Archivi giornalieri: 19 febbraio 2023

Perché il monocameralismo di fatto è sintomo di un sistema in crisi Governo e parlamento

Perché il monocameralismo di fatto è sintomo di un sistema in crisi Governo e parlamento

Dall’inizio della legislatura non è mai accaduto che fossero approvati emendamenti in entrambe le camere sullo stesso disegno di legge. Da un lato questo velocizza l’iter, dall’altro evidenzia ancora una volta i problemi nel rapporto tra governo e parlamento.

 

Sono ormai passati 4 mesi dall’inizio della XIX legislatura. Un periodo in cui le nuove camere hanno approvato in via definitiva soltanto 10 leggi. Un dato che, come abbiamo raccontato in questo articolo, è particolarmente basso se paragonato con i primi mesi delle precedenti legislature. Anche se su questo influisce certamente il fatto che l’attuale parlamento si è dovuto dedicare sin da subito alla legge di bilancio.

Ma c’è un altro aspetto particolarmente interessante che emerge dall’analisi di questi primi mesi. E cioè il fatto che per nessuna delle proposte di legge che hanno già concluso l’iter siano stati approvati emendamenti in entrambi i rami del parlamento.

La scelta di deputati e senatori, in accordo con il governo, è stata infatti quella di discutere eventuali proposte di modifica ai testi dei disegni di legge (Ddl) in una sola camera. Quella in cui il Ddl ha iniziato il proprio percorso.

Questa prassi, definita dagli studiosi “monocameralismo di fatto”, ha alcune conseguenze. Da un lato sicuramente consente di velocizzare l’iter di approvazione delle leggi. In questo modo infatti si evita il fenomeno della cosiddetta “navetta parlamentare”. Cioè la necessità che un Ddl torni alla camera che lo aveva già approvato per un nuovo voto sulle modifiche apportate dall’altro ramo del parlamento. Una pratica che va avanti finché entrambe le camere non approvano lo stesso testo.

Dall’altro lato però questa prassi evidenzia ancora una volta la crisi che sta attraversando il nostro sistema costituzionale. Con un parlamento sempre più svuotato delle sue prerogative.

Il difficile contesto in cui si muovono governo e parlamento

Come anticipato, dall’inizio della legislatura fino all’8 febbraio le leggi approvate dal parlamento sono state 10. Tali norme sono tutte di iniziativa governativa. Si tratta della legge di bilancio per il 2023 e in tutti gli altri casi di conversioni di decreti legge.

Nessuna norma ordinaria quindi ha concluso l’iter legislativo, così come non sono state varate leggi di iniziativa parlamentare. Questa modalità di legiferare, sempre più frequente negli ultimi anni, è almeno in parte addebitabile all’attuale contesto interno e internazionale.

La necessità di dare risposte rapide accentua il monocameralismo di fatto.

Come noto infatti governo e parlamento sono entrati in carica a ottobre. Di conseguenza ci sono stati tempi molto stretti per l’approvazione della legge di bilancio, il cui iter doveva concludersi necessariamente entro il 31 dicembre. L’esame in commissione infatti è iniziato soltanto il 6 dicembre quando le norme prevederebbero l’avvio della discussione alla fine di ottobre. Per recuperare il tempo perso, le forze politiche hanno raggiunto un accordo per presentare emendamenti solo alla camera, primo ramo del parlamento a esaminare il Ddl. D’altronde la discussione in senato è iniziata il 27 dicembre, quindi non ci sarebbe stato tempo sufficiente.

Il fatto che le camere si siano dovute concentrare su questo fronte può peraltro contribuire a spiegare in parte perché non siano arrivate a conclusione altre leggi di iniziativa parlamentare. A ciò si devono aggiungere le numerose crisi che stanno caratterizzando questo periodo storico. Dalla guerra in Ucraina, all’aumento dell’inflazione e del costo di energia e materie prime, fino alle tragedie che hanno riguardato prima le Marche e poi l’isola di Ischia. Da qui la scelta di un massiccio ricorso da parte del governo ai decreti legge (Dl). Altra dinamica che tende ad accentuare il monocameralismo di fatto dato il limite di tempo di 60 giorni per la conversione in legge dei decreti.

D’altra parte c’è da dire che questo fenomeno è in corso da tempo, come evidenziano molti studi accademici. Certamente però in questa fase tale dinamica pare essersi accentuata in maniera significativa.

Gli emendamenti approvati

Una costante che accomuna tutte le leggi approvate finora infatti è che non si è mai verificato il fenomeno della navetta. Sostanzialmente quindi la seconda camera si è limitata a ratificare quanto già deciso nell’altro ramo del parlamento, senza apportare ulteriori modifiche.

Complessivamente le proposte emendative approvate dall’inizio della legislatura sono 360. Alla camera le modifiche accolte sono state 257, di cui 246 in commissione e 11 in aula. Al senato invece gli emendamenti approvati sono stati 103, di cui 91 in commissione e 12 in aula.

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DA SAPERE

I dati qui esposti sono tratti dalle schede sull’iter dei vari disegni di legge presenti sui siti di camera e senato. Non sempre è disponibile l’elenco degli emendamenti presentati e il relativo esito. Per il decreto aiuti quater è stato necessario recuperare le informazioni dai resoconti della commissione bilancio.

FONTE: elaborazione openpolis su dati camera e senato
(ultimo aggiornamento: mercoledì 8 Febbraio 2023)

 

Occorre ricordare a questo punto che in alcune occasioni il governo ha posto la questione di fiducia sui provvedimenti in discussione. È successo per la legge di bilancio e per il decreto aiuti quater in entrambe le camere. E per il decreto rave a Montecitorio. Questo ha di fatto precluso la discussione e relativa votazione degli emendamenti presentati in aula.

In questi casi le proposte approvate sono quelle scaturite dal confronto in commissione. Fanno eccezione 2 emendamenti alla legge di bilancio che risultano approvati in aula. Questi però sono di origine governativa e contengono solamente alcune correzioni agli stati di previsione dei ministeri dell’economia, della cultura e dell’agricoltura.

93,6% gli emendamenti approvati in commissione.

Anche questa dinamica, sempre più frequente, contribuisce in maniera importante al monocameralismo di fatto.

A ciò occorre aggiungere che i tempi serrati sia per l’approvazione della legge di bilancio che per la conversione dei decreti legge in molti casi hanno portato alla mancata discussione degli emendamenti presentati.

Il Presidente comunica che tutti i restanti emendamenti e subemendamenti presentati dai Gruppi di maggioranza, non trasformati in ordini del giorno, si intendono ritirati e tutti i restanti emendamenti e subemendamenti presentati dai Gruppi di opposizione, non trasformati in ordini del giorno, si intendono tecnicamente respinti.

Come sono cambiati i decreti legge

Se, come abbiamo appena visto, il parlamento ha avuto margini piuttosto ridotti per intervenire sui testi delle leggi approvate questo non significa che tale possibilità sia stata preclusa del tutto. Anzi, gli interventi risultano molto evidenti rispetto alla modifica dei decreti legge.

9 su 10 delle leggi approvate sono conversioni di decreti legge. 

Come si può notare dal grafico, salvo il caso del Dl sulla proroga all’autorizzazione dell’invio di armi all’Ucraina, tutti i decreti legge sono stati rivisti in maniera più o meno significativa. 

Nello specifico si tratta di 72 articoli modificati e 51 aggiunti. Per quanto riguarda i commi invece quelli aggiunti sono 121 e quelli modificati 130. Il provvedimento che è cambiato di più è il decreto aiuti ter (34 articoli modificati e 2 aggiunti). Seguono il Dl aiuti quater e quello sul riordino dei ministeri. Questa dinamica peraltro comporta ulteriori aspetti critici che vale la pena sottolineare.

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DA SAPERE

Nel grafico non è rappresentato il decreto legge con cui è stata prorogata l’autorizzazione all’invio di armi in Ucraina poiché non sono state apportate modifiche durante l’iter. Non sempre le modifiche ai Dl possono essere frutto di emendamenti parlamentari. Le revisioni (peraltro trascurabili) al decreto elezioni sono già contenute nel Ddl di conversione di iniziativa governativa.

FONTE: elaborazione openpolis su dati gazzetta ufficiale e normattiva
(ultimo aggiornamento: mercoledì 8 Febbraio 2023)

 

Occorre prima di tutto ricordare però che il decreto aiuti ter era di iniziativa del governo Draghi. Per questo è stato approvato con un ampio consenso e l’astensione di Partito democratico e Movimento 5 stelle che all’epoca facevano parte della cosiddetta coalizione di unità nazionale. Il fatto che questo provvedimento fosse stato varato da un esecutivo non più in carica peraltro può aver agevolato i parlamentari nella presentazione e nell’approvazione di emendamenti.

Il decreto dell’attuale esecutivo più modificato dal parlamento è quindi il Dl aiuti quater ed è su questo che ci concentreremo. Tra le aggiunte fatte a seguito del passaggio in parlamento possiamo citare, a titolo di esempio, l’articolo 2-bis che prevede la proroga dei termini relativi al credito d’imposta per l’acquisto di carburanti per le attività agricole e della pesca. L’articolo 3-bis ha invece incrementato di ulteriori 150 milioni il fondo straordinario a favore di comuni (130 milioni) e città metropolitane (20 milioni) inizialmente istituito dal Dl 17/2022. Lo stesso articolo ha incrementato di 320 milioni anche il fondo per l’acquisto di carburante finalizzato a garantire il trasporto pubblico. L’articolo 4-bis invece ha introdotto una serie di disposizioni volte alla promozione del passaggio a combustibili alternativi per le aziende.

Alcuni aspetti critici sulle conversioni dei decreti

Le modifiche apportate al decreto in esame a seguito della discussione in parlamento peraltro non sempre sono state coerenti con il fine originale del provvedimento. Che, secondo quanto riportato anche dall’analisi fatta dal comitato per la legislazione della camera, era duplice. In primo luogo l’adozione di misure a sostegno della cittadinanza per contrastare il caro energia e in secondo luogo disposizioni in materia di finanza pubblica. Ambito che il comitato, citando anche la sentenza 247/2019 della corte costituzionale, considera comunque troppo ampio.

Le modifiche fatte ai decreti legge non sempre sono coerenti con il fine originario del provvedimento.

Tra gli articoli aggiuntivi, per citare alcuni esempi figurano: il comma 1-bis dell’articolo 13 che ha esteso da 3 a 5 anni la durata massima delle licenze dei diritti televisivi sportivi. L’articolo 14-bis invece va a modificare la legge 100/1990 in tema di operazioni bancarie al fine di favorire la partecipazione di operatori italiani a società ed imprese miste all’estero. L’articolo 14-quater infine interviene sulla disciplina delle imprese di assicurazione e riassicurazione.

Provvedimenti che evidentemente sono stati aggiunti “strategicamente”, in alcuni casi in accordo con l’esecutivo, ma che sono in contrasto con la natura dei decreti legge. I quali dovrebbero servire per affrontare situazioni di emergenza circoscritte con misure omogenee tra loro.

Il conflitto con la costituzione

Come risulta evidente da questo excursus, il monocameralismo di fatto contribuisce in maniera significativa a velocizzare l’iter di approvazione delle leggi. Una necessità che – senza tacere le storture del fenomeno – è stata riconosciuta anche dalla corte costituzionale e che si è acuita a seguito dell’esplosione dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19.

Dall’altro lato però questa prassi tende a svuotare sempre di più le prerogative del parlamento. I cui margini di manovra sono sempre più ridotti rispetto alla volontà dell’esecutivo. Se è vero che è normale uno stretto rapporto tra il governo e la maggioranza che lo sostiene è anche vero che la costituzione, all’articolo 70, prevede che le 2 camere esercitino il potere legislativo “collettivamente”. Da questo punto di vista, nel dibattito accademico si è parlato di “modifiche tacite al dettato costituzionale”.

La marginalizzazione del Parlamento con lo spostamento del baricentro a favore del Governo nell’esercizio della funzione legislativa è comunque un dato unanimemente riconosciuto che, sebbene sia un ritornello che da sempre accompagna la storia repubblicana, negli ultimi tempi ha registrato scostamenti – quantitativi e qualitativi – dal modello costituzionale tali che il loro accumularsi sembra aver infine invertito del tutto il rapporto tra regola ed eccezione

Tuttavia la necessità di porre un rimedio strutturale a questa disfunzione non pare essere in cima alla lista delle priorità dell’attuale esecutivo come dei precedenti. Così come del resto non risulta al centro del dibattito pubblico.

Gli esponenti della maggioranza durante la campagna elettorale avevano annunciato la volontà di rivedere l’assetto istituzionale del nostro paese. Le proposte messe sul tavolo sono molte e molto diverse tra loro. Attualmente però una proposta di riforma in questo senso non è stata ancora presentata.

Oggi quindi è impossibile capire non solo se una tale riforma riuscirà effettivamente a vedere la luce ma anche se e in che misura questo progetto affronterà il tema del monocameralismo di fatto.

Foto: Governo – Licenza

 

A chi sono andati i fondi Pnrr per il piano “scuola 4.0” #OpenPNRR

A chi sono andati i fondi Pnrr per il piano “scuola 4.0” #OpenPNRR

Un decreto del ministero dell’istruzione ha assegnato agli istituti scolastici i fondi per l’acquisto di strumenti digitali. Ora la palla passa alle scuole che dovranno completare le procedure in tempi stretti per non perdere le risorse.

 

La possibilità di usufruire di dispositivi digitali – ma anche il possesso di competenze adeguate per sfruttarli al meglio – rappresenta una delle sfide che il sistema educativo italiano è chiamato ad affrontare nei prossimi anni.

Per raggiungere questo obiettivo, il nostro paese ha adottato il cosiddetto piano “Scuola 4.0“. A questo progetto contribuisce anche il Pnrr con un investimento considerevole.

2,1 miliardi € le risorse messe in campo dal Pnrr per realizzare il piano scuola 4.0.

Un decreto del ministero dell’istruzione pubblicato nel settembre 2022 ha distribuito tra gli istituti scolastici italiani una parte di questi fondi destinati in particolare a progetti nuovi. Altri atti pubblicati in precedenza invece avevano dirottato parte degli investimenti su progetti già in essere.

Già questo elemento fa capire come non sia semplicissimo riuscire a ricostruire tutti i passaggi amministrativi che hanno portato all’attribuzione delle risorse. Anzi, in alcuni casi purtroppo è risultato impossibile.

Le criticità però non si fermano alla scarsa trasparenza. Come vedremo infatti, l’attribuzione delle risorse ha seguito per la maggior parte un criterio demografico. Le risorse sono state cioè assegnate in base al numero di scuole presenti e di classi attive. Questa scelta però sembra andare in direzione opposta rispetto all’obiettivo di ridurre i divari tra i diversi territori. Finalità che invece dovrebbe essere tra le principali del Pnrr.

Da tenere presente inoltre che l’effettiva erogazione di queste risorse non può essere ancora data per certa. La palla adesso passa agli istituti scolastici che dovranno presentare a stretto giro i progetti che intendono realizzare con i fondi assegnati. Un passaggio non scontato perché le procedure amministrative richieste per accedere alle risorse del Pnrr sono complesse. E spesso, come abbiamo già raccontato per gli enti locali, la carenza di personale e di competenze adeguate può costituire un ostacolo.

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In cosa consiste il piano scuola 4.0

Il piano scuola 4.0 è stato adottato con un decreto del ministero dell’istruzione dello scorso giugno. Questo atto fornisce una serie di indicazioni pratiche per il raggiungimento degli obiettivi previsti. Tale piano, come anticipato, sarà finanziato anche dal Pnrr attraverso la misura denominata “scuola 4.0 – scuole innovative, nuove aule didattiche e laboratori”.

L’obiettivo di questo investimento è favorire la transizione digitale del mondo scolastico, trasformando le aule in ambienti di apprendimento innovativi. Inoltre si prevede il potenziamento dei laboratori per le professioni digitali.

La denominazione “Scuola 4.0” discende proprio dalla finalità della misura di realizzare ambienti di apprendimento ibridi, che possano fondere le potenzialità educative e didattiche degli spazi fisici concepiti in modo innovativo e degli ambienti digitali.

Più concretamente, a livello nazionale, si punta alla trasformazione di circa 100.000 classi tradizionali in connected learning environments (ambienti di apprendimento connessi), con l’introduzione di dispositivi informatici come pc, tabet e lavagne interattive. A ciò si aggiunge anche l’obiettivo di creare dei laboratori appositamente pensati per trasmettere agli studenti le nozioni necessarie per essere competitivi nel mercato del lavoro digitale del futuro.

Come si distribuiscono le risorse

Come anticipato, un decreto del ministero dell’istruzione entrato in vigore nel settembre scorso ha individuato gli istituti scolastici beneficiari delle risorse. L’atto in questione ha suddiviso i fondi in diverse azioni.

L’azione 1 è quella dedicata alla trasformazione delle aule in ambienti innovativi di apprendimento, attraverso l’acquisto di dispositivi didattici connessi. Questo intervento assorbe circa 1,3 miliardi di euro: cioè il 62% circa delle risorse Pnrr assegnate a questa misura. L’azione 2 è invece mirata alla realizzazione dei laboratori per le professioni digitali. In questo caso, le risorse stanziate ammontano a circa 425 milioni di euro.

1,7 miliardi € i fondi Pnrr per scuola 4.0 assegnati a nuovi progetti.

A queste risorse si aggiungono altri 289 milioni che è già possibile territorializzare e che sono finalizzati al finanziamento di progetti già in essere.

La regione a cui vanno più fondi è la Lombardia, cui complessivamente sono stati assegnati oltre 260 milioni di euro. Questi si suddividono in circa 187 milioni per la trasformazione delle aule in ambienti innovativi di apprendimento (azione 1). Mentre 53 milioni vanno alla realizzazione di laboratori per le professioni digitali del futuro (azione 2). Infine, circa 22 milioni serviranno per finanziare progetti già in essere al momento dell’approvazione del Pnrr. Dopo la Lombardia troviamo due regioni del mezzogiorno. Ovvero la Campania (a cui vanno complessivamente 232 milioni circa) e la Sicilia (189 milioni).

Da notare che in questo caso la clausola della riserva di almeno il 40% delle risorse Pnrr per le regioni del mezzogiorno è stata rispettata. C’è da dire però, come vedremo meglio tra poco, che la situazione non è definitiva e anzi potrebbe cambiare.

41,6% la quota di risorse Pnrr per il piano scuola 4.0 destinate al mezzogiorno. 

Purtroppo non è possibile arrivare al dettaglio di come si distribuiscono le risorse comune per comune. Ciò per diversi motivi: in primo luogo perché non sempre è presente questa indicazione. Inoltre, spesso gli istituti scolastici possono coprire il territorio di più di un comune. Per avere un’informazione più dettagliata ma comunque completa di come si distribuiscono i fondi scuola 4.0 dobbiamo fermarci quindi alle province e alle città metropolitane.

In base ai dati disponibili possiamo osservare che le province che ricevono la maggior parte dei fondi sono anche le più popolose del nostro paese. Ai primi posti infatti troviamo Napoli (circa 122,5 milioni assegnati), Roma (115 milioni) e Milano (79,6).

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DA SAPERE

Il ministero dell’istruzione adotta un sistema di localizzazione dei diversi istituti scolastici che non tiene conto della nascita di alcune province avvenute negli ultimi anni. Per questo motivo non è possibile attribuire direttamente i fondi ai territori di Fermo, Barletta-Andria-Trani e Sud Sardegna. Per avere un quadro completo su tutte le risorse assegnate a ogni scuola si rinvia a questo dataset.

FONTE: elaborazione Openpolis su dati ministero dell’istruzione e del merito
(consultati: martedì 27 Dicembre 2022)

 

Tra le altre province e città metropolitane che ricevono la quota più consistente di risorse troviamo anche Torino (59,5 milioni), Bari (59,3), Palermo (46,7), Salerno (42,6) e Catania (41,5).

I problemi nell’assegnazione dei fondi

Come abbiamo appena visto, non tutti i fondi del Pnrr assegnati al piano scuola 4.0 sono stati utilizzati per nuovi progetti. Inoltre risulta particolarmente complesso – e in alcuni casi impossibile – capire come le risorse per i progetti in essere si distribuiscono sul territorio. Nel decreto ministeriale già citato infatti si fa riferimento ad almeno altri 5 atti del ministero dell’istruzione. Nello specifico:

  • Il decreto 187/2020 che ha ripartito 70 milioni per l’acquisto di dispositivi digitali per l’apprendimento a distanza (tematica particolarmente urgente nelle fasi più concitate dell’emergenza pandemica);
  • Il decreto 155/2020 che ha destinato 85 milioni per l’acquisto di dispositivi, compresa la connettività delle scuole, per la didattica digitale integrata;
  • Il decreto 290/2021 che ha stanziato ulteriori 35 milioni per l’acquisto di attrezzature digitali;
  • Il decreto 147/2021 che ha indirizzato al finanziamento di spazi laboratoriali 51,7 milioni;
  • Il decreto 224/2021 che ha stanziato 47,4 milioni sempre per i laboratori.

Anche così però non si riesce ad arrivare alla totalità delle risorse. Mancano ancora all’appello infatti circa 111 milioni che, a oggi, risultano ancora da assegnare. Peraltro, nel caso degli ultimi 2 decreti citati è risultato impossibile, per motivi diversi (l’impossibilità di elaborare le tabelle in un caso, il rinvio a ulteriori atti nell’altro), capire come le risorse si distribuiscono nei diversi territori.

È molto complesso capire come si distribuiscono i fondi per scuola 4.0

Un ulteriore elemento di complicazione sta nel fatto che nella pagina web dedicata al piano sono indicati alcuni atti diversi rispetto a quelli citati nel decreto ministeriale in esame. Purtroppo però anche in questo caso le informazioni scarseggiano. Per quanto riguarda il decreto ministeriale 222/2022 i metodi per assegnare le risorse sono molteplici. In un caso c’è una cifra fissa per ogni istituto, in un altro si rimanda ad un successivo decreto del direttore generale, in altri ancora si rimanda a procedure di selezione pubblica ancora da espletare.

Sono poi citati altri 85 milioni messi a disposizione dall’articolo 21 del decreto legge 137/2020. Non sembrerebbero quindi risorse afferenti al Pnrr, motivo per cui non sono oggetto di trattazione in questo articolo. In questo caso comunque si arriva al massimo al riparto regionale dei fondi. C’è poi un’ultima voce dal titolo “Spazi e strumenti digitali per Stem”. Che però non ha alcun ulteriore riferimento ad atti o dati.

Alla luce di questa ricostruzione, risulta evidente come sia praticamente impossibile avere un quadro completo e puntuale di come le risorse del piano scuola 4.0 si distribuiscano sul territorio. Un problema peraltro che non riguarda solo questo filone ma che si ripresenta in maniera molto ricorrente quando si parla di Pnrr.

Altri aspetti critici

Un altro elemento critico che emerge dall’analisi riguarda il fatto che la ripartizione delle risorse tra le regioni segue un andamento essenzialmente demografico. I territori più popolosi in termini di studenti cioè sono anche quelli che ricevono più risorse.

I fondi scuola 4.0 non appianeranno i divari tra territori.

Sostanzialmente infatti, almeno per i nuovi progetti, i criteri adottati per la ripartizione sono stati due: per l’azione 1 ci si è basati sul “numero delle classi attive” (più studenti frequentano le scuole di un territorio, più classi saranno presenti). Per l’azione 2, invece, è stata stanziata una cifra fissa sia per i licei (circa 124mila euro) che per le altre scuole secondarie che abbiano attivo almeno un indirizzo di istituto tecnico o professionale (circa 165mila euro).

È evidente che questi due criteri non sono stati pensati per colmare i divari tecnologici esistenti tra istituti e territori. In questo senso, sarebbe stato più opportuno analizzare prioritariamente i bisogni reali di ogni scuola e individuare quelle più in difficoltà per colmare le disparità territoriali.

Un altro elemento particolarmente rilevante riguarda il fatto che l’assegnazione dei fondi non è definitiva. Ora tocca agli istituti scolastici che, in base alle istruzioni operative fornite dal ministero, dovranno caricare i progetti esecutivi (l’ultimo step di progettazione prima di passare all’operatività) su un’apposita piattaforma. Successivamente è prevista entro giugno l’aggiudicazione delle forniture e dei servizi. Se queste tempistiche non dovessero essere rispettate le scuole potrebbero perdere i fondi assegnati.

Questo passaggio non può certo essere dato per scontato. Visto che, come abbiamo raccontato, sono proprio gli enti territoriali ad essere maggiormente in difficoltà nell’implementare le complesse procedure richieste dal Pnrr.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: Unsplash, Duane Loux – Licenza

 

L’impatto delle disuguaglianze sociali sulla dispersione dopo la pandemia #conibambini

L’impatto delle disuguaglianze sociali sulla dispersione dopo la pandemia #conibambini

Sono gli studenti che vengono da famiglie svantaggiate i più soggetti alla dispersione scolastica. Una relazione, quella tra disuguaglianze di partenza e rendimento scolastico, il cui impatto va analizzato anche a livello locale.

 
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La famiglia di origine continua a giocare un ruolo molto importante sul futuro di ragazze e ragazzi. I divari nei risultati scolastici spesso rispecchiano le disuguaglianze sociali di partenza.

Ne sono una conferma i dati sulla cosiddetta dispersione implicita, un indicatore che utilizza i dati delle prove Invalsi per monitorare la quota di studenti che – pur completando il ciclo di studio – non raggiungono livelli di competenza adeguati.

Non rientrano quindi tra gli abbandoni in senso stretto, la dispersione esplicita di chi lascia la scuola prima del tempo. Tuttavia costituiscono un segnale dello stato del sistema educativo.

L’impatto della dispersione dopo l’emergenza Covid

Come abbiamo avuto modo di approfondire, uno degli effetti immediati dell’emergenza Covid è stato proprio l’aumento della dispersione implicita. La quota di studenti con competenze inadeguate è cresciuta di circa 2,5 punti tra 2019 e 2021.

Con la pandemia è cresciuta la quota di studenti con competenze inadeguate.

Nelle prime rilevazioni, svolte con dati campionari, le percentuale di studenti con risultati insufficienti alla fine degli studi era passata dal 7% al 9,5% del totale. Successivamente la disponibilità di dati per l’intera popolazione studentesca ha consentito di aggiornare la stima, rispettivamente al 7,5% per il 2019 e al 9,8% per il 2021, confermando la tendenza già rilevata dalle stime preliminari.

I test del 2022, in un contesto di progressiva uscita dall’emergenza, indicano una stabilizzazione sui livelli del 2021 della dispersione implicita, con una lieve flessione.

9,7% gli studenti che nel 2022 hanno concluso la scuola superiore con competenze di base inadeguate.

Ciò è in parte positivo, in quanto segnala l’interruzione del trend ascendente e – come vedremo – anche una tendenza alla flessione più marcata in diverse aree del paese. Tuttavia il livello di dispersione implicita si conferma al di sopra dei livelli pre-pandemici. E soprattutto è molto variabile in base all’origine familiare.

All’ultimo anno delle superiori, il 12% degli studenti con Escs sotto la media, ovvero con alle spalle una famiglia di peggior condizione socio-economico-culturale, si trovano più spesso dei coetanei in una situazione di dispersione implicita. Significa aver concluso il percorso di studi con competenze di base inadeguate in tutte le materie rilevate nelle prove Invalsi (italiano, matematica e inglese).

Un dato in netto aumento rispetto al pre-pandemia: dall’8% del 2019 sono saliti all’11,8% nel 2021 e al 12% nel 2022. Il trend di crescita per i ragazzi con un contesto più difficile alle spalle è rallentato, ma non è del tutto scomparso. L’impatto delle disuguaglianze è evidente: tra gli studenti svantaggiati la dispersione implicita incide il doppio rispetto ai coetanei con una condizione familiare sopra la media. Inoltre risulta in lieve aumento nell’ultimo anno, mentre per gli alunni avvantaggiati rimane stabile sul 5,6%.

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DA SAPERE

Ai fini di questa elaborazione, per studenti svantaggiati si intendono quelli con livello socio-economico-culturale della famiglia sotto la media.

Il livello socio-economico-culturale è calcolato attraverso l’indice Escs. Si tratta di un indicatore formulato a livello internazionale che sintetizza tre aspetti: lo status occupazionale dei genitori; il loro livello di istruzione; la disponibilità per il minore di un ambiente favorevole all’apprendimento.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Invalsi
(ultimo aggiornamento: mercoledì 6 Luglio 2022)

 

Quando l’informazione sull’origine sociale dello studente non è disponibile, la dispersione implicita risulta anche superiore: 19,8%, in calo di un punto rispetto al 2021. Cioè circa 3 volte e mezzo rispetto ai ragazzi provenienti da un ambiente più favorevole.

Le disuguaglianze territoriali nella dispersione a scuola

Nel 2022 le regioni dove la quota di studenti di V superiore con competenze inadeguate in tutte le materie è risultata più elevata sono state Campania (19,8%), Sardegna (18,7%), Calabria (18%) e Sicilia (16%).

Spesso si tratta dei territori in cui anche l’abbandono scolastico precoce incide maggiormente. Tutte le regioni citate si collocano infatti sopra la media anche per quota di giovani che hanno lasciato la scuola con al massimo la licenza media.

Una tendenza che segnala come dispersione implicita e abbandoni scolastici precoci non siano altro che due espressioni diverse di uno stesso fenomeno. Un fenomeno che si può sintetizzare nel progressivo allontanamento dal sistema educativo. In alcuni casi esplicito: con l’interruzione del percorso di studi. In altri implicito: i giovani terminano gli studi ma senza competenze adeguate.

1 su 5 gli studenti colpiti da dispersione implicita in Campania.

Questa situazione colpisce soprattutto ragazze e ragazzi con alle spalle le famiglie più fragili. Quelle che per motivi diversi hanno meno risorse, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, da investire sull’educazione dei propri figli. Danneggiando quindi le aree del paese più deprivate e maggiormente segnate dalle disuguaglianze.

Il rapporto tra disuguaglianze e apprendimenti

Per verificare questa relazione a livello locale, possiamo confrontare i dati sulle disuguaglianze tra le famiglie con quelli sul livello di apprendimento degli studenti.

Lo strumento più utilizzato a livello internazionale per monitorare le disuguaglianze in un paese è l’indice di Gini. Un indicatore che va da un minimo di 0, quando tutti i redditi della popolazione si equivalgono, a un massimo di 1 in caso di estrema disparità nella distribuzione dei redditi. A seconda della notazione utilizzata, può essere espresso anche in una scala da 0 a 100.

L’indice di Gini serve a misurare le differenze tra i redditi, per quantificare le disuguaglianze. Vai a “Cos’è l’indice di Gini”

Nel contesto europeo, l’Italia è uno dei paesi in cui il fenomeno incide maggiormente. Con un valore di 32,9 su 100 è infatti il settimo stato su 27 dell’Ue, dopo Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania, Spagna e Portogallo.

Ricostruire questa informazione a livello locale non è semplice, per la carenza di dati disaggregati e per la presenza di fattori (come l’evasione fiscale) che possono compromettere l’analisi.

Per indagare la questione, possiamo utilizzare la versione semplificata dell’indice di Gini, sviluppata nell’ambito del programma di ricerca di interesse nazionale Postmetropoli, i cui dati sono inseriti tra gli indicatori delle politiche urbane raccolti dal governo.

Si tratta di una stima dell’indice di Gini a livello comunale (basata sull’imponibile Irpef del 2012). Purtroppo la granularità dei dati non ha consentito un’analisi sul reddito delle singole famiglie, ma su sottogruppi di popolazione (assunti come omogenei), perciò l’indicatore non è confrontabile con quello nazionale.

Messi a confronto con il grado di competenze, si nota come non emerga una relazione netta, generalizzabile all’intero il territorio nazionale. Ciò anche perché tra i comuni con indice di Gini inferiore, cioè con minore disuguaglianza, sono spesso compresi anche molti comuni con basso reddito medio. Ovvero aree economicamente deprivate, che sono tendenzialmente anche quelle con gli apprendimenti più bassi.

48,5% contribuenti del crotonese che dichiarano tra 0 e 10mila euro. L’area con i redditi più bassi è anche quella con più studenti dalle competenze insufficienti.

Tuttavia non pochi tra i territori con maggiori disuguaglianze coincidono con quelli con i risultati più bassi nelle prove Invalsi.

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DA SAPERE

Il dato rappresenta una stima dell’indice di Gini comunale. Esso è stato calcolato non sul reddito delle singole famiglie, ma su sottogruppi di popolazione.

A partire dal reddito (imponibile Irpef 2012) la popolazione è stata divisa in sottogruppi, e di ciascuno è stato calcolato il reddito medio. Si tratta quindi di una sottostima della diseguaglianza attraverso l’indice di Gini perché riguarda solo la componente ‘tra gruppi’, essendo costruita sull’ipotesi che dentro ciascun gruppo non ci siano differenze.

FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Invalsi e Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (Indicatori per le politiche urbane)
(ultimo aggiornamento: mercoledì 28 Settembre 2022)

 

Tra i capoluoghi ad esempio le maggiori città del sud si caratterizzano per un indice di Gini elevato e bassi apprendimenti. Napoli presenta un indice di Gini pari a 0,24, secondo solo a Milano (0,26) e in linea con quello di Roma. Il punteggio medio Invalsi nel capoluogo campano nelle prove Invalsi di italiano degli studenti di V superiore nel 2021/22 è di 170,4 e il 63,3% degli alunni si attesta sui 2 livelli più bassi.

Palermo e Catania, con un’incidenza della disuguaglianza lievemente inferiore (indice di Gini 0,23), hanno risultati di poco migliori. In entrambe il 60% degli studenti si attesta sui livelli di apprendimento più bassi e i punteggi medi sono rispettivamente 174,21 e 174,88.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. La fonte dei dati sull’indice di Gini sono gli indicatori delle politiche urbane raccolti dal Dipe (Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica) a partire dal programma di ricerca di interesse nazionale (Prin-Postmetropoli). La fonte dei dati sugli apprendimenti a livello comunale per l’anno scolastico 2021/22 è Invalsi.

Foto: Allison Shelley per EDUimages – Licenza

 

Quali comuni sono più attenti alle disabilità in Italia Bilanci dei comuni

Quali comuni sono più attenti alle disabilità in Italia Bilanci dei comuni

Per tutelare i diritti e garantire autonomia alle persone con disabilità sono necessari interventi concreti. Molti di questi vengono effettuati dai comuni che possono direttamente agire nel locale.

 

Le persone con disabilità sono una fascia della popolazione da tutelare. La loro inclusione nelle comunità passa attraverso politiche specifiche. Ad esempio incentivando l’inclusione nel mondo del lavoro, dal momento che questo è uno strumento importante di esercizio dell’autonomia. Ma sono necessarie anche politiche specifiche per ridurre il rischio di povertà indirizzate anche a chi non può lavorare e accessi sempre più inclusivi alle scuole per gli alunni con disabilità.

Sono questi degli interventi che vengono gestiti sia a livello nazionale che locale. In particolare i comuni possono offrire tutta una serie di servizi, dall’assistenza domiciliare agli assegni di cura specifici per le loro condizioni.

68,2% i comuni che nel 2019 offrono il servizio di assistenza domiciliare socio-assistenziale secondo Istat.

Andiamo quindi a vedere nel dettaglio quali sono le spese dei comuni per le persone con disabilità.

La spesa per gli interventi legati alla disabilità

Le attività per l’inclusione delle persone con disabilità sono incluse nella dodicesima missione di spesa riguardante le politiche sociali e la famiglia. All’interno della voce vengono inseriti tutti i costi per l’erogazione dei servizi per coloro che sono considerati inabili. Si tratta di persone che riscontrano delle difficoltà nel condurre una vita normale per dei danni fisici o mentali permanenti oppure che hanno una durata maggiore di un tempo minimo prestabilito.

Nello specifico, sono incluse le spese per il vitto e l’alloggio presso strutture preposte e i costi della gestione di queste strutture. Sono considerate inoltre le indennità in denaro per la persona disabile e per chi presta loro assistenza, le uscite per le prestazioni assistenziali nelle mansioni di vita quotidiana e i beni e i servizi che permettono la partecipazione ad attività culturali e aggregative.

Infine, sono comprese tutte le spese dedicate alla formazione professionale e all’inserimento lavorativo e sociale.

 

Considerando i comuni con più di 200mila abitanti, quello che riporta le uscite maggiori è Trieste, con 121,72 euro pro capite. Più del doppio rispetto a Venezia (64,31), Verona (51,81) e Milano (50,77). In fondo si trovano i comuni di Genova (8,96 euro pro capite), Messina (5,02) e Bari (3,36).

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DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa riportata nell’apposita voce di bilancio. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2016-2021
(ultimo aggiornamento: martedì 3 Gennaio 2023)

 

Considerando le prime cinque città che spendono di più nel 2021, Trieste registra sempre uscite maggiori rispetto alle altre quattro. È però Verona quella che riporta il maggiore incremento tra 2016 e 2021. Si parla di un aumento del 32,46%. Seguono Padova (19,27%), Trieste (15,77%) e Venezia (6,85%). L’unico comune che riporta un calo è Milano (-4,68%).

Ampliando l’analisi a tutti i comuni italiani, la spesa media è pari a 13,23 euro pro capite. Le amministrazioni sarde sono quelle che spendono di più (112,85 euro a persona) assieme a quelle friulane e giuliane (19,39) e marchigiane (18,15). Riportano le uscite minori le amministrazioni della Valle d’Aosta (2,19 euro pro capite), del Piemonte (2,06) e di Bolzano (0,31).

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DESCRIZIONE

Per sapere quanto viene speso nel tuo territorio, clicca sulla casella Cerca… e digita il nome del tuo comune. Puoi cambiare l’ordine della tabella cliccando sull’intestazione delle colonne.

DA SAPERE

I dati mostrano la spesa per cassa riportata nell’apposita voce di bilancio. Spese maggiori o minori non implicano necessariamente una gestione positiva o negativa della materia. Da notare che spesso i comuni non inseriscono le spese relative a un determinato ambito nella voce dedicata, a discapito di un’analisi completa. Le uscite di una missione o di un programma possono essere relative a più assessorati.

FONTE: openbilanci – consuntivi 2021
(ultimo aggiornamento: martedì 3 Gennaio 2023)

 

Tra le amministrazioni italiane, quella che spende di più per gli interventi per la disabilità è Villa San Pietro (Cagliari) con 2.029,76 euro pro capite. Seguono Osilio (Sassari, 907,73), Mogoro (Oristano, 657,05) e Villa Verde (Oristano, 529,16). Ben 27 delle prime 30 posizioni sono occupate da comuni sardi.

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti di questa rubrica sono realizzati a partire da openbilanci, la nostra piattaforma online sui bilanci comunali. Ogni anno i comuni inviano i propri bilanci alla Ragioneria Generale dello Stato, che mette a disposizione i dati nella Banca dati amministrazioni pubbliche (Bdap). Noi estraiamo i dati, li elaboriamo e li rendiamo disponibili sulla piattaforma. I dati possono essere liberamente navigati, scaricati e utilizzati per analisi, finalizzate al data journalism o alla consultazione. Attraverso openbilanci svolgiamo un’attività di monitoraggio civico dei dati, con l’obiettivo di verificare anche il lavoro di redazione dei bilanci da parte delle amministrazioni. Lo scopo è aumentare la conoscenza sulla gestione delle risorse pubbliche.

Foto: ErikSmit – licenza

 

Il sistema di accoglienza dei migranti è tutt’altro che al collasso Centri d’Italia

Il sistema di accoglienza dei migranti è tutt’altro che al collasso Centri d’Italia

“Il vuoto dell’accoglienza” è il nuovo rapporto nell’ambito del progetto pluriennale Centri d’Italia. L’immagine che ne emerge è quella di un sistema che potrebbe svolgere regolarmente il suo compito, ma che continua a essere gestito in modo emergenziale.

 

Il vuoto dell’accoglienza” è il titolo del rapporto sui centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia, realizzato da ActionAid e openpolis nell’ambito del progetto Centri d’Italia.

Si tratta del nostro sesto rapporto, la sesta tappa di un percorso che abbiamo avviato nel 2018. Un anno è passato, invece, dal lancio di Centri d’Italia, la prima piattaforma di monitoraggio indipendente sul sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati nel paese.

In questi mesi migliaia di utenti – tra addetti ai lavori, giornalisti e semplici cittadini – hanno potuto monitorare i centri del paese. Tutto questo è stato possibile grazie ai dati che abbiamo faticosamente ottenuto negli anni, e che oggi sono a disposizione di tutti.

Attraverso i dati relativi all’anno 2021, ottenuti anche in questo caso non senza fatica, presentiamo le tendenze di un periodo ormai consolidato, che va dal 2018 (l’anno di emanazione del decreto sicurezza) appunto al 2021, in corrispondenza dei primi mesi successivi alla cosiddetta riforma Lamorgese. Anni che abbracciano l’intero periodo in cui è rimasto in vigore il decreto sicurezza.

Inoltre, con “Il vuoto dell’accoglienza” introduciamo per la prima volta dati e temi legati ai controlli ispettivi nei centri, grazie alle nostre vittorie nelle aule dei tribunali, di cui parliamo dettagliatamente nel rapporto.

Sono migliaia i posti liberi nei centri

La questione migratoria, con la relativa strumentalizzazione politica, è tornata alla ribalta la scorsa estate, dopo diversi mesi – quelli più duri della pandemia – durante i quali sembrava fosse sparita dal dibattito pubblico e dall’agenda politica, mentre continuavano sotto traccia prassi discriminatorie come quelle delle navi quarantena.

In estate, invece, complice anche la campagna per le elezioni per il nuovo parlamento, i flussi migratori, gli sbarchi sulle coste e l’accoglienza nel paese sono tornati ad essere temi al centro del confronto politico. L’attenzione è persino aumentata lo scorso novembre, con le vicende legate allo sbarco di migranti a bordo delle navi umanitarie a largo delle coste italiane e nei porti della Sicilia.

A differenza di una comunicazione politica forzata da esigenze elettorali e propagandistiche, la realtà, tuttavia, ci parla di un sistema in continua e costante contrazioneInnanzitutto per via del numero degli arrivi, calato drasticamente dal 2018 al 2021.

A fronte di una significativa tendenza alla chiusura dei centri – circa 3mila 500 in meno in tre anni – erano oltre 20mila i posti liberi nelle strutture alla fine del 2021. È questo uno degli elementi più importanti che presentiamo con “Il vuoto dell’accoglienza”. Si tratta di un dato che, insieme ad altri, dimostra come il sistema non sia affatto al collasso, come è stato dichiarato più volte da diversi esponenti politici e all’interno della narrazione mediatica.

L’approccio continua a essere emergenziale.

I centri di accoglienza straordinaria (Cas) continuano nel 2021 ad essere maggioritari, rispetto al sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Oltre il 60% dei richiedenti asilo e rifugiati è ospitato nei Cas, a conferma di una tendenza consolidata, che dura ormai da anni, e a dimostrazione della volontà politica di affrontare un fenomeno strutturale come quello migratorio con un approccio del tutto emergenziale.

60,9% dei posti si trova nel sistema di accoglienza straordinaria (2021).

I dati sono necessari per le politiche pubbliche

Oltre a porre l’accento sull’urgenza di implementare, rafforzare e promuovere il sistema ordinario e pubblico in tutto il territorio italiano, per la prima volta in “Il vuoto dell’accoglienza” presentiamo i dati sulle ispezioni nei centri, ottenuti dopo anni di battaglie in tribunale e purtroppo per ora limitati al 2019. E dedichiamo un intero capitolo all’accoglienza nella città metropolitana di Roma. La capitale è infatti la città italiana con più posti nei centri, ma come molte altre negli anni ne ha persi molti nel Sai. Ci soffermiamo anche sul ruolo di Medihospes, un’importante cooperativa che gestisce 8 posti su 10 sul territorio capitolino.

Crediamo che l’analisi dei dati sia fondamentale per monitorare e valutare il funzionamento del sistema, affinché i cittadini e i decisori pubblici possano avere un quadro completo necessario alla costruzione di nuove e più efficaci politiche pubbliche.

Nelle prossime settimane indagheremo, tema per tema, tutti gli ambiti che abbiamo affrontato con “Il vuoto dell’accoglienza”. Chiedendo conto al governo del perché si parla di un sistema al collasso, con una quota considerevole di posti liberi, in alcune aree e in alcuni periodi dell’anno superiori ad un terzo, come vengono impiegate le risorse pubbliche e con quali effetti sulle vite di persone portatrici di diritti.

Foto: un richiedente asilo in un Cas – Andrea Mancini

 

Le linee di rete mobile sono in aumento Innovazione

Le linee di rete mobile sono in aumento Innovazione

L’utilizzo di sim per la trasmissione dei dati è un mezzo utile per potersi connettere a internet. Non deve però sostituire interamente gli investimenti sulla rete fissa.

 

Poter disporre di una connessione rapida e capillare è diventato un aspetto sempre più importante in numerosi ambiti della vita quotidiana. È cruciale ad esempio per le opportunità per i minori ma anche per il mondo del lavoro. Come abbiamo spesso analizzato, ci sono delle differenze territoriali importanti nel nostro paese. Non tutte le regioni hanno una copertura tale da raggiungere chi ne ha bisogno e la differenza digitale è presente pure nella velocità di connessione.

Ma non ci si connette soltanto tramite rete fissa. Sono infatti numerosi anche i dati mobili scambiati attraverso le sim telefoniche.

La telefonia mobile e l’utilizzo dei dati

Le sim sono uno dei mezzi utilizzati per connettersi ad internet ma non sono tutte uguali. Le sim human sono quelle più tradizionali, che forniscono servizi “solo voce” o “voce e dati”. Consentono molte operazioni tra cui la navigazione internet. Ultimamente si stanno affermando anche le sim m2m (machine-to-machine) che oltre a consentire le operazioni tradizionali permettono anche di mettere in comunicazione dei dispositivi, autorizzando operazioni effettuate in maniera autonoma. Un esempio è rappresentato da elettrodomestici che vengono accesi o spenti senza la necessità di un input umano ma attraverso dei sistemi per cui è possibile programmarla.

 

Il numero di sim è in leggera crescita dal 2018 al 2022. Si passa dai 103,6 milioni del settembre 2018 ai 107,1 del settembre 2022. Risultano in aumento le sim m2m, passando da 20,3 milioni (il 19,59% del totale) a 28,6 (26,7%). Calano invece le sim human: da 83,3 milioni (80,41%) a 78,5 milioni (73,30%).

Concentrandosi solo sulle sim human, a settembre 2022 sono di più quelle residenziali (86,7%) che quelle per affari (13,3%). Queste ultime però sono in leggero aumento dal 2018, quando si attestavano a 11,4%. A livello di contratto, si registra un incremento nelle sim prepagate che passano dall’86,2% del settembre 2018 all’89,1% del 2022.

 

Aumenta anche il volume totale di dati trasmesso dalle sim. Nei primi nove mesi del 2022 il traffico complessivo è sempre maggiore rispetto al medesimo periodo degli anni precedenti, con un picco nel mese di agosto (36,4 Pb). Negli anni precedenti si segnala un maggiore utilizzo delle sim per la trasmissione di dati mobili tra marzo e aprile 2020 (rispettivamente 19,3 Pb e 19,9 Pb). Questo periodo è contestuale all’implementazione delle misure per arginare l’emergenza pandemica.

L’utilizzo dei dati mobili può essere sicuramente un’alternativa più agile per connettersi a internet. Non significa però che gli investimenti sulla rete fissa non debbano più essere portati avanti. L’Italia infatti è ancora lontana dagli obiettivi europei per la connessione alla banda ultraveloce, essendo il terzultimo paese per copertura con il 44,6% delle abitazioni raggiunte. Sono questi degli interventi rilevanti per la vita dei territori, soprattutto delle aree più lontane dai centri.

Foto: NordWood Themes – licenza

 

Carlo Felice e i tiranni sabaudi

Carlo Felice e i tiranni sabaudi, seconda edizione: dalla conoscenza alla consapevolezza, recensione di Giuseppe Melis

Carlo Felice e i tiranni sabaudi, il ibro di Francesco Casula, dopo cinque ristampe è arrivato alla seconda edizione.

Recensire un libro uscito per la prima volta nel mese di dicembre del 2016 e arrivato oggi dopo cinque ristampe della prima edizione alla seconda edizione non è facile; anzi, è assai probabile il rischio di essere banali e ripetitivi, perché se i dati sono quelli appena richiamati è evidente che il successo di questo libro è stato certificato proprio dai lettori. Amazon, per esempio, lo colloca al 593° posto dei propri libri più venduti nella categoria “storia moderna e contemporanea dal XVIII° al XX secolo”, su un totale di ben 105.822 libri in catalogo. Se poi consideriamo che si tratta di un libro pubblicato da una piccolissima casa editrice (Grafica del Parteolla con sede a Dolianova, in provincia di Cagliari), il dato sorprende ancora di più.

A oggi, peraltro, sono molte le recensioni e le valutazioni di cui questo libro ha goduto, tutte autorevolissime e qualificate: da Pietro Picciau (giornalista, romanziere e commediografo) ad Andrea Pubusa (studioso di storia sarda, già ordinario di diritto amministrativo presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari), da Pino Aprile (giornalista e scrittore meridionalista, studioso anche lui della storia degli ultimi due secoli) a Tonino Bussu (studioso di cultura, storia, letteratura e lingua sarda, già sindaco del comune di Ollolai), da Claudia Zuncheddu (già consigliere regionale della Sardegna) a Francesco Abate (giornalista, scrittore ora responsabile delle pagine cultuali de L’Unione Sarda), da Vito Diana (magistrato, già presidente della Corte militare di Appello di Roma) a tante persone comuni che hanno sentito il piacere di commentare questo libro.

In sintesi, si può dire che si tratta di un libro di storia per tutti e questo grazie ad alcune scelte stilistiche e di linguaggio facilmente accessibili e, nel contempo, assolutamente rigorose sul piano del metodo: chi scrive, infatti, non è uno storico ma il metodo scientifico è parte del mio mestiere di accademico che fa ricerca nell’ampio e variegato campo dell’economia e del management. Ebbene, non tutti sanno che per scrivere un articolo scientifico, prima di tutto, il ricercatore deve fare due cose: conoscere la letteratura su quel campo di studi e, sulla base di questa, individuare eventuali “gap” (lacune) che meritano di essere approfonditi e portati alla conoscenza del pubblico (degli accademici prima di tutto e poi anche di altri). Ebbene, sotto questo profilo Francesco Casula ha seguito alla lettera questo metodo: intanto da docente di storia e letteratura che ha insegnato per oltre quarant’anni nelle scuole secondarie della Sardegna, ha avuto modo di imbattersi, sia per professione che per interesse personale, in tante pubblicazioni di ogni tipo aventi ad oggetto la storia in generale e quella delle diverse aree dell’Europa in particolare, a cominciare da quella che ha visto la Sardegna protagonista.

Ecco, la differenza tra quest’opera e quella di altri è che un primo gap Casula lo ha individuato nell’assumere come punto di osservazione la Sardegna e di capire come la storia si sia evoluta rispetto a questa terra e al popolo che nei secoli l’ha abitata, soprattutto a partire da quando essa venne “regalata” ai principi del Piemonte come premio per aver dato una mano agli inglesi nelle guerre di successione spagnola. Non che prima di questo libro non ci fossero altri testi che abbiano approfondito la storia della Sardegna ma erano e sono tutti validissimi testi accademici, studiati solo da una minoranza di persone che, per esempio, hanno frequentato la Scuola di Specializzazione in Studi Sardi, che oggi, tra l’altro, come tale non esiste più. L’altro gap è stato individuato nel fatto che nessuno prima di quest’opera si era dato carico di raccontare, secondo un approccio longitudinale (basato cioè sulla cronologia degli avvenimenti), i fatti meno noti e, soprattutto, quelli che oggi, col senno di poi, possiamo dire senza tema di smentita, siano stati “nascosti” e “occultati”.

È in questi due gap che quindi si ritrova la “research question” (la domanda di ricerca) che giustifica un testo come quello di Casula: c’era bisogno di un libro che in modo divulgativo potesse permettere al grande pubblico di accedere a dati e fatti ignoti ai più, soprattutto ai Sardi. Ebbene, questa scelta è stata premiata dal pubblico che ha avuto modo di entrare in contatto con il libro e con l’autore, un contatto che è stato reso possibile dalle 118 presentazioni che si sono succedute dal dicembre del 2016 a oggi e che ancora non si sono concluse, perché, questo va esplicitato, c’è una parte dei Sardi (e non solo, visto che il libro è stato venduto in diverse copie anche in diverse città dell’Italia e persino all’estero) che ha voglia di sapere, di conoscere, di capire chi sono e da dove vengono, con linguaggio semplice e comprensibile.

Si, perché fino a oggi i Sardi sono cresciuti e si sono formati (quelli che lo sono) studiando la storia di altre terre e di altri popoli, generando in questo modo una sorta di legame schizofrenico con la propria realtà: profondo sul piano sentimentale ma effimero perché non ancorato a elementi cognitivi solidi. Non a caso apposi alla precedente recensione come esplicitazione al libro “un libro a scoprire per scoprire se stessi” (https://www.manifestosardo.org/carlo-felice-e-i-tiranni-sabaudi-un-libro-da-scoprire-per-scoprire-se-stessi/).

Ecco, questo aspetto di tipo qualitativo aiuta a spiegare ancora meglio il successo del libro di Casula: i Sardi, per lo più, non hanno coscienza di se stessi, non hanno coscienza dei luoghi che abitano, proprio perché non hanno conoscenza della propria storia, il che ha concorso, negativamente, alla costruzione della nostra identità, come individui e come popolo. Siamo cresciuti e ci siamo formati in base a modelli “altri”, estranei alla nostra realtà. Questo non significa che in un approccio complesso alla formazione dell’individuo non sia importante contaminarsi con altre culture e con altre storie ma è quanto meno paradossale (se non del tutto assurdo e inaccettabile) che lo si faccia solo con quelle degli altri e non con la nostra, anche perché come attestano studi moderni di diverse discipline, non esiste una storia più importante di altre, le storie sono tutte importanti poiché rappresentano il vissuto di qualcuno e di qualche territorio.

Un altro aspetto di metodo fondamentale nella valutazione dei lavori di ricerca riguarda la bibliografia citata a testimonianza del fatto che ciò che si scrive non è frutto della fantasia o dell’interpretazione dell’autore, ma, per dirla con le parole attribuite a Isaac Newton, di poggiare le proprie argomentazioni e le proprie tesi “sulle spalle di giganti”, cioè di quanti prima di lui si sono cimentati nello studio di quegli argomenti. E qui ecco il testo è ampiamente infarcito di citazioni con indicazione puntuale delle opere e delle pagine da cui sono stati tratti i contenuti riportati nel testo. Questa operazione, oltre che essere valida di per sé ha avuto anche un altro grande pregio, forse inaspettato inizialmente: chi legge questo libro ha preso talmente gusto nel conoscere e nell’approfondire la storia sarda che sta andando a riprendersi le citazioni di Casula per leggere i testi originali di Aldo Accardo, Giulio Angioni, Carta Raspi, Francesco Cesare Casula, Carlo Baudi di Vesme, Antonio Gramsci, Gianfranco Pintore, Eliseo Spiga, Emilio Lussu, Giuseppe Manno, Giuseppe Dessì, ecc. Insomma, gli stessi accademici dovrebbero trovare piacere nel fatto che grazie a questo libro una parte dei Sardi, che pure non studia storia all’università, inizi a trovare interessanti le letture di testi che, altrimenti, non prenderebbe neppure in considerazione.

Sono queste argomentazioni che supportano ancora una volta di più l’idea che questo testo non possa mancare nelle librerie di ogni comune della Sardegna, nelle librerie di ogni famiglia, nelle biblioteche di ogni scuola secondaria della Sardegna. E sarebbe altresì necessario che questo libro potesse essere presentato, quanto prima, all’Assemblea del popolo sardo in quanto decisori pubblici che dal canto loro, visto che decidono sulle sorti di noi tutti, spesso lo fanno totalmente ignari della conoscenza della nostra storia. Significativa in proposito è la recente dichiarazione dell’Assessore dei lavori pubblici della Regione sarda che ha proposto la modifica della intitolazione della SS 131 che collega Cagliari con Porto Torres: la sua proposta, infatti, è nata dopo che ha partecipato ad una delle presentazioni del libro di Casula durante la quale si espresse pubblicamente dicendo, sostanzialmente (le parole sono le mie ma il concetto è fedele) che si, sapeva che i Savoia non avevano fatto del bene ma che non immaginava minimamente che ne avessero combinato di così gravi.

Ecco, noi Sardi abbiamo tutti bisogno di studiare, la storia prima di tutto, e i questo modo potremo essere artefici del nostro destino senza dover ogni vota aspettare un “messia” che venga da fuori a toglierci le castagne dal fuoco.

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BlogStoria della Sardegna | cubeddu 1 agosto 2019

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♦MISSA CANTATA IN Sa die de sa sardigna – 28 aprile 2018 – Catedrale de Santa Maria in Casteddu
♦Sa die de sa sardigna – 28 aprile 2015 – Palazzo Regio a oras de sas 9:00

♦Sa die de sa sardigna – 28 aprile 2015 – Catedrale, a oras de sas 10:30

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Beato Corrado Comfalonieri

 

Beato Corrado Confalonieri


Nome: Beato Corrado Confalonieri
Titolo: Eremita, Terziario francescano
Nome di battesimo: Corrado Confalonieri
Nascita: 1290, Calendasco, Piacenza
Morte: 19 febbraio 1351, Noto, Sicilia
Ricorrenza: 19 febbraio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Patrono di:
NotoCalendasco
Beatificazione:
12 luglio 1515, Roma, papa Leone X

Egli era un nobile del Trecento, sposo felice di una gentildonna sua pari, e aveva un debole per la caccia. Un giorno, lungo la riva del Po giallastro, un ghiotto capo di selvaggina, ch’egli inseguiva a cavallo, circondato dai cani e dai bracconieri, cercò scampo dentro una macchia impenetrabile.

Dominato dall’impazienza e dal dispetto, l’appassionato cacciatore impartì un ordine imprudente: quello di dar fuoco alla macchia per stanare l’animale. Era estate, e nella pianura riarsa dal sole, gli uomini di Corrado non furono in grado di controllare le fiamme da loro stessi suscitate. Si sviluppò un incendio che, con l’aiuto del vento, distrusse le messi e le cascine vicine.

Corrado e i suoi uomini rientrarono in città senza esser notati. Nessuno era stato testimone del loro involontario malestro. Il rimorso e la paura tennero suggellate le bocche. Ma i proprietari e i contadini danneggiati protestarono presso il governatore della città, che ordinò un’inchiesta. Fu allora arrestato un vagabondo, trovato nei boschi, vicino al luogo dell’incendio. Le prove a suo carico parvero sufficienti, ed egli venne senz’altro condannato a morte. Ma sulla piazza della città, poco prima che avesse luogo l’esecuzione, Corrado non poté resistere all’impulso della propria coscienza, che gl’imponeva di scagionare l’innocente e di accusarsi colpevole al suo posto.

La sua inaspettata confessione chiarì come erano andate le cose. Poiché non si trattava di dolo, ma di responsabilità colposa, dovuta ad una imprudenza, il nobile piacentino venne condannato a risarcire tutti i danni arrecati dalle fiamme. Corrado era ricco, ma l’incendio era stato rovinoso. Quando l’ultimo danneggiato fu risarcito, egli aveva finito non solo tutti i suoi beni ma anche quelli della moglie.

I due sposi ridotti all’indigenza non si angustiarono per questo. Per ambedue quel drammatico avvenimento aveva illuminato di nuova luce tutta la loro vita, come un segno del cielo. La donna rivestì così l’abito delle poverissime figlie di Santa Chiara, entrando nel convento di Piacenza. Corrado si unì ad alcuni devoti eremiti che vivevano fuor di città, sotto la Regola del Terz’Ordine francescano.

I meriti dell’incendiario fattosi penitente furono così luminosi, che molti ammiratori presero a visitarlo e a seguirlo. Per questo Corrado preferì allontanarsi dai luoghi natali, incamminandosi verso Roma. Ma non si fermò presso le tombe degli Apostoli. Proseguì il suo lungo viaggio percorrendo tutta la penisola e passando in Sicilia. Qui si fermò, nella valle di Noto, non lontano da Siracusa, in vista del ceruleo mare Ionio, dove visse trent’anni prima presso ‘un ospedale poi come eremita sui monti. E anche qui volò alta la fama della sua santità, e soprattutto l’eco delle durissime privazioni di quel devoto penitente. Ogni venerdì egli scendeva a Noto, e, dopo essersi confessato, pregava a lungo davanti ad un celebre crocifisso che si conserva nella cattedrale della città. In quella stessa cattedrale furono riposte le sue reliquie, dopo la morte avvenuta nel 1351, 2 i cittadini di Noto onorarono con culto vivissimo il miracoloso eremita piacentino. Ottennero anche, dal Papa Leone X, di poterlo invocare come secondo Patrono della città, subito dopo il grande San Nicola, al quale è dedicata la chiesa che ospita i venerati resti del Beato Corrado, nobile di Piacenza e primo cittadino di Noto.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Noto in Sicilia, beato Corrado Confalonieri da Piacenza, eremita del Terz’Ordine di San Francesco, che, messi da parte gli svaghi mondani, praticò per circa quarant’anni un severissimo tenore di vita nell’orazione continua e nella penitenza.

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Domande Frequenti

  • Quando si festeggia Beato Corrado Confalonieri?

     

  • Quando nacque Beato Corrado Confalonieri?

     

  • Dove nacque Beato Corrado Confalonieri?

     

  • Quando morì Beato Corrado Confalonieri?

     

  • Dove morì Beato Corrado Confalonieri?

     

  • Di quali comuni è patrono Beato Corrado Confalonieri?

     

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