Che i lavoratori migranti impiegati nel settore agricolo nel Sud Italia non se la passino bene, dai tempi di Pummarò (film di Michele Placido del 1990) in avanti, è cosa nota. L’elemento di novità portato dalla ricerca “Immigrazione e diritti violati: i lavoratori immigrati nella cultura del Mezzogiorno”, coordinata dal prof. Enrico Pugliese, e raccolta in volume da Ediesse, sta nel fatto che dalla sua analisi emergono alcuni meccanismi che stanno alla base dello sfruttamento, mai descritti in precedenza, con questa precisione: il fatto che esista una sorta di “contratto nazionale del sottosalario”; la profonda contraddizione tra agricoltura ricca e manodopera povera, che porta alla luce il fatto che lo sfruttamento del lavoro sia un fenomeno strutturale, e non un’emergenza; la figura del caporale smitizzata dal mero ruolo di kapò agricolo dell’immaginario collettivo, ma resa in tutte le sue sfumature e in tutta la sua complessità; il fatto che molti lavoratori migranti si ritrovino nei campi da “regolari”, dopo aver perso il lavoro in fabbrica a causa della crisi.
“In Campania, Puglia e Calabria abbiamo riscontrato – dice Pugliese – che i livelli di retribuzione, al lordo del taglieggiamento operato dal caporale, stanno tra i 2,5-3 euro l’ora quando va bene, e i 20-25 euro al giorno. Non ci sarebbe di per sé originalità nella nostra scoperta, ma abbiamo riscontrato che, siccome questa paga è identica ovunque, è come se ci fosse una specie di “accordo nazionale sul sottosalario”, come se ci fosse un meccanismo di equilibrio, di omogeneità, che fa riflettere …. In apparenza, pare che se ne occupi solo il caporale, in realtà chi dà lavoro a questa gente e realizza profitti colossali sulle loro spalle attraverso quello che definiamo “grave sfruttamento lavorativo” è l’impresa”.
“Nella ricerca – continua Pugliese – sono emerse connessioni tra le condizioni del regime agrario e fondiario, il fenomeno del caporalato, e le condizioni di vita dei lavoratori. C’è un sistema determinato dall’intreccio tra prepotenza dell’impresa, tra violazione delle leggi per un verso, e legislazione favorevole alle imprese per un altro, tra presenza del caporale -che comunque fornisce dei servizi- e la miseria dei lavoratori”.
“Le condizioni peggiori si riscontrano nelle zone in cui l’agricoltura è più ricca: ad esempio, Rosarno è nota alle cronache per la grave situazione, – prosegue – ma è comunque meno grave che in Capitanata (zone che corrisponde, all’incirca, alla provincia di Foggia). Questo perché ci sono grandi aziende, che usano molta manodopera per brevi periodi dell’anno, quindi i lavoratori devono arrivare da fuori, insediandosi fuori dai centri abitati perché le estensioni di terreno sono molto grandi e le aziende non forniscono ciò che dovrebbero per legge, l’acqua potabile innanzitutto che, peraltro, il caporale può vendere in bottigliette a due euro l’una …”.
“Le possibili soluzioni dopo aver individuato le aree di sfruttamento – secondo Pugliese – partono dall’applicazione della legge che persegue severamente il caporalato solo teoricamente perché viene lasciata scoperta tutta la parte riguardante il controllo diretto da parte dello stato e la necessità che sia presente, fornendo servizi di informazione e trasporto in contrasto ai caporali”.
“Esistono alcuni esempi di buone pratiche – conclude Pugliese -: in Puglia, ad esempio, con gli “alberghi diffusi”, esperimento per ora simbolico ma importante perché i lavoratori abitano in alloggi non forniti dal caporale e nel cosentino, grazie all’interessamento sindacale, è stato raggiunto un accordo sul trasporto, con un contributo alla spesa, per avvicinare i lavoratori all’impresa.
Da Redattore sociale