Ci sono voluti 13 anni di battaglie legali e una sentenza della Corte dei diritti dell’Uomo (Cedu), sollecitata dai legali dell’Inca, perché si riconoscesse a un lavoratore tunisino, con regolare permesso di soggiorno e 4 minori a carico, il diritto all’assegno previsto, per i nuclei familiari numerosi, dalla legge n. 448/1998.
A mettere fine al suo calvario è intervenuta la Corte di Strasburgo, chiamata a pronunciarsi sulla base di un ricorso promosso dallo studio legale “Angiolini e associati” di Milano, con cui l’Inca collabora da tempo.
La sentenza dell’8 aprile scorso afferma in modo inequivocabile che il solo mancato possesso del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti (peraltro non previsto all’epoca dei fatti dalla legislazione italiana) non è un argomento sufficiente per negare ad un lavoratore extracomunitario le prestazioni di welfare, condannando lo Stato italiano a pagare non soltanto quanto dovuto al lavoratore straniero, ma anche i danni morali che ne sono derivati.
E non solo; la Corte di Strasburgo ha rigettato tutte le eccezioni sollevate dallo Stato Italiano tese soprattutto a dimostrare che l’Accordo di cooperazione tra l’Unione europea e la Tunisia (cosiddetto Accordo Euro mediterraneo), ratificato dall’Italia con la legge n. 35 del 3 febbraio 1997, non prevede la concessione di tali benefici ai tunisini regolarmente presenti in Italia, limitandosi a riconoscere loro soltanto alcuni istituti legati alla totalizzazione dei contributi previdenziali per la pensione, alle indennità di malattia, di disoccupazione e all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali.
La sentenza dell’Alta Corte europea scaturisce dopo aver espletato, senza successo, i tre gradi di giudizio in Italia. Il primo pronunciamento negativo è stato emesso il 10 aprile del 2002 dal Tribunale di Marsala; il secondo, il 21 ottobre 2004, dopo il ricorso in appello, dal Tribunale di Palermo. La Cassazione, infine, chiamata a pronunciarsi sulle “pregiudiziali di principio” esposte dagli altri due tribunali ha pensato di poter chiudere il caso confermando, nella sentenza del 15 aprile 2008, il rigetto della richiesta. Ma così non è stato.
Il patronato Inca e i suoi legali sono ricorsi alla Corte dei diritti dell’uomo perché fin troppo evidenti erano i sospetti di illegittimità del diniego. E infatti, la Cedu, nella sentenza di aprile, ha ritenuto non convincente l’orientamento della Cassazione che, invece, di pronunciarsi sulle “pregiudiziali di principio”, per le quali era stata chiamata in causa, ha soltanto fornito una interpretazione restrittiva dell’accordo bilaterale tra la Tunisia e l’Italia, facendo scaturire, di fatto, la negazione del principio di uguaglianza, che pure è, afferma la Corte europea, scritto in modo inequivocabile nell’intesa tra i due paesi.
Altra eccezione espressa dal nostro Stato in sede giudiziaria e respinta da Strasburgo riguarda la presunta regolare interpretazione della legislazione italiana che limita agli extracomunitari il riconoscimento delle prestazioni di natura previdenziale, escludendoli dall’accesso di quelle di tipo assistenziale, come è appunto quella dell’assegno al nucleo familiare numeroso.
Secondo la Cassazione queste ultime sono assicurate principalmente ai cittadini italiani, salvo altre disposizioni. Anche in questo caso la Corte europea ha ribadito che non può esserci diversità di trattamento poiché il lavoratore ha a tutti gli effetti gli stessi diritti di cui godono gli autoctoni. In altre parole, poiché gli extracomunitari pagano le tasse come tutti e contribuiscono con il loro lavoro alla ricchezza del paese ospitante non c’è ragione di ritenere che debbano essere esclusi dai benefici di welfare, sia pure assistenziali.
Spuntata anche l’arma di questa eccezione, il nostro paese di fronte al Tribunale dei diritti dell’uomo si è difeso dalla contestazione di aver avuto un atteggiamento discriminatorio legato alla nazionalità del lavoratore tunisino, affermando che l’estensione agli stranieri presenti regolarmente in Italia del diritto all’assegno al nucleo familiare numeroso, è subordinata alle disponibilità finanziarie programmate.
Un’argomentazione debole per la Corte europea che nella sentenza afferma chiaramente che: “Una tale differenza è discriminatoria se non si poggia su una giustificazione oggettiva e ragionevole” e… “le autorità (italiane ndr) non hanno dato motivazioni ragionevoli che potessero giustificare la esclusione da certi benefici di legge degli stranieri legalmente inseriti in Italia”; da qui la conclusione che la scelta di negare il diritto sia solo frutto di un atteggiamento discriminatorio, legato alla nazionalità del lavoratore tunisino.
In sostanza, il Tribunale di Strasburgo, pur riconoscendo la legittimità degli interessi di budget di uno Stato, questi da soli non possono giustificare la differenza di trattamento denunciata in questa causa. Tanto più, dice la sentenza, che “il lavoratore tunisino non era uno straniero soggiornante sul territorio per un breve periodo, o in violazione delle leggi sull’immigrazione e non apparteneva nemmeno alle categorie di persone che non contribuiscono al finanziamento dei servizi pubblici, per i quali uno Stato può avere delle buone ragioni per impedire loro di accedere ai servizi sociali pubblici, quali sono i programmi di sicurezza sociale, di prestazioni pubbliche e di cura”.
Nulla da fare, quindi, per lo Stato italiano che ora dovrà pagare al lavoratore tunisino gli arretrati degli assegni non goduti, comprensivi degli interessi di mora (complessivamente circa 9 mila euro) e altri 10 mila euro per i danni morali che ne sono derivati; soprattutto, si potrebbe aggiungere, in ragione di un’attesa del tutto ingiustificata, forse l’unico aspetto della vicenda che potrebbe ridimensionare la portata di questo importante pronunciamento. “In realtà non è così – spiega Claudio Piccinini, coordinatore degli uffici immigrazione dell’Inca –, perché la decisione di Strasburgo conserva integro il valore di un’affermazione del principio di uguaglianza che difficilmente potrà essere ignorato dalle nostre istituzioni”.
“La sentenza – continua Piccinini – porta con sé la conseguenza che in materia di immigrazione lo Stato italiano non può mostrarsi reticente di fronte ad una domanda di tutela delle persone straniere che chiedono semplicemente più integrazione e maggiore coesione sociale; che sono i principi fondanti dell’Unione europea”.
“Questa sentenza – aggiunge l’avvocato Angiolini, che ha curato il ricorso – censura una discriminazione che colpisce la famiglia e i minori, la quale non fa male solo a chi la subisce, ma anche alla società che la infligge o la tollera, coltivando nel proprio seno, con la disuguaglianza, il germe della divisione”.