Osservatore Romano

L’oblio 
delle scomuniche

 
 

04 dicembre 2015

 
 

 

 

Gli ultimi giorni del concilio Vaticano II furono tra i più ricchi e fecondi della sua storia. Il 4 dicembre per la prima volta nella storia un Papa pregava con i rappresentanti protestanti, anglicani e ortodossi a San Paolo fuori le Mura. Tre giorni dopo la basilica di San Pietro ospitava un atto formale di riconciliazione tra la Chiesa cattolica e il patriarcato di Costantinopoli. In realtà il 7 dicembre 1965 erano state due le cerimonie, in contemporanea a Roma e Istanbul. A Roma la lettura di una dichiarazione comune precedette la celebrazione della messa mentre il breve pontificale Ambulate in dilectione fu letto dal cardinale Bea dopo la conclusione del rito. Seguì l’abbraccio tra il Papa e il delegato del Phanar, il metropolita Melitone, salutato da quello che lo stesso Bea ha definito «il più lungo applauso di tutto il concilio».

Jean Guitton  «La Chiesa nel tempo  del concilio» (1962)

A completare il quadro simbolico della celebrazione Melitone si recò poi a pregare sulla tomba di Giovanni XXIII, che aveva dato il via al riavvicinamento tra le due Chiese, e a deporre nove rose (quante i secoli della separazione) sulla tomba di Leone ix, il Papa della scomunica del 1054. Nello stesso tempo a Istanbul la lettura della dichiarazione comune era inserita all’interno della celebrazione eucaristica, dopo il vangelo del Buon pastore, mentre la lettura del tòmos patriarcale, fatta dallo stesso Atenagora, seguiva la recita della preghiera del Signore in latino. La celebrazione terminò con la benedizione impartita dal Patriarca insieme al cardinale Lawrence Shehan, arcivescovo di Baltimora e capo della delegazione della Santa Sede.
Da dove scaturiva il gesto di riconciliazione e di pace del 7 dicembre? Il concilio aveva fin dal principio affrontato alcune questioni legate al rapporto con le Chiese ortodosse. Nella prima e seconda sessione però né i testi né i vari dibattiti ebbero riferimenti espliciti allo scisma del 1054, che restava sullo sfondo di questioni pastorali e teologiche sentite con maggiore urgenza (si pensi ad esempio al problema del primato papale oppure alle difficoltà rappresentate per la controparte ortodossa dalla presenza delle Chiese orientali cattoliche). Solo dopo l’incontro di Gerusalemme, nel gennaio 1964, tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora, si erano create le premesse per una nuova epoca nei rapporti reciproci. L’abbraccio tra i due, immortalato dalle riprese televisive e finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, era divenuto l’immagine più efficace del nuovo corso dei rapporti tra le due Chiese.
Nell’ottobre dello stesso anno il vescovo ucraino Maxim Hermaniuk, a nome del segretariato per l’unità, lesse una relazione introduttiva al dibattito sullo schema De oecumenismo, che per la prima volta toccava il tema delle scomuniche del 1054. Il testo era stato preparato dai periti del Segretariato per l’unione dei cristiani, probabilmente dal monaco di Chevetogne Emmanuel Lanne o dal domenicano francese Chistophe-Jean Dumont. La relazione, riferendosi a quegli avvenimenti, precisava che il legato papale Umberto di Silvacandida «tre mesi dopo la morte di Papa Leone ix, nella sua famosa scomunica contro il Patriarca e i suoi seguaci, attribuì gratuitamente a loro tutte le note di eresia della Chiesa del tempo, e a causa di ciò, li condannò, anche se, come risulta oggi dagli studi storici, nessuna verità dogmatica era stata in realtà messa in dubbio». 
Queste affermazioni recepivano in modo autorevole sia la revisione storica operata negli ultimi decenni sia il nuovo spirito dei rapporti tra Roma e Costantinopoli inaugurato dall’incontro di Gerusalemme. Anche se nella continuazione del cammino dello schema ecumenico queste affermazioni non ebbero una ricaduta concreta, la questione restava importante nel quadro dei rapporti tra le due Chiese. La proposta allora di un atto di riconciliazione venne da parte ortodossa ed è collocabile nel contesto degli sviluppi dell’incontro di Gerusalemme. Nel settembre 1964 la conferenza panortodossa di Rodi aveva deciso l’apertura di un dialogo «su un piede di parità» con il cattolicesimo, pur senza precisare quali sarebbero state le forme e gli ambiti concreti di questo dialogo. Il patriarcato di Costantinopoli decise anche di inviare — per la prima volta dall’inizio del concilio — degli osservatori a Roma per l’inizio del terzo periodo. Nel gennaio 1965 una delegazione del Phanar si recò a Roma per informare ufficialmente il Papa dei risultati della conferenza panortodossa. Il metropolita Melitone di fronte a Paolo VI aveva presentato le intenzioni della parte ortodossa in termini ancora generici ma che fanno intuire i successivi sviluppi. Parlava infatti di una prima tappa del riavvicinamento caratterizzata da una «preparazione generale attraverso la creazione di circostanze favorevoli e attraverso lo studio dei diversi temi del dialogo». Proprio l’accenno alla creazione di «circostanze favorevoli» sembra indicare quel livello precedente il dialogo dal quale sarebbe poi emersa la proposta di una dichiarazione comune sui fatti del 1054.
Nell’aprile 1965 una delegazione romana, formata da Willebrands e Bea, si recava a Istanbul per rinnovare il contatto. Nel colloquio personale con Bea il Patriarca Atenagora aveva espresso più volte l’opinione che fosse giunto il momento, da parte della Chiesa di Roma, di «disdire» lo scisma, essendo venuti meno i motivi della divisione. Ma è solo nell’estate dello stesso anno, durante un’altra visita di Melitone a Roma, che una proposta più articolata venne formulata da parte ortodossa. Il metropolita portava in dono al Papa una grande icona che rappresentava l’abbraccio tra Pietro e Andrea, oggi conservata nella sede del Pontificio Consiglio per l’unità, indicando la volontà di rinnovare l’intesa e la comunione tra oriente e occidente, nei termini della Chiesa apostolica. Da questo momento inizia anche da parte cattolica l’avvio del processo che avrebbe portato alla dichiarazione comune. A metà luglio Willebrands e Duprey erano stati al Phanar, latori di una lettera di ringraziamento di Paolo VI e dell’omaggio del Giornale dell’anima di Giovanni XXIII in lingua greca. Durante questi colloqui era stato affrontato anche il tema della levata delle scomuniche.
La questione era abbastanza complessa. Come è noto, la scomunica è per la Chiesa cattolica un fatto personale, finalizzato alla conversione del destinatario, che termina con la morte del diretto interessato. L’atto del 1054 inoltre era stato in qualche modo superato, almeno dal punto di vista formale, dalla definizione del concilio di Firenze che, nel 1439, aveva sancito l’unione tra Roma e la Chiesa greca. Secondo diverse testimonianze Paolo VI confessava di non aver mai considerato la possibilità di una revoca della scomunica del 1054, pensando che in realtà essa fosse già stata abrogata dal concilio di Firenze. Nell’estate del 1965 comunque fu incaricato lo storico Michele Maccarrone di uno studio sugli avvenimenti dell’xi secolo. Lo studioso presentò un documento al Papa ma la prospettiva storica fu poi successivamente ampliata con l’intervento del Segretariato per l’unità. Non si trattava infatti di una mera questione accademica ma della possibilità di un passo avanti nel dialogo reale tra le due Chiese, di un gesto di riconciliazione da inserire in una nuova dinamica ecumenica.
Il 9 ottobre 1965, durante un’udienza di Paolo VI al metropolita Emilianos Timiadis, osservatore delegato del Patriarcato di Costantinopoli, fu decisa la costituzione di una commissione mista cattolico-ortodossa per studiare una formula di riconciliazione. Il domenicano Dumont fu incaricato di stendere un primo progetto di dichiarazione comune che divenne la base dei lavori della commissione. Tra il 22 e il 23 novembre i membri cattolici (Maccarrone, Alphonse Raes, Willebrands, Dumont e Alfons Stickler) si recarono ad Istanbul, vista la difficoltà per i metropoliti del Patriarcato di spostarsi a causa delle restrizioni imposte dal governo turco. Da parte cattolica a fare da segretario e a tenere la regia era padre Pierre Duprey, responsabile della sezione orientale del Segretariato, che fin dal 1963 aveva tenuto i contatti con Atenagora e con i suoi emissari.
La discussione evidenziò le diverse prospettive tra le parti. Il punto più discusso fu il paragrafo 4 relativo alla formule di cancellazione delle scomuniche. Da parte ortodossa veniva richiesta l’introduzione di un riferimento al «popolo» di Dio e non solo ai capi delle Chiese. Faceva problema poi il fatto che per stigmatizzare le parole e i gesti fosse utilizzato il verbo «riprovare» mentre per gli atti veri e propri di scomunica ci fosse un più morbido «dolersi». Da parte cattolica faceva invece problema l’uso di «riprovare» per un atto emanato dall’autorità legittima. Ciò avrebbe comportato un giudizio di merito sul comportamento dei responsabili della Chiesa di allora e avrebbe portato alla individuazione di responsabilità che ben difficilmente potevano invece essere attribuite. La soluzione finale, condivisa da entrambe le parti, fu l’utilizzo di un unico verbo, «dolersi», per entrambe le frasi.
Emergeva pure una discordanza di fondo sul modo di intendere il significato stesso delle reciproche scomuniche. Da parte cattolica l’atto aveva una dimensione personale e si esauriva con la morte del destinatario. Era inconcepibile quindi cancellare la sentenza a una persona ormai scomparsa. Per la visuale ortodossa la scomunica aveva invece un valore perenne, come ostacolo che si frapponeva tra le due Chiese. Vista l’impossibilità di superare l’ostacolo fu deciso di modificare la frase centrale aggiungendo alcune specificazioni. Per stigmatizzare le sentenze di scomunica si manteneva il termine «dolersi». Esse venivano però anche «tolte» dalla memoria della Chiesa. È questo un aspetto importante perché recuperava una nozione della tradizione teologica ortodossa. La memoria è un aspetto della coscienza della Chiesa che si riflette sull’oggi: ciò che è stato rimane vivo nel presente e lo condiziona. Per questo era necessario togliere di mezzo non solo l’atto giuridico ma anche il ricordo di esso.
Afferma la dichiarazione: «Il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora i nel suo sinodo, certi di esprimere il comune desiderio di giustizia ed il sentimento unanime di carità dei loro fedeli e ricordando il precetto del Signore: “Quando presenti la tua offerta all’altare, se là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello” (Matteo, 5, 23-24), dichiarano di comune accordo: a) di dolersi delle parole offensive, dei rimproveri senza fondamento e dei gesti riprovevoli che, da una parte e dall’altra, hanno segnato o accompagnato i tristi eventi di quell’epoca; b) di dolersi ugualmente ed eliminare dalla memoria e dal mezzo della Chiesa le sentenze di scomunica che ne sono conseguite, e il cui ricordo costituisce fino ai nostri giorni un ostacolo al riavvicinamento nella carità, e votarle all’oblio».
A fine novembre il progetto definitivo della commissione mista era pronto, dopo un lavoro condotto con grande spirito di collaborazione. Dopo la conferma dell’accettazione da parte del sinodo di Costantinopoli, Willebrands poté inviare il testo definitivo al Sant’Uffizio per la revisione finale. La congregazione, in accordo con Paolo VI, suggeriva un ultimo emendamento. Nella parte finale del testo si faceva riferimento al «rincrescimento» e alla «riparazione» dei «torti storici». Il Papa chiedeva di togliere le parole relative alla «riparazione», considerando la difficoltà di precisarne il contenuto effettivo. D’altra parte la dichiarazione non aveva definito con precisione neppure i torti subiti dalle due parti. Per questo padre Duprey ritornò a Istanbul a presentare l’ultima variazione. Atenagora non aveva difficoltà e disse all’emissario del segretariato: «Per me è sufficiente che il Santo Padre lo decida, che il Santo Padre lo desideri, non voglio sapere nulla di più». Così il giorno dopo, il 4 dicembre 1965, venne l’accordo definitivo del sinodo di Costantinopoli. La doppia cerimonia del 7 dicembre, ricca di aspetti simbolici, rendeva visibile il sotterraneo cammino di intesa che era stato costruito nei mesi precedenti. Il Patriarca Atenagora passando con il cardinal Bea tra i fedeli entusiasti a Costantinopoli, nell’aprile 1965, aveva detto: «Vedete, l’unione è plebiscitaria». Qualcuno, uscendo da San Pietro il 7 dicembre, si chiedeva se il gesto compiuto non fosse già la realizzazione di quell’unità desiderata. A distanza di cinquant’anni quel gesto parla ancora e ci autorizza a rinnovare le speranze di allora.

di Mauro Velati

 
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    Concilio Vaticano II
 
 

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Osservatore Romanoultima modifica: 2015-12-04T17:40:07+01:00da vitegabry
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