Archivi giornalieri: 22 febbraio 2023

L’IDENTITA’? E’ fatta di accumuli. E’ insieme un percorso, un processo e un progetto.

 
Francesco Casula
L’IDENTITA’? E’ fatta di accumuli.
E’ insieme un percorso, un processo e un progetto.
di Francesco Casula
L’Identità dei sardi è così difficile da definire proprio perché dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. Se procediamo per ortodossia totalizzante, e ci mettiamo a sottrarre e a sottrarre, escludendo e tagliando, per riscoprire l’autentico, possiamo arrivare fino a ricondurre la cultura sarda dentro la sua lingua originaria precedente alla romanizzazione. L’identità che occorre difendere e rivendicare e far crescere dunque non è quella immobile o primigenia o “autentica”: anche perché l’autoctono puro non esiste. Come non esiste – un “terroir” identitario sicuro e definitivo, come per il vino. Gli uomini –come le piante – hanno certo “radici”, ma insieme viaggiano, cambiano, sono ibridi, multipli, figli di molte generazioni e di molte culture e di infiniti incontri: influenzati dal sangue e dalla storia tanto quanto dal loro libero mutare, abitare, imparare. Non esistono quindi identità blindate o troppo ingombranti. L’Identità che esiste – ricorda Antonello Satta – è invece lo specchio fedele di stratificazioni culturali secolari su un potente sostrato indigeno che fa da coagulo. Ma non si esprime in un isolato e fermo recupero e cernita di semplici memorie e tradizioni. In genere – ha sostenuto il filosofo americano John Rogers Searle – noi pensiamo alla memoria e dunque all’identità che su questa basiamo, come a un magazzino di frasi e immagini. Dobbiamo invece pensare alla memoria e dunque all’identità come a un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre, di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre partire dal luogo della differenza per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra. L’identità non è immutabile come un blocco di cemento ma un elemento dinamico. Ogni identità è dinamica, cioè variabile, ci ricorda anche il vecchio Emanuele Kant. E, soprattutto non è definitiva ma è da rielaborare continuamente. Da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob – scrive Alberto Contu – che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. La purezza infatti è l’unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler che era nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetò il più grande genocidio della storia. Essere identici significa essere unici: l’individuo è unico ma nello stesso tempo somiglia agli altri individui. La nostra diversità sta in questa unicità. Sappiamo da tempo che una identità chiusa e inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un’identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. L’identità insomma è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno. In quest’ottica – utilizzo l’affilata e pregnante prosa di Bandinu – la tradizione non è un luogo, è il traditur come procedere del tempo. L’elaborazione del passato trova il suo punto di progettazione come investimento nell’impresa del dire e del fare…Il passato non è svelamento magico di un tesoro e neppure contenuto sostanziale di cui appropriarsi. E’ il percorso narrativo del farsi del linguaggio…Non si tratta di fare un cammino a ritroso per abitare la vecchia casa, è piuttosto un percorso prospettico che avvia un modo nuovo del dire e del fare. Il passato come rielaborazione per cogliere la specificità del tempo attuale. L’identità dunque non è un dato rassicurante e permanente ma è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza. L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione, del contatto e della creolizzazione e, insieme,dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. I veri e importanti elementi di identità – scrive Salvatore Mannuzzu – che la tradizione ci consegna si perdono se non vengono investiti nell’oggi e nel diverso da noi: in qualcosa che con un termine ambiguo si chiama «il moderno». Anche se è vero che il moderno non ha portato il paradiso in Sardegna, tra industrializzazioni fallite, riforme agrarie nemmeno partite o comunque abortite, globalizzazioni solo patite, spaventose culture dei consumi, devastazioni mediatiche, scolarità degradate… Però hic Rhodus, hic salta: questi sono i problemi che è necessario affrontare, non solo in Sardegna, anche se sulla Sardegna hanno un impatto specifico. Ma per affrontarli sono inadeguate le logiche de su connottu. L’identità va resa vera e reinventata giorno per giorno, come la vita: sa vida est naschimentu. E il popolo sardo è tutt’altro che compatto (come in genere il popolo italiano): si tratta di rimetterlo faticosamente insieme, con una ricerca collettiva di senso, che batta ogni paese e ogni campagna ma vada ben al di là dei confini dell’isola. Se prevale questa convinzione, se vince il fantasma – l’ingombrante sovrastruttura – la Sardegna è tagliata fuori dal mondo, dalla realtà; e anche da se stessa: perché conoscersi e vivere significa confrontarsi con gli altri.

Ecco chi rischia di dover restituire la pensione presa con quota 100 ma non solo

Ecco chi rischia di dover restituire la pensione presa con quota 100 ma non solo

Restituire la pensione presa con la quota 100 o con le altre misure è un rischio che molti non sanno di correre.

Restituire la pensione presa con la quota 100 o con le altre misure è un rischio che molti non sanno di correre.

Sicuramente se c’è stata negli ultimi anni una misura che più di altre ha rappresentato una validissima alternativa alle classiche misure previdenziali in vigore. Si tratta di quota 100, una misura che forse è un unicum nel suo genere. Almeno per età e contribuzione necessaria. E lo dimostra cosa è successo dopo il 31 dicembre 2021, cioè da quando la misura non è più in vigore. Se c’è da considerare qualcosa su questa misura però, non si può non considerare il fatto che sia stata abbastanza rigida come struttura, soprattutto per il vincolo della cessazione di qualsiasi altra attività lavorativa, salvo rare eccezioni.

“Sono un pensionato di 64 anni che a novembre 2021 è andato in pensione raggiungendo i 38 anni di contributi sfruttando la quota 100. Adesso però ho un problema. A gennaio 2023 ho deciso di accettare un lavoro. Il mio vecchio datore di lavoro, titolare di un ristorante, mi ha chiesto di fargli il servizio di cameriere, mio mestiere per 38 anni, per i primi 3 mesi dell’anno per necessità sue personali.

Ero uno di fiducia e lui, che faceva servizio di sala come me, sarebbe stato assente per diversi giorni.Per evitare guai, mi ha assunto regolarmente, e l’INPS mi ha mandato la comunicazione che ho perso la pensione e che dovrò restituire i soldi di pensione presi prima. Ho studiato la normativa ed effettivamente hanno ragione all’INPS, perché non avrei dovuto lavorare. Ma mi chiedo perché adesso devo restituire la pensione precedente quando non lavoravo. Un salasso se devo dare indietro tutte queste mensilità di pensione.”

Ecco chi rischia di dover restituire ciò che ha preso con quota 100

La pensione con quota 100 è stata importante per tutti i tre anni di funzionamento.

Un unicum, come dicevamo, perché mai una misura che consente di lasciare il lavoro a 62 anni è stata estesa a tutti i lavoratori. La quota 100 infatti non presentava vincoli o limitazioni di nessun genere per quanto riguarda le platee dei potenziali aventi diritto. Bastavano quindi 62 anni di età e 38 di contributi. Due soglie minime basse se si paragonano a quelle della quota 102 dello scorso anno o della quota 103 di questo 2023. Infatti la quota 102 aveva come età di uscita i 64 anni e come carriera contributiva 38 anni. Adesso la quota 103 ha riportato indietro l’età pensionabile della quota, che è scesa a 62 anni. Ma i contributi necessari nel frattempo sono diventati pari a 41 anni.

Divieto di cumulo dei redditi di pensione con i redditi da lavoro

Ecco perché la quota 100 è senza dubbio la migliore delle tre misure. Ma per tutte e tre vige un obbligo fondamentale da rispettare non tanto per prendere la pensione, ma soprattutto per continuare a percepirla. Un obbligo che vale anche per chi prenderà la quota 103 quest’anno, oppure chi prenderà le altre due misure con il meccanismo della cristallizzazione nel corso del 2023, avendo maturato il diritto negli anni passati. L’obbligo o meglio, il divieto è quello di lavorare. Non si potrà lavorare e prendere contemporaneamente la pensione con una di queste quote. La pena è la perdita del beneficio e contestualmente la restituzione delle domme percepite precedentemente.

Cosa va restituito da chi torna a lavorare nonostante la pensione con quota 100, quota 102 o quota 103

Andare in pensione con una delle misure a quota previste dall’INPS ancora nel 2023, prevede l’obbligo di rispettare il divieto di cumulare i redditi da lavoro con quelli di pensione. In pratica chi prende la quota 100, oppure le altre due quote, non potrà lavorare se non con lavoro autonomo occasionale. E fino alla soglia massima di 5.000 euro annui. Chi, come il nostro lettore torna a lavorare dopo aver percepito la quota 100, dovrà oltre che lasciare la pensione, da cui decadrà come diritto, anche restituire le somme prese precedentemente.

Ma non tutte le mensilità percepite, perché sono da restituire all’INPS le somme prese nello stesso anno in cui il pensionato torna a lavorare. Quindi, nel caso del nostro lettore, dovrebbero essere restituite all’INPS solo le mensilità di gennaio e febbraio.

 

Cooperazione Italia 2023

Progetto


Recentemente l’Ocse ha rilasciato i dati definitivi relativi al contributo dei paesi del comitato Ocse Dac alla cooperazione allo sviluppo nel 2021. Nel caso italiano si può notare un leggero incremento rispetto alle cifre contenute nei dati preliminari, che indicavano per l’Italia un rapporto tra aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) e reddito nazionale lordo (Rnl) pari allo 0,28%.

0,29% il rapporto Aps/Rnl in Italia nel 2021.

Si può inoltre osservare che il contributo del nostro paese ha registrato un marcato aumento rispetto al 2020, il più elevato percentualmente tra tutti i paesi Ocse Dac. Tuttavia sono da rilevare due elementi. Primo, che nonostante il balzo in avanti siamo ancora lontani dall’obiettivo di dedicare lo 0,70% del nostro reddito nazionale lordo alla cooperazione internazionale. Secondo, che tale aumento va comunque ridimensionato, visto che si è trattato in larga parte di un fatto di carattere episodico, che di per sé non basta a prospettare e soprattutto programmare un futuro di crescita per le risorse della cooperazione.

L’Italia è impegnata ormai dal 1970 a raggiungere l’obiettivo, ribadito poi dalle Nazioni unite all’interno dell’Agenda 2030, di raggiungere un rapporto Aps/Rnl pari allo 0,70%. Soltanto nel 2017 tuttavia il nostro paese ha raggiunto l’obiettivo intermedio, fissato allo 0,30%, e a oggi il traguardo dello 0,70% resta piuttosto lontano.

Aumenta, rispetto al 2020, l’aiuto pubblico allo sviluppo

Stando ai dati definitivi dell’Ocse, nel 2021, disponibili solo dal dicembre 2022, si può notare, rispetto all’anno precedente, un marcato aumento dei fondi destinati alla cooperazione internazionale da parte del nostro paese.

Il rapporto tra le risorse per l’aiuto pubblico allo sviluppo e il reddito nazionale lordo, indicatore che misura l’impegno di un paese donatore in relazione alla ricchezza nazionale, ha infatti raggiunto lo 0,29%. Mentre nel 2020 si era fermato allo 0,22%. Registrando anche un lieve incremento rispetto ai dati preliminari, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento, i quali vedevano l’aiuto italiano allo 0,28%.

Si tratta tuttavia di una cifra ancora ben lontana dall’obiettivo dello 070, che senza una programmazione adeguata rischia di non essere mai raggiunto, come è stato d’altronde negli ultimi 50 anni.

5,145 miliardi di euro a prezzi correnti, l’Aps italiano nel 2021.

L’Italia è il primo paese, tra i membri del comitato Ocse Dac, per aumento nel passaggio tra 2020 e 2021. Parliamo di un incremento pari al 36% a prezzi costanti (38% a prezzi correnti). Con “prezzi correnti” si intende il valore registrato al momento della rilevazione. Mentre il dato a “prezzi costanti”, usando il valore fissato a un anno di riferimento, ha il vantaggio di appianare gli effetti dell’inflazione e di rendere quindi più agevole la comparazione tra diversi anni.

Sembrerebbe quindi trattarsi di un’importante inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, quando il rapporto Aps/Rnl nel nostro paese era andato progressivamente calando.

Questo contenuto è ospitato da una terza parte. Mostrando il contenuto esterno accetti i termini e condizioni di flourish.studio.
 
 
DA SAPERE

Il rapporto tra aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) e reddito nazionale lordo (Rnl) indicato per gli anni 2014-2017 è ricavato utilizzando il metodo di calcolo dell’Aps noto come “net disbursement“. Per gli anni successivi invece Ocse riporta i dati con il metodo “grant equivalent“.

FONTE: elaborazione openpolis su dati Ocse
(ultimo aggiornamento: giovedì 15 Dicembre 2022)

 
Un aiuto oscillante e imprevedibile.

Negli ultimi anni il rapporto Aps/Rnl italiano ha subito continue oscillazioni invece che seguire un costante andamento di crescita nella direzione di arrivare allo 0,70% Aps/Rnl entro il 2030. A partire dal 2014 ha registrato un graduale aumento fino al 2017 quando l’Italia ha raggiunto lo 0,30% Aps/Rnl. La legge di bilancio con cui si era arrivati a quel risultato era stata varata dal governo Renzi e portò l’Italia a raggiungere il suo massimo storico, se pur con alcune importanti criticità. Tuttavia il rapporto è poi calato drasticamente. Nel 2018 (0,25%, governo Gentiloni), nel 2019 e nel 2020 (0,22%, primo e secondo governo Conte).

Nel 2021 la legge di bilancio varata dal secondo governo Conte ha segnato di nuovo un aumento e adesso si tratta di verificare se questa crescita proseguirà nel tempo oppure se si verificheranno nuove riduzioni nelle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo. Un’ipotesi che per varie ragioni, come approfondiremo, non può essere affatto esclusa.

L’aiuto pubblico allo sviluppo complessivo

Ma non solo l’aiuto italiano è cresciuto nel 2021. Dopo 4 anni di sostanziale stagnazione infatti, a partire dal 2020 l’Aps complessivo dei paesi Ocse Dac è tornato a crescere arrivando a sfiorare nel 2021 i 186 miliardi di dollari (a prezzi correnti). Ovvero lo 0,33% del reddito nazionale lordo complessivo dei paesi donatori.

185,9 miliardi $ il valore a prezzi correnti dell’Aps dei paesi Ocse Dac. In prezzi costanti al 2020 si tratta di 175,9 miliardi.
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FONTE: elaborazione openpolis su dati Ocse
(ultimo aggiornamento: giovedì 15 Dicembre 2022)

 

Si tratta complessivamente di una crescita dell’8,5% in termini reali (ovvero a prezzi costanti). Una crescita di oltre 23 miliardi (a prezzi correnti) che tuttavia, come nel caso italiano, non è scontato che resti stabile o cresca ulteriormente nei prossimi anni.

Infatti come vedremo meglio in seguito, buona parte di questo aumento è spiegabile con le risorse aggiuntive che i paesi donatori hanno devoluto per contribuire alla lotta alla pandemia. Quando a un certo punto dovesse venire meno questa necessità non è affatto detto che le nuove risorse vengano reinvestite in altre forme di aiuto pubblico allo sviluppo.

L’articolo è stato redatto grazie al progetto “Cooperazione: mettiamola in Agenda!”, finanziato dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Le opinioni espresse non sono di responsabilità dell’Agenzia.

Foto: Aics Khartoum

PROSSIMA PARTE
 
PARTE 2 > Le componenti dell’aiuto italiano

Progetto


Come anticipato, la crescita dell’Aps italiano nel 2021 rischia di avere carattere episodico e non strutturale. Per comprendere il perché conviene analizzare più nel dettaglio come è composto l’aiuto pubblico allo sviluppo del nostro paese, partendo dai cosiddetti macro aggregati, ovvero i due canali attraverso cui le risorse arrivano ai paesi beneficiari. 

I fondi della cooperazione pubblica allo sviluppo si dividono in due grandi componenti (bilaterale e multilaterale), che indicano la via attraverso cui le risorse arrivano ai paesi destinatari. Vai a “Cosa sono il canale bilaterale e il canale multilaterale”

Il canale bilaterale riguarda quelle risorse che ciascun donatore destina in maniera diretta al paese ricevente. Diversamente i fondi allocati attraverso le organizzazioni internazionali impegnate in diverse attività di cooperazione allo sviluppo sono inclusi nel canale “multilaterale”. Dopo aver visto queste due macro distinzioni poi può essere molto utile guardare anche ad alcune delle principali voci che le compongono.

Il canale bilaterale

Tra 2020 e 2021 il valore dell’aiuto bilaterale italiano è quasi raddoppiato, passando da poco più di 1 miliardo di euro a quasi 2. Ovvero una crescita del 88,8% in termini reali (ovvero a prezzi costanti). Di questi 931 milioni di euro aggiuntivi però ben 680 (ovvero il 73%) sono risorse addizionali per voci di spesa che sono per loro natura non stabili oltre a essere considerate da Concord Europe come una forma di aiuto gonfiato.

Da una parte infatti un elemento cruciale dell’Aps italiano nel 2021 è rappresentato da importanti operazioni di cancellazione del debito. Questo tipo di aiuto non è di carattere ordinario. Nel 2020 ad esempio non risultavano risorse da questo punto di vista, mentre nel 2021 queste hanno raggiunto quasi mezzo miliardo di dollari, ovvero il 21% delle risorse erogate attraverso il canale bilaterale. Cifre che fanno insomma capo a un’operazione specifica, che ha riguardato quasi integralmente la Somalia, che non possono essere considerate stabili o replicabili per gli anni successivi, e che non possono nemmeno essere considerate come nuovi flussi di aiuto.

Oltre a questo elemento poi esiste un’altra voce di spesa che, con le sue continue oscillazioni, contribuisce a determinare anno dopo anno il valore dell’aiuto bilaterale.

Si tratta del capitolo “Rifugiati nel paese donatore”, ovvero di una parte di quelle risorse che servono ad accogliere in Italia richiedenti asilo e rifugiati. Risorse certamente importanti ma che hanno a che fare ben poco con la cooperazione allo sviluppo, nonostante formalmente le regole Ocse consentano di contabilizzarle come tali.

Le risorse destinate all’accoglienza dei rifugiati sono molto importanti, ma non andrebbero confuse con le attività di cooperazione che si svolgono nei paesi beneficiari. Vai a “Che cos’è il capitolo di spesa “rifugiati nel paese donatore””

Se nel 2018 questa particolare voce di spesa rappresentava più del 20% di tutto l’Aps italiano e il 50% dell’aiuto bilaterale, negli anni successivi il suo valore è costantemente calato. Una dinamica che, come è ovvio, ha seguito l’andamento del numero di arrivi di migranti, principalmente attraverso gli sbarchi via mare in Italia, e delle relative presenze all’interno del sistema di prima accoglienza.

Nel 2021 però questo importo è tornato a crescere arrivando a rappresentare quasi 1/4 del canale bilaterale. Si tratta di una dinamica da monitorare con attenzione per molte ragioni, non da ultimo il fatto che incide in modo significativo sull’interpretazione che si può dare della crescita complessiva dell’Aps.

Da molti anni Concord Europe ha definito sia le operazioni di cancellazione del debito sia le spese per l’accoglienza dei rifugiati nel paese donatore come una forma di aiuto gonfiato.

45,2% dell’aiuto bilaterale italiano è composto da operazioni di cancellazione del debito e dalla voce di spesa “rifugiati nel paese donatore”.

Dunque, se da un lato è indubbiamente vero che l’aiuto bilaterale italiano è cresciuto di oltre un miliardo di dollari tra 2020 e 2021, dall’altro bisogna rilevare come questa crescita sia quasi interamente assorbita da risorse episodiche oltre che definibili come aiuto gonfiatoAl netto di queste infatti si assiste sì a una crescita, che però si riduce a poco più di 250 milioni di euro.

L’aiuto multilaterale

Nel 2021 a essere cresciuto è stato anche l’aiuto multilaterale, passato da circa 2,7 miliardi di euro a poco meno di 3,2. L’organizzazione internazionale a cui la Farnesina invia più risorse è senza dubbio l’Unione europea, destinataria di quasi il 60% dell’Aps multilaterale italiano. Un valore più alto della media degli altri paesi Ue che fanno parte del comitato Dac dell’Ocse.

Tra le altre organizzazioni finanziate dall’Italia spicca poi la Gavi Alliance. Si tratta di un’organizzazione internazionale creata nel 2000 per migliorare l’accesso ai vaccini nei paesi più svantaggiati, costituita da una serie di attori pubblici e privati, tra cui la Banca mondiale, l’Oms, l’Unicef e la fondazione Bill & Melinda Gates. Un’organizzazione che ha svolto un ruolo chiave nel corso dell’emergenza pandemica.

E proprio rispetto a Gavi l’Italia è stata uno dei paesi che hanno contribuito maggiormente, posizionandosi al terzo posto tra tutti i paesi Dac, con oltre 460 milioni di dollari. Più dell’Italia hanno contribuito solo la Germania, con 1,2 miliardi di dollari, e gli Stati Uniti, che sono arrivati oltre i 4 miliardi.

Si tratta certamente di un contributo importante alla lotta internazionale contro la pandemia nei paesi più fragili o vulnerabili. Al contempo però è bene considerare che anche queste risorse rischiano di avere carattere episodico, perché destinate all’acquisto di vaccini contro il Covid-19 destinati a paesi a reddito medio e basso tramite il Covax advanced market commitment, meccanismo dell’iniziativa multilaterale Access to Covid-19 tools accelerator (Act-A), di cui Gavi fa parte. 

Se, come tutti ci auguriamo, nei prossimi anni l’emergenza pandemica dovesse rientrare completamente, non è affatto detto che queste risorse verranno rese stabili per questo settore o riconvertite in altre forme di aiuto allo sviluppo. Inoltre, mentre l’Italia si è spesa per contribuire a Gavi e a Covax, non altrettanto ha fatto per sostenere iniziative che miravano ad agire sulle cause profonde della disuguaglianza nell’accesso ai vaccini, alle terapie e alla diagnostica, come per esempio la proposta di sospensione temporanea delle regole a tutela della proprietà intellettuale proposta da Sud Africa e India all’organizzazione mondiale del commercio e sostenuta da più di 100 stati.

L’articolo è stato redatto grazie al progetto “Cooperazione: mettiamola in Agenda!”, finanziato dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Le opinioni espresse non sono di responsabilità dell’Agenzia.

La legge di bilancio e le attuazioni in ritardoGoverno e parlamento

La legge di bilancio e le attuazioni in ritardo Governo e parlamento

L’approvazione della legge di bilancio ha comportato una nuova impennata di attuazioni da pubblicare. Parliamo di 470 atti che ancora mancano all’appello. Molti dei quali bloccano l’erogazione di risorse già stanziate.

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Una delle questioni che hanno catturato l’attenzione di politica e media sul finire del 2022 è stata l’approvazione della legge di bilancio. Una norma fondamentale per lo stato che contiene, tra l’altro, diverse misure per contrastare il caro energia in supporto a istituzioni, cittadini e imprese.

Un tema però che viene spesso dimenticato nel dibattito pubblico è quello dei decreti attuativi. Atti di secondo livello come regolamenti e decreti ministeriali che spesso servono a dare operatività alle norme, definendo i contenuti di dettaglio delle misure messe in campo.

Dopo il lavoro del parlamento, l’implementazione di una legge passa nelle mani di ministeri e agenzie pubbliche. Un secondo tempo spesso ignorato ma che lascia molte norme incomplete. Vai a “Che cosa sono i decreti attuativi”

Vista la grande quantità di temi che affronta, storicamente la legge di bilancio è una di quelle norme che richiedono una grande quantità di attuazioni. E quella del 2023 non fa eccezione.

118 i decreti attuativi richiesti dalla legge di bilancio per il 2023.

In molti casi tali atti sono indispensabili per definire le modalità di erogazione dei fondi stanziati. Finché non verranno pubblicati quindi, le relative risorse resteranno congelate.

Lo stato delle attuazioni

Naturalmente per tutte le leggi può essere necessario il ricorso a decreti attuativi. In base alle informazioni messe a disposizione dall’ufficio per il programma di governo (Upg), alla data del 16 febbraio, sappiamo che le attuazioni richieste in totale per le norme varate dagli ultimi 4 governi sono 1.921. Di queste, 1.451 erano già state pubblicate e sono quindi attualmente in vigore mentre 470 (il 24,5%) ancora mancano all’appello.

Le legge di bilancio ha influito sull’aumento dei decreti attuativi richiesti e non ancora pubblicati.

Rispetto al nostro ultimo aggiornamento il numero di attuazioni mancanti è aumentato sia in termini assoluti (erano 384) che percentuali (erano il 21,6% rispetto al totale di quelle richieste). Questa nuova impennata è da attribuire in larga misura all’entrata in vigore della legge di bilancio che esamineremo nel dettaglio più avanti.

A livello generale, un primo elemento interessante da analizzare riguarda gli autori delle misure che richiedono decreti attuativi. Da questo punto di vista possiamo osservare che la maggioranza delle attuazioni è richiesta da norme varate dal governo Draghi. Parliamo di 783 provvedimenti richiesti di cui 239 ancora da pubblicare. Segue il governo Conte II con 703 attuazioni richieste di cui 69 mancanti.

Per quanto riguarda l’attuale esecutivo, il numero di decreti attuativi richiesti è ancora relativamente basso. Si tratta infatti di 151 atti in totale. Questo dato è evidentemente dovuto alle poche norme varate finora dall’inizio della legislatura e di cui abbiamo parlato in questo articolo. Possiamo dire quindi che tale numero è destinato a crescere. Un altro elemento rilevante riguarda il fatto che la maggioranza delle attuazioni richieste dalle norme del governo Meloni deve ancora essere pubblicata.

142 su 151 le attuazioni richieste dai provvedimenti del governo Meloni che ancora mancano all’appello. 

Comunque l’attuale squadra di governo ha ereditato il grosso del lavoro da fare in questo senso dai suoi predecessori. Considerate complessivamente tutte le attuazioni richieste per le misure degli ultimi 4 governi, possiamo osservare che l’ente maggiormente coinvolto è il dicastero dell’economia a cui è imputata l’emanazione di 285 decreti attuativi di cui 68 ancora da pubblicare. Seguono il ministero delle infrastrutture (209 attuazioni richieste, 53 da pubblicare) e quello dell’interno (153 attuazioni totali di cui 18 non pubblicate).

FONTE: elaborazione openpolis su dati ufficio per il programma di governo
(consultati: giovedì 16 Febbraio 2023)

A livello percentuale però l’istituzione più indietro risulta essere la struttura che fa capo al ministro Raffaele Fitto che ha le deleghe, tra le altre cose, al Pnrr e alla coesione territoriale. Il suo ufficio è responsabile di 4 decreti attuativi di cui nessuno ancora pubblicato. Al secondo posto troviamo invece il ministero dell’ambiente con oltre il 50% delle attuazioni ancora da emanare.

Occorre ricordare infine che una parte delle attuazioni risale addirittura alla XVII legislatura. Su questo però gli unici dati disponibili ci vengono forniti da una relazione pubblicata lo scorso gennaio. In base a questo documento sappiamo che sono 44 i provvedimenti ancora da adottare legati a norme varate tra il 2013 e il 2018.

Un quadro sulla legge di bilancio

Come già anticipato, la legge di bilancio per il 2023 è la norma varata dal governo Meloni che finora richiede il maggior numero di decreti attuativi. Gli atti di secondo livello richiesti sono 118 in totale. Un valore sostanzialmente in linea con il dato medio delle leggi di bilancio dell’ultimo decennio (120) riportato nella già citata relazione dell’Upg.

Alcuni decreti attuativi legati alla legge di bilancio non sono stati pubblicati entro il termine previsto.

Attualmente soltanto 6 attuazioni sono già in vigore (appena il 5%). Un numero così basso è certamente dovuto al fatto che la legge di bilancio è uno dei provvedimenti più recenti tra quelli approvati finora. Tuttavia occorre sottolineare che tra i decreti attuativi mancanti ce ne sono alcuni che avrebbero già dovuto essere pubblicati.

In alcuni casi infatti le stesse leggi possono prevedere un termine ultimo entro cui i ministeri devono pubblicare i decreti attuativi richiesti. Nel caso in esame tale scadenza non è stata rispettata in 14 casi. Peraltro, come già anticipato, spesso i decreti attuativi contengono indicazioni operative indispensabili per l’erogazione dei fondi stanziati. Ad esempio l’indicazione dei criteri con cui selezionare i soggetti beneficiari o le modalità con cui i potenziali interessati devono inoltrare la domanda di finanziamento. Senza questi atti quindi le risorse stanziate restano sostanzialmente sulla carta.

FONTE: elaborazione openpolis su dati ufficio per il programma di governo
(consultati: giovedì 16 Febbraio 2023)

Nel caso della legge di bilancio, 6 decreti attuativi per cui è già scaduto il termine di pubblicazione bloccano l’erogazione di risorse per circa 60 milioni di euro. L’atto mancante più significativo tra questi è un decreto richiesto al ministero del turismo che avrebbe dovuto definire termini e modalità per l’erogazione di un fondo da 30 milioni destinato all’ammodernamento e alla messa in sicurezza degli impianti sciistici. Un atto che avrebbe dovuto essere emanato entro il 31 gennaio.

3,56 miliardi € le risorse stanziate dalla legge di bilancio ma bloccate per la mancanza dei relativi decreti attuativi.

Tra i decreti che ancora mancano all’appello poi ce ne sono altri 31 il cui termine di scadenza è compreso tra il 28 febbraio e il 31 marzo. I ministeri quindi in teoria non avranno molto tempo per pubblicare tali atti. Tra questi, ce ne sono 2 che da soli potenzialmente potrebbero bloccare il processo di erogazione per quasi 1 miliardo di euro.

Si tratta di:

  • termini e modalità per l’erogazione di un fondo da 500 milioni per l’acquisto di generi alimentari di prima necessità, di competenza del ministero dell’agricoltura;
  • termini e modalità per la ripartizione tra enti territoriali di un fondo da 400 milioni per contrastare il caro energia, di competenza del ministero dell’interno.

Il primo di questi 2 decreti dovrebbe essere emanato entro il 2 marzo mentre il secondo entro la fine dello stesso mese.

L’importanza del monitoraggio

Il fatto che la situazione attuale non sia così critica come nel 2020, quando le attuazioni mancanti erano oltre il 70%, probabilmente ha contribuito al generale calo di attenzione su questo tema. È invece di fondamentale importanza continuare a monitorare questi aspetti.

La mancanza dei decreti attuativi blocca l’erogazione di risorse già disponibili.

Sebbene la legge di bilancio sia evidentemente il caso più eclatante, non è l’unico per cui la mancanza dei decreti attuativi blocca potenzialmente l’erogazione di risorse già stanziate. Secondo la già citata relazione dell’Upg infatti altri 2 miliardi circa stanziati dai decreti legge emanati dal governo Meloni sarebbero vincolati all’emanazione di decreti attuativi. Parliamo quindi in totale di circa 5 miliardi e mezzo di risorse potenzialmente già disponibili ma congelate in attesa delle relative indicazioni per l’attuazione.

Un massiccio sforzo in termini di smaltimento di attuazioni mancanti era stato profuso dal governo Draghi che aveva anche introdotto un nuovo metodo di lavoro. Questo prevedeva lo stralcio di decreti attuativi non più necessari a causa della modifica delle norme a cui erano legati e uno stretto coordinamento nell’attività svolta dai ministeri. Inoltre era stato individuato all’interno di ogni amministrazione un ufficio referente per le attuazioni ed erano stati introdotti degli obiettivi mensili ad hoc per ogni struttura coinvolta.

Purtroppo non è chiaro se con il nuovo esecutivo questa modalità di lavoro sarà mantenuta o meno. Nella relazione dell’Upg infatti non vi si trova nessun riferimento ma semplicemente un auspicio affinché gli enti coinvolti pubblichino tempestivamente i decreti attuativi di loro competenza.

Si auspica che i Ministeri riescano ad assicurare costantemente la tempestiva attuazione dei provvedimenti di loro competenza […] per assicurarne la tempestiva attuazione rispettando i termini di adozione previsti.

Le norme attualmente in vigore infatti non prevedono delle conseguenze negative per i ministeri inadempienti. Per questo motivo è di fondamentale importanza mantenere alta l’attenzione su questo fronte.

Foto: Governo – Licenza

Mercoledì delle ceneri

 

Mercoledì delle ceneri


Nome: Sacre Ceneri
Titolo: Inizio della Quaresima
Ricorrenza: 22 febbraio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Festa

Il Mercoledì delle Ceneri è il giorno nel quale ha inizio la quaresima, il periodo di quaranta giorni che precedono la Pasqua di Risurrezione e nei quali al Chiesa cattolica invita i fedeli ad un cammino di penitenza, di preghiera, di carità per giungere convertiti al rinnovamento delle promesse battesimali, che si compirà appunto la Domenica di Pasqua.

Momento caratteristico della liturgia del Mercoledì delle Ceneri è lo spargimento, da parte del celebrante, di un pizzico di cenere benedetta sul capo dei fedeli. Si accompagna tale rito con le parole «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), frase introdotta dal Concilio Vaticano II, mentre prima si utilizzava l’ammonimento, contenuto nel Libro della Genesi, «Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris» («Ricordati uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai»), forma quest’ultima ancora in uso nella Messa tridentina.

È consuetudine che le ceneri utilizzate per l’imposizione delle ceneri sul capo dei fedeli si ricavino dalla bruciatura dei rametti di palme o di ulivo benedetti in occasione della Domenica delle Palme, dell’anno precedente.

Altro aspetto caratteristico della liturgia che ha inizio il Mercoledì delle Ceneri è l’uso del colore viola per i paramenti sacri nonché il fatto che per tutto il periodo quaresimale non si canta l’alleluia e non si recita il gloria.

PREGHIERA. «L’umiltà di Cristo ci ha insegnato ad essere umili: nella morte infatti si sottomise ai peccatori; la glorificazione di Cristo glorifica anche noi: con la risurrezione infatti ha preceduto i suoi fedeli. Se noi siamo morti con lui ? dice l’Apostolo ? vivremo pure con lui; se perseveriamo, regneremo anche insieme con lui (2 Tim. 2, 11. 12)» (Sant’Agostino Sermoni, 206, 1).

PRATICA. La chiesa richiede in questo giorno si osservi il digiuno e l’astinenza dalle carni. Per quanto attiene il periodo di quaresima, che inizia con il Mercoledì delle Ceneri, insegna Sant’Agostino: «Il cristiano anche negli altri tempi dell’anno deve essere fervoroso nelle preghiere, nei digiuni e nelle elemosine. Tuttavia questo tempo solenne deve stimolare anche coloro che negli altri giorni sono pigri in queste cose.»

MARTIROLOGIO ROMANO. Giorno delle Ceneri, e principio del digiuno della sacratissima Quaresima.