Venezia si registrano le entrate maggiori tra le grandi città italiane, con 1.203,97 euro pro capite. A seguire Trieste (865,71), Milano (857,9) e Napoli (627,85). Incassano invece di meno a Messina (248,97), Catania (243,50) e Genova (217,97).

Generalmente, le città considerate riportano degli andamenti di crescita tra il 2016 e il 2021, ad eccezione di Trieste che presenta un andamento più vario. Questo comune dal 2016 al 2020 riportava i valori più alti mentre nel 2021 gli incassi di Venezia hanno superato quelli del capoluogo giuliano. È però Napoli la città in cui le entrate sono incrementate di più rispetto al 2016 (+250,34%). In altri due grandi comuni gli importi si sono più che raddoppiati in questi anni: Venezia (+230,62%) e Milano (156,83%). Aumenti più contenuti invece a Trieste (+23,13%) e a Roma (20,49%).

Ampliando invece l’analisi all’intera penisola, le entrate medie delle amministrazioni sono pari a 297,30 euro pro capite. Mediamente, gli incassi maggiori si registrano nei territori autonomi della Valle d’Aosta (2.142,82 euro pro capite), della Sardegna (1.295,05) e del Friuli-Venezia Giulia (785,43). Incassano di meno invece i comuni dell’Emilia-Romagna (117,55 a persona), della Lombardia (113,83) e del Veneto (107,82).

Tra le amministrazioni italiane, quella che registra gli incassi pro capite maggiori è Ussita, in provincia di Macerata, con 11.343,62 euro. Seguono Rhemes-Notre-Dame (Aosta, 11.038,12), Baradili (Oristano, 9.498,15) e Castelsantangelo sul Nera (Macerata, 7.450,55). Sono 419 i comuni italiani in cui le entrate superano i mille euro pro capite.

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