Archivio mensile:febbraio 2023

Master Executive 2022-2023: avviso per ampliamento posti disponibili

Master Executive 2022-2023: avviso per ampliamento posti disponibili

Aumentati i posti per le borse di studio dei Master di I livello da 416 a 418 e per le borse dei Master di II livello da 884 a 904

Pubblicazione: 24 febbraio 2023 Ultimo aggiornamento: 24 febbraio 2023

È stato pubblicato l’avviso per l’ampliamento posti disponibili per i Master universitari Executive 2022-2023.

Il Bando fornisce Borse di studio in favore dei dipendenti della pubblica amministrazione iscritti alla gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali.

Ad esito di richieste di riesame, l’Istituto ha determinato di approvare il convenzionamento di ulteriori iniziative formative e di aumentare il numero delle borse di studio messe a bando.

Pertanto, si rende noto l’aumento delle borse di studio per i Master di I livello da 416 a 418 e l’aumento delle borse di studio per i Master di II livello da 884 a 904.

L’elenco aggiornato delle iniziative formative è allegato all’avviso.

Case del Maestro: online la graduatoria soggiorni primaverili 2023

Case del Maestro: online la graduatoria soggiorni primaverili 2023

Pubblicata la graduatoria soggiorni primaverili 2023 presso le Case del Maestro di Roma e Fiuggi.

Pubblicazione: 24 febbraio 2023

È stata pubblicata la graduatoria del bando Soggiorni primaverili 2023 presso le Case del Maestro, rivolto agli iscritti alla Gestione Assistenza Magistrale in servizio o in pensione e ai loro parenti entro il secondo grado.

Il Bando mette a disposizione, dal 6 all’11 aprile 2023, posti presso le Case del Maestro di:

  • Fiuggi (Frosinone): 146 posti letto.
  • Roma – Piazza dei Giuochi Delfici (Roma): 94 posti letto.

La durata del soggiorno è di sei giorni (cinque notti), con pensione completa e servizi accessori, invece le consumazioni al bar saranno a completo carico degli ospiti.

Master Executive 2022-2023: avviso per ampliamento posti disponibili

Master Executive 2022-2023: avviso per ampliamento posti disponibili

Aumentati i posti per le borse di studio dei Master di I livello da 416 a 418 e per le borse dei Master di II livello da 884 a 904

Pubblicazione: 24 febbraio 2023 Ultimo aggiornamento: 24 febbraio 2023

È stato pubblicato l’avviso per l’ampliamento posti disponibili per i Master universitari Executive 2022-2023.

Il Bando fornisce Borse di studio in favore dei dipendenti della pubblica amministrazione iscritti alla gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali.

Ad esito di richieste di riesame, l’Istituto ha determinato di approvare il convenzionamento di ulteriori iniziative formative e di aumentare il numero delle borse di studio messe a bando.

Pertanto, si rende noto l’aumento delle borse di studio per i Master di I livello da 416 a 418 e l’aumento delle borse di studio per i Master di II livello da 884 a 904.

L’elenco aggiornato delle iniziative formative è allegato all’avviso.

Il viaggio tra i progetti per la rigenerazione urbana in Abruzzo Abruzzo openpolis

Il viaggio tra i progetti per la rigenerazione urbana in Abruzzo Abruzzo openpolis

Per interventi in questo ambito il Pnrr finanzia progetti per 290 milioni di euro in regione. Non tutti, però, sembrano essere interventi di riqualificazione urbana. Vediamoli comune per comune, con un approfondimento sul campo da Vasto.

 

Oltre 290 milioni di euro potrebbero arrivare in Abruzzo attraverso il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e il relativo fondo complementare, per investimenti sulla rigenerazione urbana.

Parliamo di una somma consistente che dovrà essere impiegata per interventi sullo spazio pubblico, che variano a seconda dei progetti e dei territori. In un ambito che per definizione lascia ai decisori margini di manovra per investimenti di varia natura. Questi non sono sempre attinenti alla “rigenerazione urbana”, definibile come quell’insieme di programmi e interventi che intrecciano esigenze sociali, ambientali e di sicurezza dell’abitare, con l’obiettivo di migliorare la vita, nelle città come nei centri minori.

Come vedremo nell’approfondimento sul campo dedicato alla città di Vasto, i progetti per la rigenerazione urbana possono interessare interi quartieri, ma anche singole scuole e persino facciate di palazzi storici.

Quasi 200 interventi in Abruzzo

Grazie all’analisi dei dati e degli atti siamo riusciti a risalire alle fonti di finanziamento per le risorse dedicate all’Abruzzo per la rigenerazione urbana. Questo ci permette di capire in quali territori arriveranno queste somme e per quali progetti.

€ 292,3 milioni le risorse del Pnrr e del fondo complementare per la rigenerazione urbana in Abruzzo. 

A livello nazionale 3,3 miliardi provengono dai fondi per ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale; 2,8 miliardi invece sono frutto del programma innovativo per la qualità dell’abitare (Pinqua). Circa 350 milioni, infine, derivano dal fondo complementare, finanziamenti affidati alla gestione del commissario straordinario del sisma 2016-2017.

Questi importi sono stati inizialmente distribuiti attraverso un decreto di fine 2021, all’interno del quale vengono assegnati all’Abruzzo 117,3 milioni per 66 progetti. Successivamente il ministero dell’interno ha assegnato altri 30 milioni per ulteriori 4 progetti in regione. Altri 85,3 milioni sono stati destinati a 121 progetti per l’Abruzzo attraverso un’ordinanza del commissario straordinario per la ricostruzione post-sisma, firmata nel 2021. Infine, il programma Pinqua prevede lo stanziamento di 60 milioni di euro per 4 progetti.

Complessivamente quindi i progetti che potranno essere realizzati in Abruzzo sono 195.

La maggior parte sono destinati ai territori della provincia dell’Aquila (80 progetti per 90 milioni di euro complessivi), seguita da quelle di Pescara (40 per 42,9 milioni), Teramo (38 per 56,1 milioni) e Chieti (34 interventi per 58,4 milioni). Sono 3, inoltre, le proposte presentate da regione Abruzzo, e che quindi non sono “territorializzabili”. In questo caso vengono assorbiti ben 45 milioni di euro.

Alla provincia di Pescara meno fondi assegnati per la rigenerazione urbana.

Per quanto riguarda la tipologia di interventi, la quota più consistente è relativa alla riqualificazione di spazi pubblici. Questi progetti, che prevedono interventi su piazze, monumenti, parchi e altri spazi collettivi, assorbono il 56,4% del totale dei fondi, pari a circa 165 milioni di euro.

Un altro 19,4% di risorse (56,6 milioni) invece sarà utilizzato per la riqualificazione di immobili. Ciò con diverse finalità: in alcuni casi si tratta di adeguamento sismico, in particolare di edifici scolastici. In altri casi invece l’immobile potrà cambiare destinazione d’uso. La riqualificazione inoltre riguarderà anche edifici dedicati all’edilizia popolare. Da notare infine che una parte dei fondi sarà utilizzata per la riqualificazione di alcuni monumenti e luoghi della cultura come cinema, teatri, biblioteche e auditorium.

Alcuni di questi investimenti li analizzeremo in seguito, per il caso di Vasto.

Nel 2022 sono stati assegnati ulteriori 300 milioni di euro per la rigenerazione urbana. Questi fondi sono stati stanziati con il decreto legge 152/2021 e sono stati fonte di forti polemiche sul finire dello scorso anno. In questo caso infatti le risorse assegnate dal ministero dell’interno sono andate quasi esclusivamente a regioni del mezzogiorno. Tra queste, però, non c’è l’Abruzzo.

0 su 170  i progetti abruzzesi per la rigenerazione urbana finanziati con il decreto del ministero dell’interno del 19 ottobre 2022. 

La motivazione del perché sia accaduto questo è probabilmente da ricercare in larga misura nell’elevatissimo numero di istanze presentate, oltre 5mila per costi complessivi pari a oltre 5 miliardi di euro.

I progetti, comune per comune

I comuni abruzzesi che riceveranno risorse per la rigenerazione urbana sono in totale 84.

I capoluoghi sono quelli che ricevono la maggior quantità di fondi: L’Aquila con 41,3 milioni complessivi (12 progetti finanziati), Chieti (35 milioni per 11 progetti), Teramo (23,7 milioni per 9 progetti) e Pescara (20 milioni per 11 progetti).

È doveroso sottolineare che in alcuni casi si fatica a capire come gli interventi ammessi a finanziamento possano effettivamente rientrare nel perimetro della rigenerazione urbana.

Alcuni progetti non sembrano proprio essere interventi di riqualificazione urbana.

Un caso eclatante da questo punto di vista riguarda gli interventi sullo stadio Adriatico di Pescara, finanziati con 1,6 milioni di euro. Altri progetti invece prevedono la realizzazione di parcheggi. Anche in questo caso il contributo in termini di rigenerazione urbana appare marginale.

Vasto tra quartieri trascurati e palazzi storici

Nel nostro racconto dell’Abruzzo siamo finiti a Vasto, uno dei centri principali della provincia di Chieti, città di riferimento dell’Abruzzo meridionale, a pochi chilometri dal confine con il Molise.

Vasto è un luogo bello e complesso, località costiera che vive di turismo estivo, ma anche di economia industriale, per via dei vicini distretti produttivi di San Salvo e della Val di Sangro, del porto commerciale e di un polo, anch’esso sul mare, legato ai fertilizzanti, alla chimica e ai biocarburanti.

A Punta Penna è stato sgomberato un condominio per rischio crollo. Altri hanno evidenti crepe.

È proprio qui, a pochi metri dal faro di Punta Penna (che con i suoi 70 metri di altezza è il secondo in Italia) e proprio sopra il porto commerciale, che si trova un gruppo di condomini popolari quasi a picco sul mare. Furono costruiti negli anni ’50 per le famiglie dei portuali. Oggi sono abitati ma versano in condizioni precarie, tanto che qualche giorno fa una delle palazzine è stata sgomberata perché a rischio crollo.


Parte delle case popolari a Punta Penna

“Abbiamo ricevuto chiamate da altri inquilini di questo gruppo di case, di gestione e competenza dell’agenzia territoriale per l’edilizia residenziale (Ater), preoccupati per le evidenti crepe dentro e fuori le abitazioni”, racconta a Abruzzo Openpolis Antonino Dolce, giornalista di chiaroquotidiano.it, uno dei principali quotidiani web di questa zona d’Abruzzo.

E in effetti con il porto da un lato, il faro e gli edifici della guardia costiera dall’altro, questo “quartiere senza quartiere” sembra aver rinunciato da tempo all’idea di comunitàNon ci sono bar né servizi, tantomeno piazze. Mentre la vista sul mar Adriatico ci ricorda quanto siamo lontani dal resto della città di Vasto, che sia la sua parte storica o la marina.

Nonostante il comune goda di quasi 5 milioni di euro per 3 progetti di rigenerazione urbana sul proprio territorio, per ora alle case di Punta Penna non arriverà nulla. Ma se due dei tre interventi (un asilo e una scuola per l’infanzia) sembrano avere l’obiettivo di riqualificare le zone dove si insediano, il terzo desta qualche perplessità.

Infatti circa 800mila euro saranno utilizzati per interventi di riqualificazione sulle facciate e della corte di Palazzo D’Avalos, uno dei più iconici della città. L’edificio, che ospita da sempre mostre e concerti, nei prossimi mesi subirà un restyling importante, potendo godere di quasi 10 milioni di euro da almeno altre due fonti di finanziamentofondo per la tutela del patrimonio e progetto “grandi beni culturali”.


La facciata di palazzo D’Avalos

Come molte altre scelte compiute in Abruzzo e nel resto del paese, il concetto vago di “rigenerazione urbana” viene utilizzato anche per rispondere alle esigenze di “decoro urbano” da parte di alcune amministrazioni comunali. Ci sembra questo il caso, avendo finanziato il rifacimento della facciata del palazzo più centrale e importante della città.

È errato e fuorviante scambiare la rigenerazione urbana con il decoro urbano.

Paiono invece essere più tarati gli altri due progetti. Il primo riguarda l’asilo “Carlo Della Penna”, donato negli anni ’50 da un vastese emigrato in Argentina e abbandonato da circa 15 anni. A questo edificio, che tornerà a essere un asilo con il sistema integrato 0-6 anni, andranno 3,2 milioni di euro, pari al 65% del totale destinato a Vasto.


L’asilo “Carlo Della Penna” in abbandono

Anche il terzo progetto riguarda un istituto scolastico: la scuola per l’infanzia “Aniello Polsi”, che si trova nel quartiere popolare Area 167. In questo caso l’edificio verrà riqualificato con fondi pari a 900mila euro.

Interventi almeno sulla carta virtuosi, che fanno da contraltare a zone della città che a prescindere dalle fonti di finanziamento necessiterebbero di interventi di reale rigenerazione urbana. In un discorso purtroppo ampliabile a tante altre città abruzzesi e in generale nel paese.

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Foto: un condominio di Punta Penna a Vasto

 

Che cos’è e come funziona lo spoils system

Che cos’è e come funziona lo spoils system

Lo spoils system è un modello di selezione dei vertici amministrativi su base fiduciaria. Affinché sia in linea con il principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione viene però applicato molto limitatamente.

Definizione

Lo spoils system è un istituto giuridico mutuato dall’ordinamento anglosassone. Si tratta in sostanza di un modello fiduciario di selezione dei dirigenti pubblici da parte del vertice politico. A questo modello si contrappone invece il merit system, ovvero un modello neutrale in cui i dirigenti sono selezionati tramite concorso pubblico.

In linea generale nell’ordinamento italiano vige il modello neutrale, in ossequio agli articoli 97 e 98 della costituzione.

Art. 97 c. 2 – I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Art. 98 c.1 – I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

Proprio per questa ragione negli scorsi anni la corte costituzionale ha censurato alcune leggi nazionali e regionali che istituivano il meccanismo dello spoils system mantenendolo invece intatto solo per i ruoli effettivamente apicali della pubblica amministrazione.

Per quanto riguarda la presidenza del consiglio ad esempio la legge 400/1988 (articolo 18) stabilisce che gli incarichi di segretario generale, dei suoi vice nonché dei capi dei dipartimenti e degli uffici autonomi cessino alla data di giuramento del nuovo governo.

Un termine di 90 giorni è invece previsto per i dirigenti di vertice dei ministeri. Si tratta dei segretari generali, nei ministeri che prevedono questa figura, o dei capi dipartimento, quando il dicastero è strutturato di conseguenza (articolo 19 commi 8 e 3 del D.lgs 165/2001). Trascorso questo periodo senza che l’incarico gli sia stato rinnovato, questo cessa automaticamente.

Nei ministeri in cui le direzioni generali sono strutture di primo livello è prevista la figura del segretario generale. Negli altri le strutture di primo livello sono invece i dipartimenti. Vai a “Come sono organizzati i ministeri”

Che siano posti sotto un segretario generale o sotto un dipartimento invece i direttori generali (ovvero le figure a capo di una direzione generale) non sono sottoposti al meccanismo dello spoils system.

È bene precisare che la nomina al vertice di un’amministrazione, o la revoca da un incarico di questo tipo non implica un ‘alterazione dello status di carriera del funzionario, né tanto meno un licenziamento. Il dirigente che viene sostituito tramite spoils system infatti non viene licenziato, ma solo posto in altro incarico.

Il decreto legge 262/2006 inoltre estende la disciplina prevista per i vertici dei ministeri anche ai direttori delle agenzie.

Tra i ministeri esistono però alcune eccezioni. Ai segretari generali dei ministeri della difesa e degli esteri e ai capi dipartimento del ministero dell’interno infatti non si applica questa norma. Questo perché in queste strutture devono necessariamente essere nominati rispettivamente militari di alto gradodiplomatici e prefetti. Ovvero personale che opera in regime di diritto pubblico (parere del consiglio di stato 2552/2002). Le norme che disciplinano i meccanismi di nomina e cessazione dunque hanno in questi casi carattere specifico. Diversamente da quanto accade per gli altri dirigenti ministeriali, inclusi quelli sottoposti a spoils system (art. 2).

Ma il fatto che nei confronti di queste figure non si applichi il meccanismo dello spoils system, non implica una loro sostanziale inamovibilità, al contrario.

Da sempre […] vige un regime di precarietà degli incarichi per i capi delle ambasciate, delle prefetture, e delle grandi unità militari: possono essere in qualunque momento sollevati dall’incarico e messi a disposizione per decisione dell’autorità politica.

Dati

Per cercare di delimitare un perimetro degli incarichi sottoposti a procedura di spoils system conviene procedere con ordine, partendo dalla presidenza del consiglio.

34 gli incarichi di vertice della presidenza del consiglio nei confronti di cui si applicano le norme relative allo spoils system.

Come abbiamo accennato infatti si tratta innanzitutto del segretario generale e dei suoi vice, che attualmente sono 4. Diversamente dai ministeri poi presso la presidenza del consiglio convivono sia la figura del segretario generale che quella dei capi dipartimento. Presso questa struttura il numero di dipartimenti è attualmente pari a 20. Inoltre la norma si applica anche ai capi dei 9 uffici autonomi.

I ministeri che prevedono la figura del segretario generale sono 8 e tanti dovrebbero essere quindi anche i dirigenti verso i quali si applica la norma, se non fosse per le eccezioni relative ai ministeri della difesa e degli esteri.

i segretari generali dei ministeri nei confronti dei quali si applicano le norme relative allo spoils system.

Tra i rimanenti si trovano quindi i segretari generali dei ministeri dello sviluppo economico, del lavoro e delle politiche sociali, dell’università, della cultura, della salute,
e del turismo.

Infine i ministeri organizzati in dipartimenti sono 7 ma il numero di dipartimenti di cui sono composti cambia a seconda della struttura. Senza contare che anche in questo caso sono da escludere i capi dipartimento del ministero dell’interno.

21 i capi dipartimento dei ministeri nei confronti dei quali si applicano le norme relative allo spoils system.

Si tratta dunque dei capi dipartimento dei ministeri della giustizia, dell’economia,
delle politiche agricole, della transizione ecologica, delle infrastrutture e dell’istruzione.

Analisi

Alla nascita di ogni governo si sente parlare del fenomeno dello spoils system ma non sempre in maniera appropriata, sia rispetto alla ratio, che rispetto al perimetro di questo istituto giuridico.

Non è ad esempio spoils system la nomina di nuovi capi di gabinetto o degli altri funzionari di vertice degli uffici di diretta collaborazione. Questi infatti, come si intuisce dal nome degli uffici, sono ruoli per cui è richiesto uno stretto rapporto fiduciario con il ministro.

Gli uffici di diretta collaborazione sono strutture preposte ad aiutare ciascun ministro a svolgere l’attività di indirizzo politico-amministrativo del dicastero che dirige. Vai a “Che cosa sono gli uffici di diretta collaborazione dei ministri”

Ma non bisognerebbe parlare di spoils system neanche quando la sostituzione di un dirigente avviene al termine del periodo stabilito dal suo contratto, o quando la mobilità riguarda un diplomatico, in una sede estera o presso il ministero, o un prefetto, presso gli uffici centrali o periferici.

La ratio dello spoils system invece è quella di fornire, a ogni nuovo esecutivo, la possibilità di scegliere tra continuità e rinnovamento rispetto a pochi altissimi dirigenti che rappresentano il punto di snodo tra potere di indirizzo politico e amministrativo.

Non a caso quando le norme hanno esteso lo spoils system oltre questo perimetro sono state considerate illegittime dalla corte costituzionale. Estendere il perimetro infatti espone al rischio di politicizzazione del provvedimento amministrativo, minandone l’imparzialità richiesta dalla costituzione.

Peraltro, come si può facilmente verificare, l’importanza di questi dirigenti è tale da non rendere affatto scontato che questi vengano effettivamente sostituti al cambio di colore politico di un governo.

 

I comuni possono fare molto per sostenere la cultura Bilanci dei comuni

I comuni possono fare molto per sostenere la cultura Bilanci dei comuni

Ristrutturazioni, eventi, monumenti, biblioteche, musei, teatri: le amministrazioni possono svolgere un ruolo strategico nella crescita del patrimonio e delle attività culturali dei territori.

 

Il settore culturale è uno di quelli che ha subito più contraccolpi dalle restrizioni dovute alla pandemia. Si tratta di un ambito che già presenta delle peculiari fragilità e che necessita di particolari politiche di tutela e valorizzazione.

Questo rallentamento è trasversale a tutti gli ambiti. Calano ad esempio le persone che hanno partecipato a spettacoli fuori casa.

21,1% le persone che partecipano a una qualche forma di intrattenimento fuori casa (Istat, 2021).

Si tratta di un vero e proprio crollo se si considera che nell’anno precedente questa quota si attestava al 60%. Andamenti simili si registrano anche negli spettacoli cinematografici (-36,2 punti percentuali rispetto al 2020), nelle visite ai musei e alle mostre (-18,4) e la fruizione di spettacoli sportivi (-16,2).

Per contribuire al rilancio di queste attività possono essere fatti degli interventi sia a livello nazionale che a livello locale. In questo i comuni hanno un ruolo importante, effettuando delle spese che vengono poi contabilizzate.

Le uscite per la cultura nei bilanci

Tra le spese delle amministrazioni locali, c’è una missione interamente dedicata alla tutela e alla valorizzazione dei beni e delle attività culturali. Sono comprese al suo interno due voci distinte: “valorizzazione dei beni di interesse storico” e “attività culturali e interventi diversi nel settore culturale”.

Nella prima si considerano tutti gli interventi legati alla ristrutturazione e alla tutela dei luoghi di interesse storico come ad esempio statue e monumenti. Sono comprese inoltre le attività legate alla ricerca e alla divulgazione culturale, oltre ai contributi per la manutenzione e la gestione di biblioteche, musei e teatri.

Nella seconda sono inserite tutte le uscite dedicate alle attività culturali e alla gestione delle biblioteche comunali. Si trovano anche i sostegni economici per le minoranze linguistiche e le attività di culto.

Sono escluse da questa missione tutte le uscite dedicate al turismo, per le quali è presente una sezione a parte.

GRAFICO
DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa per tutela e valorizzazione dei beni e attività culturali. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati. Tra le città italiane con più di 200mila abitanti non sono disponibili i dati di Palermo perché alla data di pubblicazione non risulta accessibile il rispettivo bilancio consuntivo 2021.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2021
(consultati: martedì 21 Febbraio 2023)

 

Le prime quattro città che spendono di più per i beni culturali sono tutte situate nel centro-nord. Si tratta di Firenze (150,90 euro pro capite), Trieste (104,75), Padova (87,08) e Verona (81,73). Si trovano nel sud invece quelle che riportano le uscite più basse: Messina (35,23), Catania (16,11), Bari (11,73) e Napoli (9,52).

GRAFICO
DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa riportata nell’apposita voce di bilancio. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati. Tra le città italiane con popolazione superiore a 200mila abitanti, sono state considerate le 5 che hanno speso di più per la voce considerata nel 2021.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2016-2021
(consultati: martedì 21 Febbraio 2023)

 

Le uscite si sono mantenute piuttosto stabili ad eccezione di un aumento di spesa importante registrato a Trieste. Tra 2017 e 2018 passa infatti da 93,49 euro pro capite a 326,5, una crescita del 250%. La città che ha incrementato di più le uscite tra 2016 e 2021 è Firenze (+57,82%). Seguono Padova (46,67%), Verona (20,06%) e Trieste (7,67%). A Milano invece si spende di meno (-7,72%).

Ampliando l’analisi al resto d’Italia, le amministrazioni spendono in media 32 euro pro capite per la tutela e la valorizzazione dei beni e delle attività culturali. Mediamente, i comuni caratterizzati dalle uscite maggiori sono quelli di territori a statuto speciale: provincia autonoma di Bolzano (110,39), Sardegna (93,91) e Valle d’Aosta (87,79). A registrare le spese minori sono invece i comuni campani (18,74 euro pro capite), quelli calabresi (17,77) e quelli molisani (12,34).

Le uscite maggiori a livello locale si registrano a Santo Stefano di Sessanio, in provincia dell’Aquila. In questo piccolo comune montano nel 2021 sono stati spesi oltre 700mila euro, pari a 6.326,49 euro per ognuno dei suoi 110 abitanti. Seguono Moio de’ Calvi (Bergamo, 1636,47), San Benedetto Belbo (1.401,79) e Bergolo (1.263,7). In questi ultimi due casi si tratta di comuni che fanno parte della provincia di Cuneo.

Sono sei le amministrazioni che superano i mille euro pro capite, si tratta di territori in cui la popolazione non supera i 600 abitanti. È possibile infatti che questi importi pro capite così elevati siano il risultato di ingressi in bilancio dovuti a progetti specifici sulla cultura, come probabilmente è accaduto nel caso di Santo Stefano di Sessanio, che registra entrate pro capite nettamente più alte rispetto al resto dei comuni italiani.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da Openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: comune di Firenze – licenza

 

Le aree interne, tra spopolamento e carenza di servizi #conibambini

Le aree interne, tra spopolamento e carenza di servizi #conibambini

Le province dove più minori vivono nelle aree interne sono quelle destinate a spopolarsi maggiormente nei prossimi anni. Spesso si tratta anche dei territori dove l’offerta di nidi e servizi oggi risulta più carente.

 

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Le aree interne hanno sofferto di un progressivo spopolamento negli ultimi decenni. Parliamo dei territori più distanti dalle città, dove le opportunità di lavoro sono meno frequenti e anche i servizi in molti casi scarseggiano.

Spesso si trovano in contesti montani o isolani che rendono più difficile organizzare una rete di infrastrutture, collegamenti e servizi. Compresi quelli sociali, educativi, culturali, scolastici.

La conseguenza è che ampie aree del paese risultano meno vivibili per le famiglie, specialmente se hanno figli a carico. Da ciò deriva il progressivo spopolamento che ha caratterizzato i comuni periferici, fin dal dopoguerra.

Dal 1951 a oggi, la popolazione nei comuni polo – baricentrici in termini di servizi – è aumentata del 30,6%: da 15,8 a 20,6 milioni di abitanti. Nei comuni cintura, hinterland delle città maggiori, l’aumento è stato del 48,9% (da 16 a quasi 24 milioni). In quelli periferici e ultraperiferici si è registrato un crollo negli ultimi 70 anni, rispettivamente del 17,7 e del 26,4%. Ovvero da 6,7 milioni di abitanti censiti agli inizi degli anni ’50 a 5,4 settant’anni dopo.

-19% i residenti in comuni periferici e ultraperiferici dal 1951 a oggi.

Tale tendenza è proseguita anche negli ultimi anniDal 2011 a oggi la popolazione in Italia è rimasta stabile sui 59 milioni e mezzo di residenti (+0,35%). I poli sono aumentati del 2,5%, gli hinterland sono rimasti stabili (+0,3%), mentre i comuni interni hanno visto un calo in proporzione alla loro distanza dai servizi.

In quelli intermedi, dove si impiegano tra 27 e 40 minuti per raggiungere il polo più vicino, il calo è stato dell’1,9% rispetto agli abitanti censiti nel 2011. Quelli periferici, dove servono tra 40 e 67 minuti, hanno visto la popolazione ridursi del 3,8%Nei comuni ultraperiferici i residenti sono il 4,5% in meno del 2011. Si tratta dei territori più remoti, situati ad almeno 67 minuti di distanza dai poli.

Un trend di progressivo spopolamento che, osservando i dati sulle previsioni di popolazione al 2030, è probabile sia destinato a continuare anche nei prossimi anni.

Il calo dei bambini nelle aree interne da oggi al 2030

Le province con più minori residenti in aree interne sono anche quelle destinate a spopolarsi maggiormente nei prossimi anni.

È quanto emerge se si incrociano i dati sulle previsioni demografiche di Istat al 2030 (formulati su uno scenario mediano) con quelli sull’incidenza di minori in comuni periferici e ultraperiferici.

In media in Italia l’8,6% dei bambini sotto i 2 anni vive in questi comuni interni, distanti oltre 40 minuti dai poli di servizi. E la percentuale cresce ulteriormente in 46 province su 107. Tutte e 46, tranne una (Trento), vedranno il numero di minori calare da qui al 2030. Per 36 di queste il decremento sarà superiore a quello registrato nel paese.

A livello nazionale, il numero di bambini nella fascia demografica più giovane (quella più bassa disponibile è compresa tra 0 e 4 anni) si prevede che cali del -8,32% in questo decennio. Passando da 2,26 milioni nel 2020 a 2,08 milioni nel 2030.

-8,3% i minori fino a 4 anni in Italia tra 2020 e 2030.

Nelle province con tanti bambini che vivono in aree interne tale spopolamento procederà a un ritmo molto più sostenuto. A Nuoro (prima per quota di residenti 0-2 anni in comuni periferici e ultraperiferici, 85% del totale nel 2020) i bambini nel 2030 potrebbero essere il 19,1% in meno di oggi. A Isernia (seconda, con il 66,4% di minori in aree periferiche) si prevede un calo del 16,7%. Enna (terza, 62,75%) potrebbe assistere a una diminuzione di bambini dell’11%.

Territori con pochi servizi e rischio spopolamento

In tanti casi, cali particolarmente significativi colpiranno i territori che oggi hanno una minore disponibilità di servizi educativi, in particolare quelli rivolti all’infanzia.

Una serie di province – 17, tutte del mezzogiorno – attualmente si caratterizzano per un’offerta nelle strutture per la prima infanzia inferiore ai 15 posti ogni 100 bambini residenti con meno di 3 anni.

In tutti e 17 questi territori, i bambini fino a 4 anni nel 2030 saranno meno di oggi. Con un calo che in 15 casi su 17 supera la media nazionale, e in 6 sfonda quota 10%: Crotone (-10,74%), Palermo (-11,87%), Vibo Valentia (-13,79%), Catanzaro (-14,96%), Reggio Calabria (-16,23%) e Cosenza (-17,07%).

Ovviamente, il fenomeno dello spopolamento nei prossimi anni sarà generalizzato in quasi tutto il paese e quindi colpirà anche territori più attrezzati. Basti pensare alle 3 province che superano la quota di 45 posti ogni 100 bambini, Ravenna, Bologna e Ferrara, dove il calo di residenti 0-4 anni oscillerà tra l’8 e il 10%.

Inoltre il caso della Sardegna mostra come anche territori con ampie aree interne, pur in presenza di un livello di servizi in linea o superiore media nazionale, saranno fortemente colpiti dallo spopolamento. E del resto, si potrebbe anche dire che l’offerta dei servizi attuale è commisurata allo spopolamento in corso e previsto per il futuro.

Tuttavia, parlando di politiche pubbliche chiave per il futuro del paese, lo scopo dovrebbe essere proprio invertire la tendenza. Ovviamente nidi e altri servizi rivolti ai minori, come quelli scolastici, sono solo una parte di una strategia per fermare declino demografico.

Ma è anche dalla capacità di offrire servizi per le famiglie e i minori, su tutto il territorio nazionale, che passa sfida per interrompere il calo della natalità. Anche e soprattutto nelle aree più distanti dalle città.

Un focus sui 10 territori più soggetti a spopolamento

Interessante osservare come le 10 province dove entro il 2030 si dovrebbe registrare il maggior calo di bambini siano anche tra quelle con più minori che oggi vivono in aree interne e in cui spesso i servizi sono meno capillari.

10 le province dove il numero di bambini tra 0 e 4 anni diminuirà di oltre il 15% in questo decennio.
Le aree in spopolamento sono spesso quelle più periferiche.

Si tratta di Nuoro, dove oggi oltre l’85% dei bambini con meno di 2 anni vive in un comune periferico o ultraperiferico, Isernia (66,4%), Potenza (53,7%), Campobasso (45,9%). In queste 4 province, tutte ai primi 10 posti per percentuale di minori in aree periferiche, i residenti più giovani nel 2030 potrebbero tra il 15 e il 20% in meno di oggi, secondo lo scenario di previsione mediano di Istat. Segue Cosenza, anch’essa a forte rischio spopolamento e 15esima provincia in Italia con più bambini nei comuni maggiormente distanti dai centri (24,1%).

Tutte le altre province a maggior spopolamento sono comunque tra le prime 35 per quota di bambini in aree interne: Sud SardegnaSassariOristanoReggio Calabria. L’unica eccezione è la città metropolitana di Cagliari, dove un forte spopolamento da qui al 2030 non è associato a presenza di minori in territori periferici.

Sull’offerta attuale di servizi, ad esempio quelli rivolti alla prima infanzia, la situazione è molto variabile tra i territori considerati.

In termini di offerta media (numero di posti rispetto agli utenti potenziali), sono 3 le province in forte spopolamento dove il servizio nel 2020 non raggiunge i 20 posti ogni 100 minori. Si tratta di Cosenza (8,9 posti ogni 100 bambini residenti), Reggio Calabria (14,3) e Isernia (19,8). Potenza e Campobasso si attestano poco sopra questa soglia, con rispettivamente 22,1 e 22,4.

Da questo punto di vista, fa eccezione la Sardegna: pure in forte spopolamento previsto per i prossimi anni, le sue province si attestano su un’offerta di nidi vicina alla media nazionale e in 2 casi (Cagliari e Sassari) anche di poco superiore alla soglia Ue del 33%.

Offerta meno capillare nelle aree periferiche soggette a spopolamento

Tuttavia il quadro cambia se invece della copertura media provinciale si va ad approfondire la capillarità dell’offerta di strutture sul territorio. In 9 province su 10 a maggior spopolamento, meno della metà dei comuni offre il servizio.

Cinque di queste (Nuoro, Oristano, Sud Sardegna, Potenza e Reggio Calabria) sono tra le ultime 15 province in Italia per capillarità del servizio. I comuni che lo erogano in questi territori oscillano tra il 20 e il 25% del totale. Molto meno della media nazionale, pari al 59,3% nel 2020. La città metropolitana di Cagliari è l’unica a superare questa media (76,5% dei comuni dotati del servizio). Nel sassarese e nel cosentino i comuni in cui è garantito si attestano tra il 30 e il 40%, rientrando tra le 30 province su 107 con minore capillarità. Anche nelle aree di Campobasso e Isernia meno della metà dei comuni ne è dotata.

5,7 posti ogni 100 residenti 0-2 anni nelle aree periferiche della provincia di Oristano.

La questione della capillarità del servizio si collega direttamente a quella delle aree interne. Come abbiamo visto, in tutti i territori considerati – eccetto la città metropolitana di Cagliari – una percentuale rilevante di bambini sotto i 3 anni vive in comuni periferici e ultraperiferici.

Bambini che molto spesso vivono in un comune dove il servizio è assente o carente. Nelle aree periferiche l’orografia, l’estensione territoriale e la bassa densità di minori contribuiscono a rendere più difficile la sostenibilità delle strutture.

Copertura potenziale più bassa nei comuni interni.

Perciò a Oristano – dove in media vi sono 25,6 posti ogni 100 minori – la copertura scende al 5,7% se si isolano i soli comuni più distanti dai centri. A Cosenza da un dato medio già basso (8,9%) si scende al 7,1% nei comuni periferici e ultraperiferici, così come a Reggio Calabria (14,3% contro 11,0%). Nel Sud Sardegna da 25,4 posti su 100 si scende a circa 17, nell’area di Isernia da 19,8 a 17,5, nel sassarese da 33,4 a 21. Solo nel territorio di Campobasso i posti presenti nei comuni più periferici (24,3%) superano leggermente la media provinciale (22,4%).

 

Aumenta, rispetto al 2020, l’aiuto pubblico allo sviluppo

Aumenta, rispetto al 2020, l’aiuto pubblico allo sviluppo

Stando ai dati definitivi dell’Ocse, nel 2021, disponibili solo dal dicembre 2022, si può notare, rispetto all’anno precedente, un marcato aumento dei fondi destinati alla cooperazione internazionale da parte del nostro paese.

Il rapporto tra le risorse per l’aiuto pubblico allo sviluppo e il reddito nazionale lordo, indicatore che misura l’impegno di un paese donatore in relazione alla ricchezza nazionale, ha infatti raggiunto lo 0,29%. Mentre nel 2020 si era fermato allo 0,22%. Registrando anche un lieve incremento rispetto ai dati preliminari, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento, i quali vedevano l’aiuto italiano allo 0,28%.

Si tratta tuttavia di una cifra ancora ben lontana dall’obiettivo dello 070, che senza una programmazione adeguata rischia di non essere mai raggiunto, come è stato d’altronde negli ultimi 50 anni.

5,145 miliardi di euro a prezzi correnti, l’Aps italiano nel 2021.

L’Italia è il primo paese, tra i membri del comitato Ocse Dac, per aumento nel passaggio tra 2020 e 2021. Parliamo di un incremento pari al 36% a prezzi costanti (38% a prezzi correnti). Con “prezzi correnti” si intende il valore registrato al momento della rilevazione. Mentre il dato a “prezzi costanti”, usando il valore fissato a un anno di riferimento, ha il vantaggio di appianare gli effetti dell’inflazione e di rendere quindi più agevole la comparazione tra diversi anni.

Sembrerebbe quindi trattarsi di un’importante inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, quando il rapporto Aps/Rnl nel nostro paese era andato progressivamente calando.

Un aiuto oscillante e imprevedibile.

Negli ultimi anni il rapporto Aps/Rnl italiano ha subito continue oscillazioni invece che seguire un costante andamento di crescita nella direzione di arrivare allo 0,70% Aps/Rnl entro il 2030. A partire dal 2014 ha registrato un graduale aumento fino al 2017 quando l’Italia ha raggiunto lo 0,30% Aps/Rnl. La legge di bilancio con cui si era arrivati a quel risultato era stata varata dal governo Renzi e portò l’Italia a raggiungere il suo massimo storico, se pur con alcune importanti criticità. Tuttavia il rapporto è poi calato drasticamente. Nel 2018 (0,25%, governo Gentiloni), nel 2019 e nel 2020 (0,22%, primo e secondo governo Conte).

Nel 2021 la legge di bilancio varata dal secondo governo Conte ha segnato di nuovo un aumento e adesso si tratta di verificare se questa crescita proseguirà nel tempo oppure se si verificheranno nuove riduzioni nelle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo. Un’ipotesi che per varie ragioni, come approfondiremo, non può essere affatto esclusa.

L’aiuto pubblico allo sviluppo complessivo

Ma non solo l’aiuto italiano è cresciuto nel 2021. Dopo 4 anni di sostanziale stagnazione infatti, a partire dal 2020 l’Aps complessivo dei paesi Ocse Dac è tornato a crescere arrivando a sfiorare nel 2021 i 186 miliardi di dollari (a prezzi correnti). Ovvero lo 0,33% del reddito nazionale lordo complessivo dei paesi donatori.

185,9 miliardi $ il valore a prezzi correnti dell’Aps dei paesi Ocse Dac. In prezzi costanti al 2020 si tratta di 175,9 miliardi.

Si tratta complessivamente di una crescita dell’8,5% in termini reali (ovvero a prezzi costanti). Una crescita di oltre 23 miliardi (a prezzi correnti) che tuttavia, come nel caso italiano, non è scontato che resti stabile o cresca ulteriormente nei prossimi anni.

Infatti come vedremo meglio in seguito, buona parte di questo aumento è spiegabile con le risorse aggiuntive che i paesi donatori hanno devoluto per contribuire alla lotta alla pandemia. Quando a un certo punto dovesse venire meno questa necessità non è affatto detto che le nuove risorse vengano reinvestite in altre forme di aiuto pubblico allo sviluppo.

L’articolo è stato redatto grazie al progetto “Cooperazione: mettiamola in Agenda!”, finanziato dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Le opinioni espresse non sono di responsabilità dell’Agenzia.

Foto: Aics Khartoum

 

San Gerlando di Agrigento

 

San Gerlando di Agrigento


San Gerlando di Agrigento

autore: Bottega siciliana anno: sec. titolo: San Gerlando
Nome: San Gerlando di Agrigento
Titolo: Vescovo
Nascita: 1030 circa, Besançon, Francia
Morte: 25 febbraio 1100, Agrigento
Ricorrenza: 25 febbraio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione

Al vescovo Gerlando si deve la riorganizzazione della diocesi di Agrigento dopo la lunga occupazione musulmana che durò dall’829 al 1086. Nominato primicerio della Schola cantorunt della chiesa di Mileto (Catanzaro) dal gran conte di Sicilia Ruggero I degli Mtavilla, dopo la riconquista di Agrigento dall’occupazione araba e il ristabilimento della gerarchia ecclesiastica nell’isola, Gerlando fu nominato, dallo stesso conte, vescovo della città nel 1088, consacrato poi a Roma da papa Urbano 11 (la bolla di conferma pontificia è del 1098).

La sua opera di riorganizzazione della comunità cristiana di Agrigento, che dopo l’occupazione musulmana contava pochi cristiani, lo portò in sei anni a costruire l’episcopio e la cattedrale, dedicati alla Madonna e a san Giacomo.

Fortificò il castello di Agrigento (nome assunto dalla città nel 1927, ma che allora si chiamava Girgenti dal nome Gergent datole dagli arabi). Partecipò poi al convegno di Mazara del 1098, in cui il conte Ruggero I e i vescovi della Sicilia giunsero a un accordo per la ripartizione delle decime; sempre a Gerlando è dato il merito di aver battezzato e convertito il signore arabo Charnud, chiamato poi Ruggero Achmet.

Gerlando morì il 25 febbraio 1100, e le sue reliquie subirono varie traslazioni a opera dei vescovi agrigentini nel 1159 e 1264. Tuttora è venerato come patrono della città siciliana

MARTIROLOGIO ROMANO. Ad Agrigento, san Gerlando, vescovo, che riordinò la sua Chiesa liberata dal potere dei Saraceni.

ANCORA SULLA STATUA di Carlo Felice

ANCORA SULLA STATUA di Carlo Felice
di FA Olbia Francesco Casula presenta il volume "Carlo Felice e i tiranni ...rancesco Casula
Un amico, Raimondo Vargiu mi scrive: “Sa statua esti beni chi abarridi anca esti , poita esti storia , bona o mala chi siada”. A significare che rimuovere la statua di un tiranno = cancellare la storia? Ma è’ una fola, una castroneria. La storia non c’entra niente. Lo spiega e l’argomenta, con saggezza, una ricercatrice di storia dell’Università di Cagliari, Valeria Deplano:” Le statue, come i monumenti commemorativi, o la toponomastica, non sono infatti “la storia”, ma uno strumento attraverso cui specifici personaggi o eventi storici, accuratamente selezionati, vengono celebrati; nella maggior parte dei casi – non sempre – sono le istituzioni, in particolare quelle statali, a scegliere chi o che cosa sia degno di essere ricordato e celebrato. Si tratta di un’operazione centrale per la costruzione di una narrativa nazionale funzionale alla visione del potere stesso: il modo con cui si sceglie di ricordare il passato e di celebrarlo infatti influisce sul modo con cui gli individui e le comunità guardano il mondo, sé stessi e gli altri. Questo vale ovunque, e in qualunque epoca”. Occorre dunque distinguere fra la storia e gli spazi pubblici che, a futura memoria, i tiranni sabaudi si sono riservati per continuare ad affermare il loro dominio, almeno simbolicamente.. E’ il caso della statua di Carlo Felice a Cagliari, in Piazza Yenne, come di tutte le statue sabaude: quella statua sta lì a “segnare” e “marchiare” il territorio, a dirti, dall’alto, che lui è il regnante e tu sardo, sei ancora suddito. Dunque devi continuare a omaggiarlo, a riconoscerlo come tale. Anche se da vice re come da re è stato il tuo carnefice e un tiranno famelico, ottuso e sanguinario. Noi la storia vogliamo dissotterrarla, ma insieme risignificare gli spazi pubblici che i tiranni sabaudi si sono attribuiti per la propria glorificazione, anche con i posteri. Per questo noi del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” proponiamo di “rimuovere” la statua per collocarla nella sua “abitazione”: il Palazzo viceregio. Senza piedistallo. Con una didascalia breve e chiara, magari con le parole di uno storico filo sabaudo e filo monarchico come Pietro Martini: Carlo felice era “Alieno dalle lettere e da ogni attività che gli ingombrasse la mente”. Insomma un imbecille parassita. Oltre che, da vice re come da re, ottuso, famelico e sanguinario. Proponiamo dunque di non abbattere la statua. La riteniamo infatti un “manufatto”, persino con elementi di “bene culturale”, architettonico, scultorio. E’ dunque giusto che venga conservato e non distrutto. Ma non esibito. Esposto in una pubblica Piazza. Come fosse un eroe da omaggiare e non un essere spregevole, oggetto di sprezzo e ludibrio. Lo spostamento di quella statua, sarebbe un evento formidabile per l’intera Sardegna: innescherebbe processi di nuova consapevolezza identitaria e di autostima. E insieme – dato a cui sono estremamente interessato – potrebbe favorire la curiosità, il risveglio e l’interesse per la storia sarda. Al suo posto? Giovanni Maria Angioy, il grande eroe e patriota sardo che cercò di liberare la Sardegna e i sardi dall’oppressione feudale e dai tiranni sabaudi. Tentativo fallito e osteggiato dagli ascari sardi, anche suoi ex compagni “democratici”, vendutisi per un piatto di lenticchie.
 
 
 
 
 
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L’abusivismo edilizio

L’abusivismo edilizio continua a essere un problema in ItaliaAmbiente

Il fenomeno si è diffuso soprattutto tra gli anni ’50 e ’60, ma continua a essere una realtà nel nostro paese, soprattutto nel mezzogiorno. Come rivelano i dati di Legambiente, anche se aumentano i reati, il numero di arresti continua a essere contenuto.

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L’abusivismo edilizio, nella forma di nuove costruzioni o di ampliamento di edifici già esistenti, è purtroppo un fenomeno caratteristico del nostro paese. Oltre a danneggiare la cultura della legalità e quindi il vivere civile, esso favorisce lo sfruttamento dei lavoratori e il proliferare della criminalità organizzata. Ma anche la compromissione del territorio, causando il degrado del paesaggio. Per questo è anche una questione di interesse ambientale.

L’abusivismo edilizio in Italia, una questione storica

Intorno agli anni ’50 e ’60 il nostro paese, che era ancora prevalentemente rurale, ha registrato una immensa espansione edilizia e un rapido processo di industrializzazione. Questo fenomeno ha favorito il ricorso all’abusivismo, che rispondeva, dal punto di vista di costi e tempistiche, alle nuove esigenze. Si trattava infatti di abitazioni a costo molto più basso rispetto a quelle legali, la cui costruzione evitava le procedure standard, sfruttando però il lavoro in nero. Per lo più, l’abusivismo era in mano alla criminalità organizzata.

Negli anni non si è posto rimedio al danno.

Lo stato non è mai riuscito a debellare realmente il fenomeno, che a oggi rimane molto forte in varie aree del nostro paese. È questa la denuncia di Legambiente che negli anni si è occupata molto del fenomeno dell’abusivismo edilizio. Inoltre, non ha preso le misure necessarie per punire i responsabili e demolire le case illegali. Anzi le ha regolarizzate con le due sanatorie edilizie del 1985 e del 1994 e poi con un terzo condono risalente al 2003.

Si è provato, con il Dl semplificazioni (120/2020) a risolvere il problema dell’inerzia delle amministrazioni comunali in fatto di demolizioni, facendo passare la prerogativa nelle mani dello stato centrale (specificamente, delle prefetture). Tuttavia, come rileva Legambiente, poco tempo dopo una circolare interpretativa ha minimizzato l’efficacia della norma, restringendo l’ambito d’azione dei prefetti ai soli abusi edilizi accertati dopo l’entrata in vigore della legge ed escludendo inoltre tutte le ordinanze su cui sia pendente un ricorso.

La situazione oggi

Secondo i dati provvisori Istat, raccolti nel rapporto Bes (benessere equo e sostenibile), ancora nel 2021 sono ancora molte le residenze costruite illegalmente.

15,1 le costruzioni abusive per ogni 100 autorizzate in Italia nel 2021.

La situazione appare estremamente eterogenea da regione a regione. Il sud del paese in particolare è fortemente vessato dal problema dell’abusivismo edilizio.

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DA SAPERE

I dati sono provvisori. L’indice di abusivismo elaborato da Istat è una misura di flusso riferita all’edilizia residenziale, che esprime la proporzione delle costruzioni abusive realizzate nell’anno di riferimento in rapporto a quelle autorizzate dai comuni. Non rappresenta, quindi, la quota di costruzioni abusive sul totale delle costruzioni realizzate nell’anno di riferimento (né sullo stock delle costruzioni). Sono quindi indicate le costruzioni abusive ogni 100 costruzioni autorizzate. I valori di Piemonte e Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Marche, Abruzzo e Molise, Basilicata e Calabria sono riferiti all’insieme delle due regioni.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Istat
(consultati: venerdì 17 Febbraio 2023)

 

Il tasso di abusivismo edilizio tocca livelli molto bassi nel nord del paese in particolare in Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, dove sono state meno di 4 ogni 100 costruzioni autorizzate. Mentre la regione che riporta la quota più elevata è la Campania con circa 49 abitazioni che nel 2021 risultano essere state costruite senza un permesso ufficiale, ogni 100 regolari. Seguono sotto questo aspetto Calabria e Basilicata (48) e Sicilia (46). I valori di alcune regioni (Piemonte e Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, Umbria e Marche, Abruzzo e Molise, Basilicata e Calabria) sono considerate da Istat in aggregato.

Legambiente, nell’ambito del suo progetto No Ecomafia, che traccia l’attività della criminalità nell’ambito ambientale, segue il fenomeno dell’abusivismo edilizio, registrando a livello territoriale il numero di reati commessi, di persone denunciate, di sequestri e di arresti.

9.490 i reati accertati di abuso edilizio registrati da Legambiente in Italia nel 2021.

Una cifra che sale a 11.490 se consideriamo tutti i reati prima dell’accertamento. Dal 2009, la data in cui Legambiente ha avviato il suo monitoraggio, questo dato è gradualmente aumentato di anno in anno. Tuttavia, non si può dire lo stesso del numero di sequestri né degli arresti.

Nel 2021 solo 33 persone sono state arrestate per abusivismo edilizio

Negli ultimi 20 anni il numero di sequestri ha avuto un andamento oscillante, mentre gli arresti sono aumentati solo lievemente e anch’essi in modo discontinuo. Analizziamoli in rapporto al numero di persone denunciate, anno per anno.

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DA SAPERE

I dati si riferiscono al rapporto tra il numero di arresti e di persone denunciate, anno per anno, per abuso edilizio.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Legambiente
(consultati: venerdì 17 Febbraio 2023)

 

Nel 2021 sono stati appena 33 gli arresti, a fronte di quasi 10mila persone denunciate. Un rapporto che è migliorato rispetto all’anno precedente, quando si sono registrati arresti 22 su circa 13mila persone denunciate, ma che rimane comunque molto basso, anche rispetto ad altri momenti dell’ultimo ventennio. In particolare il 2017, anno in cui il numero di arresti è salito a 48.

Con 1.413 persone denunciate e 1.327 reati, anche in questo caso la Campania detiene il triste record regionale (da sola registra il 13,9% di tutti i reati del paese). Mentre come numero di arresti, in numeri assoluti e in rapporto alle denunce, la prima è il Piemonte (13 arresti, circa il 40% del totale nazionale).

A livello provinciale a registrate il numero di reati più elevato è Avellino (389), seguita da Cosenza (373) e Reggio Calabria (249). La provincia di Roma si posiziona all’ottavo posto con 202 reati.