Archivi giornalieri: 27 marzo 2015

Scritti di Pietro Ingrao 1936 – 1954

MI SONO MOLTO DIVERTITO – SCRITTI 1936 – 1954 PDF Stampa Email
Indice
Mi sono molto divertito
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Trattamento di Jeli il pastore
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Scritti di Pietro Ingrao

1936 – 1954

 

Cinema Colonna

 Al ritorno della campagna, s’apriva la scuola di Cinematografia. V’entrai come chi faccia una valigia per domani e v’infili due libri, che forse gli serviranno e vorrà leggere, ma se la valigia è colma è tentato ad ogni attimo di metterli da canto; col peso di un autunno che non riusciva a comporsi su un ordine, e la mancanza di un ritmo, per occhi cresciuti da sempre ad uno sciogliersi sereno nel tempo delle campagne e del mare, era una fatica ed una pena che si scontava ora ad ora.

I primi giorni non bastava la curiosità della cosa: gente che non si conosceva, ci si guardava da lontano, staccati, in sospetto l’uno dell’altro. C’erano cortili ampi che mi ricordavano l’infanzia con le partite di calcio, rischiate contro il volere di casa, le palle di stracci, un grosso violino che imparavo a suonare allora e mi portavo appresso nelle ore rubate per il gioco. Accanto, una scuola d’avviamento al lavoro, che mi inquietava con l’immagine precisa d’una vita che si svolgeva cosciente ed aveva i suoi tempi e le sue avventure.

Io facevo passeggiate lunghissime ed ogni volta che ritornavo alla scuola mi pareva un tradire.

Il principio fu duro. Ma forse quella prima asprezza liberò la voglia nei muscoli: il sentire che quella scorza d’ingrato poteva essere un’esperienza che giovasse, e molto. Ormai i giorni sonavano dentro, anche se sonavano amaro.

Venivano i primi freddi, e si chiarivano naturalmente le amicizie. Il cinematografo si coloriva come materia, liberava dagli occhi ogni falso, ogni nebbia, ogni giro tortuoso. Chi stava a chiedersi se il cinematografo era un’arte; se il problema dell’industria avrebbe soffocato l’intelligenza? Nessuno doveva domandarselo. Noi scoprivamo un paese dove cadeva il giorno e la notte, dove la valle dava frutto e i monti s’aprivano agli occhi: un paese da vivere intero, goderlo e lavorarlo. Di quei mesi, l’incontro con l’opere antiche ma belle. Nascevano e morivano in un modo misterioso, generavano una musica che non si spiegava, ma si segnava meglio negli occhi, come un nevicare in un campo. Noi eravamo innamorati. Venne il Natale e fu una pausa giusta. Ognuno stette con una voglia forte di lavorare, ma senza fortuna.

Pure si ritornò più calmi e freschi come dopo un sonno. Le amicizie si fecero più serrate, s’incontravano in un punto comune. Cominciarono i viaggi nella città alla ricerca dei films dimenticati: gennaio recava nei pomeriggi piogge pigre, e a me piaceva dormire.

In quei giorni m’addormentavo nei cinematografi: su certe sedie d’angolo, il braccio poggiato su ringhiere di legno che portavano dipinti angeli verdi e celesti e grossi mazzi di fiori rossi. Le maschere vigilavano silenziose ed un amico mi svegliava al momento buono. Ricordo un cinematografo profondo, selciato, dai finestroni alti, appena bui, che rammentava gli androni della mia casa paterna; dove le piogge risonavano lunghe, marine, e al risveglio mi toccava una luce leggera, di latte, come un’alba nebbiosa. Le immagini sul rettangolo dello schermo nascevano accanto a quelle sottili dei sogni; imparavamo il valore delle sembianze, che il bianco e nero della fotografia formava e scioglieva in un cadere continuo, come un tempo: segni di un alfabeto, verdissimo. Io dinnanzi ad alcune comiche di Charlot spiegavo ad un amico che si trattava di un sogno ordinato, i termini essenziali fermati in apparenze e distesi in ritmo, con i modi più limpidi ed elementari.

Amavamo la fantasia ed il racconto semplice; innamorati anche noi, come una volta gli strapaesani, del viennese Stroheim e dei suoi monaci, che sorgevano sulla terra le notti di tempesta, dei sobborghi sudici (custoditi da grandi mandorli) che la plebe agitava e gli aristocratici cattivi come il diavolo visitavano. Films muti ci nutrivano una passione per la favola che non tollerava fastidi di montaggi astrusi, impagli d’angolazioni, compilazioni sapienti, verosimiglianze. Si faceva chiaro per noi che il cinematografo voleva soprattutto immaginazione, e chi aveva fantasia sincera, estro genuino poteva giuocare sicuro.

Della brigata era un compagno particolarmente ingordo che sgranocchiava sempre mostaccioli durissimi e spesso urlava; noi ci tenevamo lontani dalle sale ben messe per non correre rischi e ci buttavamo in periferia. Ciascuno di noi cercava figure vedute una volta, in qualche corsa rapida alla borgata: ragazze d’una diffidenza spinosa che rispondevano irto e pure dovevano essere docili.

Ad ogni occasione di caccia tradiamo il film; ma il cinematografo non ci portava sempre fortuna. Erano allora attese crucciate su strade, che guardavano prati ed anfratti boschivi, dove ognuno passava – la donna col canestro del latte e l’uomo che sfilava silenzioso in bicicletta – ti scrutava fisso; fino a quando dalle nubi cominciava una pioggia quieta e infinita, e non restava che cacciarsi in un’osteria, col malumore negli occhi e il ricordo di quei prati nascenti.

C’era modo più tardi d’avventurarsi per i quartieri sconosciuti incontro a piazze buie e sonore in cui riposare il respiro; vie dove ti cadevano intorno i bambini come nei paesi. Conoscemmo librai ambulanti, venditori di cioccolatini che improvvisavano farse nei crocicchi (chi si scorderà di quella ragazza che ci vendeva i numeri, gli occhi d’una malizia aperta e lustra, che decantavano sapienza); una bambina che faceva l’acrobata nell’osterie, perché la mamma stava male (si toglieva il gonnellino in un canto protetta da una zia rugosa, vestita d’un lungo camice marrone – e quando le demmo dei soldi ci fece un sorriso stanco di antica esperienza). La sera, di ritorno nei tram lenti e anziani, il cappello rideva di pioggia e il sonno cadeva sugli occhi leggero. Il mio cappello era gloriosissimo.

Il nostro cinematografo s’ordinava così in una conoscenza naturale e semplice degli uomini, in un viaggio alla scoperta della nostra città e dei nostri luoghi. Cresceva da un amore alle cose, da un attento entusiasmo, da un cosciente abbandono al respiro del tempo, che ci sembrava allora e ci sembra ancora la sola misura essenziale di vita, la sola grande avventura possibile.

Coi primi annunci della primavera amici partirono. Veniva un tempo nuovo e noi lo sentivamo: ora pensavamo sempre alle ragazze, ma come fosse sorta una distanza nuova, si fosse scoperto un cammino che non finiva mai, una lontananza.

I cinematografi furono abbandonati. Io avevo ripreso le passeggiate lunghe da solo e la stagione mi sconvolgeva, segnandomi ad ogni passo, ad ogni giorno, ad ogni trascorrere d’ora; i grandi prati lungo le mura antiche spalancate nel cielo, ed il ritorno degli alberi sulle colline della città, stormenti.

Dalla contemplazione di queste cose non so come accadesse che mi nasceva uno sgomento, un timore che tutto ciò venisse a mancare d’un tratto, mi sfuggisse via. Ritornavo, come da ragazzo, a pensieri di isole lontane e di paesi che la stagione mutava: la primavera nel mondo.

Nel sangue s’originava un fervore e ci demmo tutti a lavorare ferocemente. Alla scuola ormai tacevano le discussioni, sopito ogni rancore, ogni diversità nel manifestarsi improvviso d’una fatica comune, d’una somiglianza di uomini dinnanzi al tempo e al lavoro.

I giorni dell’inverno vivevano di quell’entusiasmo che ci avevano dato ed il ricordo cresceva la pena e il desiderio di non tradire, di non mancare un abbraccio, che avevamo pensato in sogno. Ogni errore diveniva fonte di sconforti grandi, che duravano, ed ogni invenzione colmava giorni e luoghi.

Si faceva caldo: dal paese giungevano parenti in affari con le notizie del grano e della stagione. Noi cominciavamo a pensare ai cieli assordanti di cicale, alle stanze campestri abitate dal vento e dall’ombre degli alberi, alle grandi bevute rigati di sudore.

Nell’attesa ci davamo a riflettere che il caldo era propizio al cinematografo. Ora ch’era chiusa la filza delle novità, ritornavano in campo con un colore pallido di vecchia bandiera le pellicole sdrucite e garibaldine.

Aspettavamo la stagione al Colonna. Di tutti i cinema rozzi e nobili da pochi soldi il Colonna era l’antico, il primogenito. Simile ad un signore di razza, imprigionato dall’inverno nella città eguale, che nell’estate ritorni in villa e tiri fuori di nuovo servitù e carrozze, doppieri d’oro e stoffe di pregio; il Colonna, dopo la bassa cronaca dell’anno, nei mesi dell’estate annunziava i campioni più validi, le opere che si mangiavano gli anni: Charlot, Keaton, Douglas, i muti tedeschi e così via.

Per tempi generazioni s’erano educate al Colonna ed era sempre sangue denso che veniva alle vene impoverite dai digiuni sofferti per il passato. Noi aspettavamo: come i contadini i quali, ad ogni venuta della stagione buona, temono che con il freddo il padrone sia morto nella città e la villa resti chiusa per sempre.

Poi d’un tratto vi fu il buio, come una malattia. Fui occupato per molto; quando a poco a poco potetti riprendere i miei lavori più cari, la scuola era ormai chiusa, molti amici erano partiti, solo qualcuno ancora in giro con un’aria d’arrivederci all’anno venturo. Si tirava avanti in attesa della partenza.

Ci aiutò il Colonna: il signore si ricordò della villa. Vi trovammo un vecchio “Douglas” e fu un entusiasmo. Ogni immagine ci ridava nella compiuta bellezza della favola tutti i pensieri dell’inverno, i cammini, le scoperte. Il pubblico gridava, batteva le mani e gridavamo anche noi. Ogni atto era puerile in noi: si conchiudeva la fatica di un anno, si spiegava giusta. Sullo schermo Douglas cavalcava a sciogliere dalla prigione il Re, i cavalli fumando toccavano le cime degli olmi; e appariva come il cinematografo era stato tradito, in tutti i punti.

Vorremmo raccontarvi queste storie: storie in gran parte d’anni passati, segni d’un linguaggio che si veniva liberando e fu soffocato, dimenticato ogni giorno. Dovrà essere soltanto il cinematografo un pretesto all’ignoranza? Profitteremo del caldo e andremo in giro per quei nostri cinema, immaginando di trovarvi la ragazza che cerchiamo, e che dopo ci aspetti la cena su una terrazza aperta, alta sulla città. Forse a qualcuno verrà la voglia di fare come noi.

 

“Italia letteraria”, 26 luglio 1936

 

 

 

Comica finale

 

Lo storico intelligente che si accinga ad un rapporto sulla vita provinciale americana agli inizi del secolo, non vorrà certo dimenticarsi di quel primo ritratto e commento arguto, che della provincia fu l’antica comica cinematografica: una fonte come lo studio di Mack-Sennett non gli farebbe mancare qualche generosa sorpresa. E sarà avveduto per lui non accordare alle due bobine soltanto un valore di documento fotografico; potrà addirittura scoprirvi i modi del primo incontro che tutto un tempo ebbe con lo spettacolo. Un incontro che si portò presto al comico, ad un comico grosso; fatto in certo modo singolare per una classe, che da rozza ed avventuriera, si avviava traverso cammini e mescolanze puritane a diventare borghesia (quando sarà diventata borghesia se mai si sceglierà come cantore un Will Rogers). Potrà il nostro storico almeno cavarne leggi di sangue e di barbarie.

“Avventure di matrimonio”: è l’ultima che ci è capitata sott’occhio. A leggerla bene (che vuol dire soprattutto con convinzione: non vi sarà mai di peggio al cinema dello spettatore installato nel trono d’oro) è come recarsi da una donna pettegola: conosci intero il paese, di case basse alla maniera di grandi capannoni, con le ringhiere di legno sul davanti dove si potrà fare un amore meraviglioso la sera, in cospetto della luna e delle stelle che vestono tutto di blu; radure campestri all’ombra di grandi olmi o di pioppi, dove ti sarà facile immaginare le cicale; fienili ampi e ricchi di trabocchetti, di porte che si spalancano d’un tratto, di nascondigli, coi tetti a grondaia di dove si scivola bene giù a terra, e non manca mai un grosso tino ricolmo d’acqua verdastra ad accoglierti.

Gli abitanti? Ci son tutti: dal ragazzo scemo che in ultimo apparirà eroe, al prete furbo che si bacia la giovinetta robusta sposata proprio allora al campagnolo ingenuo, ai cattivi marrani armati di baffi e di pistolini ­– tutti pronti a capitombolare, a darsi pugni in ogni momento della loro vita terrena. Intorno un coro anonimo, composto, insieme di donne, di galline, di coltivatori zotici, di ciuchi ostinati. E l’avventura di matrimonio si concluderà su una Ford gloriosa ed ansimante, quando lo sposo, per abbracciarsi tranquillamente la ragazza, isserà a protezione la lunga camicia da notte, che era stato il principio dello scherzo malizioso. Ma verrà un vento sordo e birbante a levare in alto il camicione, perché noi si possa vedere sul limite della strada i due che si godono il legittimo bacio dello sposalizio.

Qui, mentre i bambini sgraneranno gli occhi, noi arrischieremo un salto pericoloso, buttando avanti il ricordo delle novelle di Franco Sacchetti; e Dio ci salvi dalle maledizioni delle oneste persone scandalizzate. Vi ricordate voi della novella in cui “essendo stati assaliti quelli di Macerata dal conte Luzzo, una notte venendo una grande acqua, credendo che sieno i nemici, con nuovi modi tutta la terra va a romore”? In caso avete a mente tutto un seguito di pasticci, di baccani, di andirivieni imbrogliati. Per conto nostro, la caduta solenne di quel frate, impigliato nello scudo e nel battaglio grossissimo, con tutta la conseguenza di botte cieche, al culmine giusto di tutta la novella, non potrà che accrescere la tentazione di richiamarsi alla tecnica del “gag” dell’antica comica. E lo stile di semplicità estrema, l’affidarsi al ritmo della battuta, il caratteristico delle figure faranno di tutto per invitarci ad una somiglianza.

“Un uomo discolo e grosso. Di mezzana coltura, d’ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca iniziativa e di originalità, ma di molta semplicità e naturalezza”. Il suo mondo “è lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori; bassa vita popolana in forma popolana”. Lo dice il De Sanctis del Sacchetti; e noi non faticheremmo molto a dover spostare queste considerazioni ai nostri Mack-Sennett, salva sempre l’età che è quella di un’agra giovinezza per questi ultimi e di una godente virilità per la novella trecentesca. Con in più quella storia di sangue e di barbarie, cui abbiamo accennato prima. Non è poco, direte voi, ma la nostra non voleva essere altro che una indicazione. Se mai un invito a considerare con più cautela certi pezzi da ridere, che oggi si lasciano solo ai bambini; e sono invece tra le cose più genuine, inventate in cinematografo.

 

“L’Italia letteraria”, Anno XII, n.s. n. 29; 9 agosto XIV (1936)

 Note su “Tempi moderni

 Nell’oggi particolarmente angustiato dal problema di una nuova organizzazione di vita, avvenuta la presentazione del film di Chaplin che indubbiamente recava un titolo polemico: Tempi moderni, uomini e donne, critica e popolo, molto più la critica che il popolo, si son battuti al contenuto del film. Ne sono usciti insoddisfatti, a qualcuno persino è venuta malinconia per questa visita in casa di Chaplin moralista.

Disposizione non certo illuminata e consigliabile, essendo inutile chiedere all’artista una critica organica, quando esiste in lui una semplice reazione sentimentale; improvvido colui che bisognoso di un sistema si reca da chi niente altro può dargli che stretti fatti personali. Nemmeno vale l’obbiezione che non dovesse allora Chaplin indossare la tonaca della predica, perché sarà facile rispondere all’artista ogni particolare abito esser buono; purché da questo abito ne venga a me spettatore il bene che mi sta a cuore: l’arte.

Cose tutte queste, risapute.

Ma poiché in giro s’è sentito piuttosto umore di contenuto e di contenuto soprattutto s’è parlato, mi è parso più utile fermarmi a considerare gli aspetti che più m’hanno interessato dello stile di Chaplin, come si presenta nell’ultimo film. Aspetti già sviscerati anch’essi da persone di gusto e di capacità, in altre occasioni. Ma compito del critico il più umile non sarà di scoprire ogni volta i modi dell’artista, distinguendoli magari da quelli di opere precedenti?

Cominciamo da quanto c’è d’antico nel film: Charlot.

Non appare qui una nuova impostazione del personaggio Charlot o della sua storia, storia non mai giunta ad una catastrofe e come tale sempre aperta ad un seguito: piuttosto nuovi capitoli della vita del vagabondo, e di essi alcuni che nulla ci offrono di inedito, altri più freschi ed interessanti.

Il fondamentale modo di narrare la storia di Charlot è – tutti lo sanno – la trovata comica o gag. La tecnica principale del gag chapliniano mi sembra sia: caricare sempre più una situazione sentimentale – o di letizia o di dolore o di amore, ecc. -, finché sia per giungere al massimo; al quale punto bruscamente invertire la situazione o da allegra mutarla in dolorosa, dall’audacia passare alla paura e così via.

Esempio: di buon mattino Charlot allegro e sicuro di sé, in costume da bagno, si tuffa con mossa elegante in un canale, ma si busca un solenne colpo alla testa perché l’acqua è profonda appena due dita; volendo citare uno dei più fiacchi esemplari, perché come tale mostra più chiaramente la meccanica della costruzione.

Dalla improvvisa inversione nasce il comico; ma la finezza dell’effetto è nella scelta dell’elemento; che più si presti al doppio giuoco cioè a significare l’una o l’altra cosa; non lasci prevedere il capovolgimento ed al tempo stesso risulti il più ricco di risonanze, d’echi, d’allargamenti (sicché il gag migliore è il più difficile a raccontarsi, affidato all’elemento meno vistoso, giocato su un niente, come la massa sottile del prestigiatore che fa cambiar di posto all’uovo sodo: dalla tavola al naso dello spettatore). Le trovate chapliniane, seppure costruite sulla gamma più ampia: da una meccanicità macksennettiana alla più maliziosa allusività, sono nella maggior parte riconducibili a quello improvviso capovolgersi, a quel poggiare su due elementi contrastanti: stupido ed intelligente, nobile e volgare, lacrimevole e ridevole. (La fatica di Chaplin in fondo è stata di costruire addirittura una antitesi filosofica su questo doppio giuoco, fissando i termini del contrasto in “l’ideale” e “il reale”: ove all’ideale corrisponde l’interiore bontà ed al reale la bruta materia dalla bontà non illuminata – badando che, secondo Chaplin, proprio nell’uomo manca a volte l’interiore bontà; di cui sarà ricca invece la natura).

Premesso che questa definizione vuole avere soltanto un carattere di empiricità utile a chiarire a me stesso ed a qualche altro di buona volontà la tecnica di Chaplin, passo ad esaminare quanto di nuovo rispetto a questa tecnica è in Tempi moderni. Nella successione degli effetti due mi sembrano particolari di questo film. Il primo, che riassume bontà e difetti di tutto l’inizio, è quello della colazionatrice automatica.

Intanto è da notare come l’inizio del meccanismo comico non sia stavolta nella persona fisica di Charlot; qui non è più Charlot che generi la trovata, ma è la trovata che va a pigliarsi Charlot. A persuadersene basterà riflettere come al posto del vagabondo nell’imboccatrice potremmo noi immaginare, senza fastidio, un ies qualsiasi; cosa non certo possibile per i gags classici di Chaplin, ad esempio per la predica del Pellegrino o per la danza dei panini nella Febbre dell’oro; episodi in cui la trovata scaturisce dal tipo Charlot, dagli stessi simboli che compongono la sua persona, risultandone un alone patetico e bonario persino alla situazione più cruda.

La costruzione è in un certo modo matematica. C’è una proposizione iniziale (la presentazione della macchina) che lascia prevedere chiaramente le conseguenze. L’effetto non è quindi nel capovolgimento improvviso, ma nel salire della dimostrazione, che svolge con precisione anatomica tutti i suoi punti, fino ai più parossistici. Consumato un certo cammino, il meccanismo s’arresta non già per naturale esaurì mento, com’era del gag tipico, ma per una decisione esterna, di persona che ritiene ormai sufficiente la dimostrazione.

Nel cercare una definizione si potrebbe citare la comicità meccanica dei Mack Sennett, in cui il ripetersi aritmicamente ossessivo di una situazione generava il comico; ma nemmeno questo accostamento soddisferà, in quanto s’avverte nel gag della imboccatrice, in più del puro giuoco dei Mack Sennett, una intenzione. Il fine ultimo della trovata non è la risata liberatrice, ma piuttosto una determinata tensione dello spettatore: siamo ai termini del “castigat ridendo”, in cui il “ridendo” è un termine subordinato rispetto al “castigat” principale. Insomma siamo alla satira: in questo senso dicevo nella sequenza dell’imboccatrice essere il succo di tutto l’inizio del film.

Quando si passa al balletto della follia, abbiamo già mutato stanza (anche il pub­blico l’ha avvertito): ritorna lo Charlot immaginoso del gag a rovesciamento improvviso (una situazione di durissima disciplina capovolta in una matta libertà). Ove nella sequenza dell’imboccatrice c’era un modo secco, preciso, ragionante da prosatore – si rideva amaro; nel balletto della pazzia c’è l’esplosione lirica – si ride alleggeriti, con un pizzico di malinconia.

Se portiamo all’estremo il giuoco immaginoso, rompendo i pali che creano l’impalcatura nel gag con un limite di partenza ed un traguardo, avremo l’altro pezzo particolarmente interessante dell’ultimo Chaplin, e saremo agli antipodi non solo spiritualmente ma anche come sequenze materiali: la canzonetta finale.

È la buffonata allo stato puro, che vive d’un semplice succedersi d’effetti mimici, soltanto commentati dal tono vocale; ed io confesso di essermi arenato su questo pezzo, che pure ha esercitato grande suggestione su di me, senza riuscire a trovare una via per un qualunque esame. Come di quei ghirigori, di cui niente si può dire poiché tutta la bellezza si racchiude in un rapporto di intreccio, nella risoluzione di un particolare e nell’imponderabile armonia dell’insieme.

Forse per consolarmi dell’incapacità di arrivare ad una riflessione, sia pure lontanamente critica, su questa singolare sequenza, io mi son buttato ad un’ipotesi mezzo psicologica e mezzo biografica sul personaggio Charlot. Tutti sappiamo qual è la perpetua disgrazia del vagabondo: una forza interna cui non risponde all’esterno la conseguenza voluta, raggiungendo spesso la forza un effetto del tutto opposto. Ebbene, nella canzonetta è la prima volta in cui Charlot raggiunge un risultato di cui ha piena ed effettiva coscienza ovvero è la prima volta che Charlot esprime in una forma completa e definitiva rispetto agli altri se stesso: per un acchiappanuvole quale è lui non poteva essere che una forma artistica; sia pure artistica alla maniera elementare del clown.

Tutti abbiamo tali inclinazioni per l’identità tra Chaplin e Charlot che non mi potrete dare grande torto se m’è piaciuto vedere nell’omino che balla e canta nel tabarino riflessa la commozione di Chaplin, allorché trovò nella sua vita da quattro soldi il proprio modo d’esprimersi. Che potrebbe anche dirsi in termini più grossi la commozione di Chaplin dinnanzi all’arte. Non so precisarvi se sia stato questo pensiero a farmi notare nella sequenza un ardore ed un impegno grandi, o se sia stato il notare quest’impegno che m’ha fatto nascere una simile considerazione.

Passiamo a quanto c’è di nuovo nel film: Paulette.

Mi ha ricordato questa ragazza una poesia che imparavo al secondo ginnasio: Birichino di strada, di Ada Negri. Insieme con il soggetto fosco mi dava allora molta impressione il titolo del volume: Tempeste ed un ritrattino della poetessa, coronata di capelli crespi e nerissimi. Oggi, classificata quella poesia fra le cose soltanto commoventi, Paulette m’ha fatto tornare a galla il ricordo, come per domandarmi maliziosamente perché lei mi piacesse ora che il Birichino non mi piaceva più. Messo da parte quel tanto – ed era parecchio – dell’interesse dovuto alla sua fresca bellezza, ho cercato di pesare il resto e di fissare come Chaplin avesse saputo da un tale punto di partenza giungere a quel personaggio.

Le figure di Chaplin sono essenzialmente statiche, rappresentano individualità omogenee e fisse che non varieranno psicologicamente: il buono, il cattivo, il bello, il forte, ecc, alla maniera degli antichi poemi epici. Negli antichi poemi la sostanza era nel corso e nell’incontro dei vari individui, il tessuto necessario una serie di grandi fatti; Chaplin (si licet parva…) per il suo eroe principale, eroe di un’umile realtà quotidiana, aveva sostituito ai grandi avvenimenti la successione del gags: un seguito di illuminazioni e scandagli del protagonista, come tante proiezioni del punto che interessava sviscerare.

Ma le donne nel mondo di Chaplin (premetto che non conosco la “Donna di Parigi”), rappresentano la curva massima della bellezza (s’intende, quelle giovani e carine) ed in quanto tali non possono essere toccate dal comico, avranno bisogno – diciamo – d’un linguaggio più nobile che non quello del gag. Il problema nelle opere precedenti di Chaplin non era sorto in modo definitivo, presentandosi in quei films la donna più che come figura a sé per quanto valeva nell’immaginazione di Charlot, più che per una propria autonomia di sentimento, per quanto di sentimento Charlot la caricava. Di conseguenza soprattutto premeva allo spettatore quel che sognava Charlot nella notte di Capodanno, non la ragazza che suscitava il sogno. Poteva pure la donna rimanere una fissa forma angelicata, se c’erano la felicità e la disgrazia dell’uomo Charlot a parlare al pubblico.

Non era possibile una uguale cosa per l’ultimo film; in cui se Charlot s’innamorava, s’innamorava anche la donna e la storia del solitario diveniva la storia di due: al posto di una cara parvenza doveva vivere un personaggio.

Per la storia di questo personaggio c’era rischio da un lato di creare un linguaggio che non rispondesse armonicamente al mondo di Charlot, il più puerile ed ingenuo; dall’altro di far decadere, nei riguardi dello spettatore, quello che doveva essere un alto ideale di bellezza nel metro usato per gli altri personaggi del film: il buffo. Chaplin ha  composto questo rischio nel modo più semplice: immaginando una fanciulla, il luogo più nobile e puerile insieme.

E probabilmente sarà stato una semplice occasione fisica che non opera di immaginazione. Ma il merito dell’artista non è di ridurre al suo modo qualsiasi realtà fisica, che gli si offra come materia.

Importa il risultato: a questa figura di ragazza Chaplin ha saputo prestare, con un’esemplare fedeltà a se stesso, attributi efficacissimi e non dimenticabili. lo non so fare di meglio che annotarli l’uno in fila all’altro.

Dapprima un coltello fieramente stretto fra i denti, lo sguardo mobilissimo sempre inquieto, il poggiare forte coi piedi nudi per terra, tenendo le gambe leggermente divaricate. La fuga: un fuggire serrato, a scatti, con una fermata improvvisa, una sbirciata e poi di nuovo uno scatto.

Ogni moto è teso, persino il pianto ha una tesa meccanicità. Conosce la strizzata d’occhio maliziosa ed arrotonda le labbra in un fischio sommesso mentre prepara la colazione.

Ogni gesto dice una quantità, completa la definizione: sul prato, mentre Charlot è assorto a spiegare la casa che vorrà farsi, lei, un poco distante, gira e rigira lentamente tra il pollice e l’indice della mano un fiore; più tardi glielo vedremo tra le labbra.

Ritroveremo ancora questa Paulette che s’accorda felicemente alla Paulette selvatica, occhi celesti accanto ai capelli neri: nel grande ardore con cui rovesciata sul muro, il petto sottile leggermente in fuori, si prepara alla fanciullesca sorpresa del vagabondo dimesso dalla prigione; nel candido gesto di aprire le braccia, con il quale mostra la casupola rabberciata; nell’assorta semplicità con cui balla nella stradetta.

Ogni movenza risponde ad un’altra con coerenza e naturalezza; aiuterà a controllarlo un’osservazione tecnica: la figura si svolge quasi sempre in mezzi-campi lunghi e campi lunghi, in quanto figura che ha bisogno per esprimersi di tutto il corpo, di una misura nel muoversi e di un tempo di cammino.

Nella recitazione farsesca ed immaginosa che circola in tutto il film, Paulette rappresenta davvero, senza rompere nulla di nulla, l’esempio della grazia.

Poche immagini di donna mi hanno così vivamente impressionato in cinematografo: verrebbe di non fermarsi soltanto al cinematografo.

Charlot e Paulette sono seduti su un prato, di dove hanno assistito ad una scenetta di gioia familiare: il marito abbraccia la moglie prima d’andare al lavoro, la sposa torna beata alle sue faccende. C’è un po’ di commozione nell’aria e Charlot s’incarica d’esprimerla imitando buffamente le mosse della felice mogliettina, con l’ingenuo tentativo d’arte che ognuno compie quando tenti di rifare una persona che l’ha mosso al riso o al pianto. Indi passa a narrare il suo desiderio di una casa e di una famiglia: Charlot non conosce il mezzo “parola” e si esprime a suo modo: con la immagine.

La casetta: dalla finestra del salotto sporgono nella stanza rami colmi d’aranci, buoni per stuzzicar l’appetito; nella cucina, mentre Paulette soffrigge la carne, sulla porta del giardino viene la mucca. Nel paese di Charlot hanno intelligenza pure le bestie: sicché basterà porre il bicchiere sotto la gonfia mammella, perché l’animale lo riempirà da sé. Charlot potrà nel frattempo piluccare grappoli d’uva bianca e nera che penzolano dalla pergola.

L’interesse di Chaplin è soprattutto puntato sulla storia dei personaggi, limitato l’ambiente a quel tanto di terra che le figure attraversano. Ma questa volta il luogo è posto in primo piano: aspirazione poetica, “sogno per eccellenza” del personaggio che nella sua ingenua mente suole rappresentarsi la felicità più che in un progresso della sua persona, nel semplice abitare in un luogo beato, tutti i suoi desideri riassumendo nelle figurazioni di quel luogo. Gli oggetti dell’irreale ambiente sono davvero figli dei paradisi pratici e poetici insieme, di cui le persone del popolo (per esempio l’operaio Charlot, la massaia Paulette) nutrono l’immaginazione. La mucca l’ho già veduta sull’etichetta di barattoli di latte condensato, imparati a conoscere da bambino. Quell’uva gonfia decisamente bianca, decisamente nera compariva tale e quale in alcuni calen-dari campagnoli, che mi salutavano dietro le porte quando ritornavo per il Natale in paese. La cucina candida e lustra di maioliche è di ricordo più recente, vista nell’ulti­ma pagina dei giornali, dove sono le fotografie delle macchine agricole, delle nuove case in costruzione, degli utensili economici.

Nel dir questo, più che ad una veridicità degli elementi rozzamente controllata dai ricordi infantili, penso ad un modo di raffigurare persone e cose. Qui è l’uso perfetto del mezzo fotografico di Chaplin, intreccio di ombre senza rilievo in crude zone di bianco e nero. L’effetto riposa sul predominio del bianco, appena contrastato dalle macchie brune dei corpi; i quali perdono peso, quasi trasparenti in una diffusa luce che i poeti potrebbero chiamare d’acqua limpida, di mattina di domenica e così via. Si può dire “grafia” o – se vi piace meglio – scrittura di Chaplin, cioè non più riproduzione d’una realtà oggettiva ma forma d’una realtà artistica: le fonti sono nella fotografia documentaria e nella stampa popolare.

Dalle lontane brevi comiche, il gestire di Charlot – il gestire meno realistico, l’esagerata accentuazione fisica delle figure, i violenti fatti: calci nutriti cadute precipitose fughe spasmodiche, il paesaggio di capanne fradicie di pompose case borghesi di vie grigie di striminziti alberi cittadini avevano trovato in quella elementare grafia la natu­rale dimora; come elementi lontani da ogni parentela terrena, i quali in panni di con­sistenza realistica avrebbero fatto la figura dell’angelo vestito col frak. Servì invece a meraviglia il cencio povero ed elementare che era la fotografia di quei tempi. Fosse stata a lui imposta questa elementarità dell’imperfezione tecnica, che preme se l’arti­sta seppe farne uno strumento personale?

Possiamo ora con la coscienza tranquilla dirci che l’ispirazione di Chaplin è schiettamente plebea, significando insieme la sostanza delle figure da romanzo popolare; la tecnica di racconto scarna, priva di “descrizioni”: la forma dell’immagine, figlia del nudo linguaggio a grandi contrasti, proprio del volgo quando è poeta. In Chaplin capita raro di parlar di montaggio: non potete dire nemmeno che è buono, anzi se vorrete tenervi ad un esame pezzo per pezzo non finirete certo soddisfattissimi.

I films di Chaplin, avendo un chiaro procedimento epico, rinunciano o meglio non hanno bisogno di una compiuta precisione nei legamenti: formati da grandi blocchi, accostati secondo la maniera degli antichi rapsodi.

Ancora questo conferma la coerenza di un’opera, che si definisce naturalmente primitiva.

I difetti a mio parere del film sono impliciti nello svolgimento di queste note. Che non avrebbero tollerato di essere note saltuarie, se la mancanza principale di Tempi moderni non fosse appunto una mancanza di organicità e di sviluppo. Il film partito nel tono stringato del racconto satirico lo smarrisce per strada e si diffonde nell’antico modo del rosario di gags, ritorna alla satira, di nuovo se ne allontana per finire nel “romanzo” dei due protagonisti.

Non è possibile allora la delimitazione di un cammino nei personaggi, né di una parabola artistica.

Se un giudizio morale si vuole dell’ultimo Chaplin, questo solo mi pare possibile, già antico: un individualista. Fascismo, comunismo mi sembrano termini azzardati, dirò di più: arbitrari i critici in fregola di contenuto finora non ci hanno dato che affermazioni o malinconie, ma chiarimenti ed esemplificazioni affatto. Intanto gli è successo di scordarsi del poeta. A me tanto più caro, in quanto uno dei pochi – un paio, appena un paio – per grande naturale vocazione e per interiore coerenza fedeli ai termini più attendibili del cinematografo come arte.

 

“La ruota”, n. 3, marzo 1937

 

 

Lettere a Giuseppe De Santis

 

12 gennaio [1941]

Caro Peppe. Il piacere della tua lettera, oltre quello solito che dà lo scritto di una persona cara nell’esilio di Civita[1] è anche, più di tutto, piacere per l’invito alla discussione. Rileggere la tua lettera, di tanto in tanto, ripassare su una frase, ripensarla vuol dire, lo sai, continuare, riprendere un discorso, il quale con tutti gli intoppi, le soste, le svicolate è causa comune. Se pensi a quanto della vita quaggiù ci distragga, ci sottragga, allontani da quel discorrere, mi scuserai tu stesso la forma e la qualità di quel piacere. Non c’è migliore antidoto contro il grigio di Civita, il quale ancora continua senza possibilità di pacificazione. O meglio, antidoto più forte c’è: Gogol, Vittorini, Kant (in riassunto) ecc. ecc. Ma (passi il sacrilegio) è la stessa cosa: quello che perdo in profondità, lo guadagno con te in un altro piano: preoccupati tu di scoprirlo. Uguale piacere ho avuto dalla venuta di Elio[2]; seppure la visita sia stata per conto mio, sottilmente turbata, come ogni visita che ricevo a Civita, dalla noia, dal vuoto dalla difficoltà di limpido discorso che è nell’aria di queste militari domeniche.

Elio vuol godere da solo certe azioni. D’accordo: tempo fa anch’io lo definii uomo di clan. Ama il circolo eletto, aristocratico, ma teme la solitudine. Credo, tienilo presente, che in questo periodo si senta molto solo. In me cerca e pure fuori: quella credo compagnia, conforto, di cui, me ne sono convinto proprio nel suo caso, tanto pare necessiti la nostra natura. Chiede insomma alcune volte (forse troppe volte) più che giudizio, comprensione. Io oggi sono incline a credere del resto che non vi possa essere giudizio, senza comprensione. Cerca tu, se ci riesci, a liberare dal confuso quello che di vero ci può essere in quanto sopra.

Forse è la ragione, giusta o no, che oggi lo distacca da Ribulsi[3]. In ogni modo riusciremo a ritagliare nei lunghi silenzi, o nella cronaca delle notizie la mezz’ora di comunicazione interessante, almeno per me di una certa importanza. Ne parleremo. Commovente era l’affetto che metteva in ogni azione nei miei riguardi. Torno ad insistere: io mi vado convincendo, cerco di convincermi, quanta ricchezza, vera umanità (anche in questo caso libera tu la parola dal rigo), sia nell’amare, come capacità di donarsi, di vivere la propria vita per un altro. Forse è l’unico titolo che ci consente il giudizio, o meglio un’esattezza di giudizio. L’unico modo per slargare il nostro orizzonte. Questo mi porta a parlarti di Vittorini. È un bel libro [Conversazione in Sicilia][4]. Nei momenti migliori lo trovo figlio di questo affetto umano, figlio di un nuovo orizzonte. La stanchezza, la debolezza della letteratura che ripudiamo, siamo in accordo, è per la stanchezza, la retorica delle passioni e delle prospettive che la sostengono: meglio: perché manca di passioni e di prospettive: manca di movimento: è morto canone, ripetizione, modulo. Tutto che ci può dare nell’ordine di un piacere minore: è piacevolezza letteraria. Più che il problema che poni uomo-poeta, Gogol-Flaubert, io esito a porlo. Difficile porlo chiaramente: dovrei conoscere l’uno e l’altro; cosa che non è. Azzardo: tutti e due uomini, tutti e due poeti: l’uno più attuale, vicino a noi, l’altro più lontano nella storia, ma ambedue persone che comunicano con noi, interlocutori nel nostro discorso, (se discorso, speriamolo, c’è.) Ma i rondisti per es., cosa gli puoi chiedere, che ti dicono? Torniamo a Vittorini (varrebbe la pena discuterne a lungo). Gli episodi che mi piacciono? Quello del mare, ma ancora troppo scoperto stilisticamente, quindi impuro come intuizione vera, immagine di mondo. Più mi piace la visita agli ammalati: il trio, le voci che si sentono, le cose che dicono, la percezione nel tempo. Lontano figlio di Verga, figlio moderno. Prendi il richiamo nel senso che è nostro. Ma è fallito il libro proprio nel punto più interessante: dove Verga è meno attuale: nel senso del tempo. Se ripenso, alla lontana, a Verga, mi soddisfa meno proprio lo schema, l’ossatura del romanzo; il modo come comincia e come finisce, legato com’è ad una visione naturalistica: quella che è detta nella prefazione al romanzo. Il nostro sentire nel tempo mi sembra più complesso. Anche in Vittorini mi sembra manchi un principio ed una fine. In fondo tutto lo scritto è fermo per un solo motivo. Libro in certo senso monotono: cerca di intendere quel che voglio dire. La testimonianza potrebbe essere nella fatica, nella incertezza delle prime pagine e delle ultime; leggermente confuse, astratte le prime, perdute nei simboli (difficili per me) le ultime. Monotono, quindi ancora limitato: mondo ancora ancora in panne: verrà la crisi e lo scioglimento, quello scioglimento che ti permette di vedere poi un principio? Sta a me e a noi arrivare. In ogni modo quelle fatiche di stile, ripetizioni, singolarità di dialogo, liricizzamenti, mi sembrano pecche minori. Se ne libererà, son cose più facili a risolvere. Voglio sapere se non dà pure a te un certo palpito, senso di respiro, in un altro mondo, interesse, aria libera in cui i nostri polmoni più si espandono. Io in questo sono d’accordo con altri. È così viva la nostra fantasia da sgorgarne la viva appassionata folla che preme oscuramente nella nostra ricerca di ogni giorno. Con pronta azione la saluteremo. Cerca di farmi avere presto Babel. E gli altri volumi di Gogol. Il quale Gogol mi ha toccato meno di quanto aspettassi. È come un mare senza confini ed ordine, senza filo del materiale. Ho il sospetto che sia come tradurre Manzoni: rischia tradotto male di ridursi a un fatto banale, scolorendosi, confondendosi, morendo o nascendo, come tu vuoi, quello che nel testo è ritmo. Aspetterò gli altri volumi e ne riparleremo. Per ora così pallidi e senza ordine sembrano cose e uomini che ormai conosciamo e che nella loro confusione e superficialità hanno ancora chiuso dentro il loro segreto, non detto. Basta per questa volta. Quanto varrebbe fermarsi. Su ogni parola qui detta, su ogni parola della tua: documento, testimonianza, ambizione di critica ecc. Perché succede che non lo facciamo una volta insieme, con le giuste condizioni di tempo e luogo? Scripta manent, verba volant. Salutami tutti. Leggo parole lusinghiere di una mostra di Menico[5]. Immagina tu con quanto piacere. Ma perché non me ne scrive niente. Voglio conoscere tutti i particolari, i successi, gli interessi. Mandami l’indirizzo di Ribulsi per una cartolina. Salutami affettuosamente tuo cugino. Scrivimi, ma con il giusto indirizzo (chiedilo a casa mia). Ricordami a Giovanna. Tuo Pietro

(Centro Sperimentale di Cinematografia, Archivio Giuseppe De Santis, faldone inv. n. 58501 , b. 31)

 

 

Roma, 10 luglio (1942)

 

Caro Peppe, scrissi a te ed a Luchino una lettera il 29 scorso; non ho avuto risposta né da te né da lui; sicché mi viene il dubbio che non l’abbiate ricevuta. O è il gran daffare? A Luchino chiedevo denari in conto di quanto mi resta da avere per Jeli, non vorrei che se ne fosse seccato: fammene sapere qualche cosa. Se è per il daffare, cerca di trovare un po’ di tempo per due righi: li aspetto. Ho visto le prime fotografie di Palude (o Ossessione, come vuoi): ci ho trovato del buon materiale plastico: il resto lo giudicheremo in seguito; gli esterni sembrano molto belli; ma mi piacerebbe sentire da te impressioni più precise, oltre le frasi di entusiasmo che ho letto in qualche lettera. Immagino che Elio non abbia girato ancora, altrimenti avrebbe mandato qualche fotografia: mi interessa vedere che ne cavate fuori. Qui a Roma il cinematografo non esiste, c’è bisogno che arrivi Palulde per vedere un bel film: l’unica cosa interessante che mi è capitato di vedere: i “resti” di Amore sublime che non avevo mai veduto: i quali resti ci hanno dato l’occasione, con Gianni[6], in cospetto di Barbara Stanvich, di criticare una volta per sempre la tua mania dell’ognuno è attore. Altra occasione in cui abbiamo sparlato di te è stata la visione del film Ninotchka: che consideriamo uno dei film più deteriori che siano mai usciti dalle mani di quel corrottissimo elegantone che è Lubitsch – e in definitiva anche cinematograficamente di un mediocre mestiere.

I miei studi vanno avanti normalmente: il tema è molto ampio e dovrei essere più in gamba: cercherò di fare il possibile: intanto pubblicherò sull’argomento qualche articolo su Cinema: questo benedetto problema del cinematografo non lo si esaurisce mai: cerca di sfruttare a fondo l’esperienza che ti è possibile fare in questi mesi: io non potrei che confermarti quello che tu mi hai già scritto: giorno per giorno mi si fa più chiaro che è un’arte che offre infinite possibilità: personalmente la tua esperienza diretta dell’ambiente del teatro mi interesserà moltissimo e mi potrà essere utile.

Giovanna come se la passa? Contenta del suo nuovo lavoro? E Luchino in funzioni direttoriali? La campagna ferrarese ti interessa? La letteratura riposa?

Quanto a me, i miei sono fuori: più calma e possibilità di studiar tranquillo, meno impicci familiari da dover sbrigare. Fa molto caldo, ma se te ne stai a casa in mutandine, non lo soffri molto. Roma naturalmente sente molto la mancanza delle tue critiche cinematografiche, Chiarini e il Centro sperimentale soffrono senza di te. Più di tutto però ne soffrono gli amici, seppure abituati a vederti sempre scappare qua e là per colloqui con produttori o ad ogni modo con persone molto influenti. Mi sembra, nella lettera che ti scrissi, di averti già consigliato il Billy Budd di Melville; io intanto mi son letto Sebastopoli di Tolstoi che mi sembra una bellissima preparazione a Guerra e Pace (che ha entusiasmato Gianni).

Ti davo anche nell’altra lettera notizie particolari di Jeli, e le davo a Luchino; e ti davo anche notizia della licenza rinnovata per altri tre mesi. Sperando che tu l’abbia ricevuta non mi ripeterò. Dunque, fatti vivo tu: non credo che tu faccia diciotto ore di lavoro come le faccio io (meno di sei ore di sonno!!!) Ricorda ad Elio, se è lì, che io gli sono sempre amico e che mi farebbe molto piacere una sua lettera. Parla di me a Luchino e dagli il mio augurio di buon lavoro. Tu lavora con calma, ci tengo! E non ti rovinare la salute, col fisico deboluccio che ci hai. Ricordati anche tu che – nonostante tu me ne combini sempre qualcuna: vedi Ninotchka – io ti sono sempre amico. Speriamo bene. Affettuosamente, ti saluto con Giovanna

 

Tuo Pietro

 

(a penna, aggiunto: Ciao Gianni)

 

(Museo Nazionale del Cinema, Torino, Fondo Giuseppe De Santis)

 

 

Albergo Ferrara,  Ferrara 
18 agosto 1942

 

Carissimo Peppe,

rispondo alla tua da Lenola: sono qui per un giorno, per accompagnare mia madre a Roma.

Autunno splendido; non so se altrettanto splendido quanto il tuo ferrarese: certo pare come in un vaso di miele ed è l’atmosfera ideale per dormire tutto il giorno, dico naturalmente: dormire ad occhi aperti (questo per non farti subito malignare). I nervi si distendono, anche se non perdono del tutto quella sottile vibrazione che l’aria di Roma gli conferisce: rimane insomma un briciolo di tesa inquietudine, inquietudine che è una cosa diversa da quella tua: sai che è troppo breve il tuo passaggio qui e non riesci quindi a dare piena adesione alle cose che pure si incontrano nella loro semplice vigoria. Chissà, forse è anche perché il mio paese ed ogni uomo è pieno per me di passato e di interessi. Roma? Nessuna novità. Io avrei tanto piacere che tu tornassi presto; disposto ad occuparmi di te come chiedi. Difficile dirti qualcosa del tuo stato d’animo, senza averne discusso pacatamente con te: anche se ne intendo i termini teorici: capire un male non è guarirne (lasciamo stare ora se il tuo sia o no un male). Roma, dopo un mio soggiorno in Umbria (così gentile, così bella, ma sempre così in ordine, in mostra, così calma, così fissa), mi tocca di più nella sua distesa ricca noncurante varietà.

Lavoro molto. Lo sai: quando si lavora molto, si vedono i frutti, si vede anche quanto ancora hai da lavorare. Allora quella febbre, quella tesa inquietudine che nemmeno lo splendore dell’autunno nei nostri paesi riesce a calmare: che calma vibrazione invece nelle cose della natura, che rigore, che serenità in questo trapasso, in questo perdersi e mutarsi. C’è da imparare moltissimo: io l’ho sempre invidiata. Trovo poi giustissima una osservazione che mi fece Leoncillo su in Umbria: l’intensità che hanno i colori dei nostri paesi, anche un paese spoglio come il mio. Saluterò Fondi per te. Ma tu cerca di venire più presto che puoi. Più presto che puoi. Dio creò il mondo, ma poi ci mise l’uomo: credo che nemmeno l’autunno ferrarese possa consolarti (come non consola me) di una splendida scena vuota e dispensarti dal cercarlo. Hai proprio nostalgia del tempo passato? Non lo credo. Io no, perché ho poco da rimpiangere. Mi dispiacerebbe perdere il futuro, questo sì. Discorrerei tanto volentieri con te, in questi luoghi e in questi silenzi che invitano a passeggiare e a discorrere con calma. Lo faremo invece a Roma tra autobus e telefoni, appuntamenti, cinema ecc. e tu che diventi una persona importante. Allora saremo costretti a sfruttare i due passi, tra il cinematografo in cui siamo stati a vedere l’ultimo film, e casa.

Pensare che anche l’autunno romano avrebbe da regalarci molto. Come si fa ad avere tutto? Ma se penso al mio ottobre dell’anno scorso: Palestrina: anche lì che splendida scena vuota: ricordo che nebbie sulla pianura all’alba, che tramonti, l’Artemisio! Ma che solitudine la sera! Mi piacerebbe ora tornarci per un giorno, anzi una sera. Hai avuto la mia cartolina da Assisi? La cattedrale è la più bella chiesa che io abbia visto e il campanile il più bel campanile. Veramente quando dico chiesa dico la facciata, solo la facciata (e bada che non parlo di S. Francesco): ma era col campanile la cosa più antica, più seria, più elevata e più solitaria che io abbia visto. Difficile reggere la conversazione con la sua serietà. Ma la gente che la costruì? Basta per oggi. Ho avuto i soldi, ti ringrazio di esserti ricordato. Mino sta meglio: l’operazione per il taglio delle aderenze pleuriche (la Iacobens: che nome!) è riuscita benissimo. Ossessione si fa spettare. Jeli riposa, pensiamo a Billy Budd: ma è così difficile: fammi sapere qualcosa dei pensieri di Luchino. Saluta Giovanna. Abbracci Pietro.

 

(Centro Sperimentale di Cinematografia,

Archivio Giuseppe De Santis, faldone inv. n. 58465 , b. 17)

 

 

[senza data]

 

Caro Peppe, (Cerca di interpretare la calligrafia, scusa!)

Ricevo la tua lettera e profitto nell’impulso e voglia di chiacchierare un po’ con te che mi suscita [sic!]. Profitto subito, perché se lasciassi passare del tempo probabilmente chissà quando avresti la risposta. Preciso quindi: la voglia c’era già, adesso profitto diciamo dello scatto che mi porta la tua lettera. L’intenzione di scriverti c’era, come ti dissi, già dai primi giorni, ma volevo aspettare per lasciare coagulare le passioni, impressioni e darti il meglio il picco di queste mie primizie di vacanze. Tirerò fuori un po’ confusamente, cominciando a rispondere alla tua lettera. Cominciando da quello che è ora il tuo chiodo, l’avvenire della nostra amicizia. Io posso avere gli stessi tuoi dubbi, ma forse in un senso diverso e quindi in una certa maggiore serenità, senso storico. Io credo, e ve lo dissi già una sera, che la nostra amicizia si basi su una conoscenza scambievole (anche di una certa profondità) risultato dei parecchi anni che abbiamo passato insieme. Conoscenza che si unisce, come è quasi sempre, ad una certa reciproca comprensione e, vada la parola brutta, tolleranza. Io credo che questo sia molto, quanto ad amicizia, e garantisca la possibile durata. È vero che forse noi siamo insieme per non star soli, ma che altro è l’amicizia se non la volontà di non esser soli? Insomma, io vivo, e vivendo sento il bisogno di far partecipe, di sentire al più possibile pulsare con me per le mie questioni un altro. Gli infiniti casi della mia giornata io sento il bisogno di raccontarli, di cercare di riviverli ripensandoli a doppio, se mai di discuterli (per quanto è possibile all’uomo, una vera volontà di discussione, cioè una volontà di una verità) eccetera, eccetera. Con chi potrei farlo se non con chi discussi per una consuetudine di tanti giorni è capace di capire questo materiale, comprenderlo e se mai giudicarlo? Ad uno qualsiasi che non sia un amico; a questo altro tale quella materia sembrerebbe estranea sorda, io dovrei affannarmi a spiegargli tutto da capo e non ci riuscirei. Gli uomini vivono e cioè patiscono, sono agitati continuamente dai loro desideri le loro volontà e gli oggetti intorno. Gli uomini pongono, uno per uno, se stesso al centro del mondo e gli altri vedono in funzione del loro desiderio. Io me ne convinco sempre più. Passioni che non ci soddisfano o soddisfano in misura inadeguata. Molta parte della nostra vita si ritma su questa insoddisfazione. Allora il piacere di riviverle, di viverle con gli amici. Con chi per lo meno, siamo sicuri ci starà a sentire e, noi speriamo, soffrirà della nostra stessa sofferenza e godrà della nostra stessa gioia. Se questo sia del tutto reale è una questione ancora difficile per me. Ancora: chi se non l’amico potrà afferrare, indovinare da un accenno il gioco sottile complicato di questa passione, modulare il suo animo su quel ritmo tutto particolare del mio animo. Spiegare? Come si fa a spiegare una cosa che si spiega giorno per giorno in tanti anni. Essere compreso? Da persona che sia estranea tutta la sua vita dalla mia, fino ad oggi? È naturale che questa comprensione si viene creando su una certa affinità di temperamento e di interessi. È probabile tra noi ci sia. Tra me e te per esempio, io credo, almeno in parte, di averli individuati: desiderio di concretezza, uguale natura tutta volta al sensibile, all’esperienza, una certa ostinazione e coriaceità (io di me stesso penso che per ammazzarmi devono regalarmi parecchie mazzate in testa e so le ragioni: la mia razza, la mia tradizione) una cautela nel giudicare uomini e cose (quella che io chiamo oggi “religione”) senso della infinità della vita e della mia fissità; un comune interesse ad una certa ricerca umana, desiderio di scrutare gli uomini, desiderio di osservazione e di riflessione. Naturalmente temperamenti ed interessi cambiano, si spostano con lo spostarsi della nostra vita nel tempo. Soprattutto, forse viene una età di maggiore consapevolezza e allora è la scoperta della diversità di temperamento, cioè di mezzi e di interessi. Ma in questo senso io vedo la cosa con meno inquietudine e aspettative di te: io sono convinto che ancora a tutt’oggi un certo piano di interessi (quindi di lavoro) comune esista; solidificato di quella conoscenza e comprensione di tanti anni. Domani forse i nostri interessi varieranno di parecchio ed allora io non esiterò ad opporre la diversità, ad attaccare i tuoi interessi. Al contrario oggi, ti ripeto, ancora non ho questa impressione. Naturale che la cosa è ancora confusa e questo è certo un momento di una certa importanza nella nostra amicizia. Ma ci vuol pazienza, aspettare che si chiarisca. Lo scriverò anche a Gianni e lo rimprovero prima di tutti a me stesso: noi manchiamo di pazienza. E qui veniamo ad un altro punto che mi è caro. Giorno per giorno io mi convinco che quel qualsiasi bene noi vogliamo se è bene d’un certo valore o durata ha bisogno per essere conquistato di tenacia. Convincersi che noi scontiamo o godiamo ogni attimo della nostra condotta del passato, e di quella dei nostri padri, della nostra gente ecc. Il destino umano, il fondo della nostra vita, s’è venuto costruendo attraverso un’opera che la nostra mente deve estendersi a misurare. Ogni mutamento va pagato e probabilmente pagato non per noi ma per i nostri figli. Io di questo me ne convinco, ti ripeto, sempre più. Peccato di pazienza, che è peccato di religione, peccato contro la vita. E veniamo alla tua insoddisfazione. Tu dici: torneranno gli amici, muterà un poco il mondo, e poi daccapo. Dici una cosa che anch’io spesso ho pensato e per me vale così: tu sei in fondo solo, o quasi, col tuo problema, con la tua difficoltà da vincere e gli amici ti possono aiutare poco, per poco. Io credo che questo sia vero, o purtroppo è vero fintanto che noi amici saremo quelle povere e fiacche persone. Come vedi io non rinunzio ancora a credere che sia possibile un aiuto. La forma più probabile che può prendere mi sembra sia l’esempio. Il miglior aiuto, prima di tutto come stimolo, può essere l’esempio di una vita. L’episodietto degli amici di V. Veneto è niente altro per me che un caso di quella piega di desiderio e di passione che è in tutti noi. Tale che acceca e distrugge tutto fuori che il desiderio di soddisfarsi. Cosa vecchia come il cucco, ma della diversità mi sembra di più esperienza. Quanto a me potrei oggi dire che sulla carta ho scelto. Credo che oltre questa vita di cieco desiderio (il proprio “Io” di ogni persona, dici tu) che non mi dà nessuna certezza e mi sembra un continuo morire fino all’atto vero e pesante della morte fisica, ci sia un’altra vita, ma è sollevarsi al valore, a qualcosa che noi uomini pensiamo come eterno e duraturo. È probabile che un uomo possa arrivare a vivere tale vita fino a sopportare anche la distruzione della sua individualità, a sopportare quell’indistinto, che però si annuncia così pauroso che è la morte. Per me oggi il valore è nella comprensione, nella umanità, nel riconoscere la legge di tutti, cioè la legge della vita, per arrivare a sentire la vita di tutti. Spero di essere chiaro e probabile ti sarà più chiaro se ricorderai uno dei nostri ultimi discorsi. Quando poi questa decisione sia tutta sulla carta e fortissima in sé, nella mia concreta vita, puoi immaginare. Anzi, la scoperta di queste mie giornate è proprio la difficoltà, la dolorosità del transito della nostra passione contingente a quella superiore vita. In parole semplici come paga caro l’uomo questa vita migliore che lo affranchi. Io sono qui in paese, tra oggetti che non ritengo bastevoli ai miei desideri, anche a quelli probabilmente meno nobili eppure come dimentico tutto questo e mi sento sconvolto dalle più diverse aspirazioni, appena dal mio concentrarmi scendo fisicamente in paese! È un po’ il tormento di questi giorni e io non mi lusingo di riuscire a renderti il dolore e la rabbia di certi momenti. A questo devi aggiungere un sentimento che mi viene spuntando proprio ora, il senso del ridicolo che è, se non in certe aspirazioni, almeno negli oggetti in cui certe nostre aspirazioni si vanno a porre. È una tale brama e una tale insoddisfazione la nostra, che, così accumulate, vanno a sboccare in qualsiasi cosa, senza distinguere. Io sono in un paese non eccelso e dovessi rinunciare scenderei, cercherei e mi soddisferei in quello che ho intorno. Probabilmente lo stesso se fossi tra maiali. La cosa scopre il suo lato ridicolo o, in certi casi, in cui è lampante il doloroso della situazione, nel grottesco. Parole un po’ grosse, ma se solo tu le sposti un po’ dai miei limitati casi personali, forse le troverai adatte. Il casetto del dancing era anche un po’ ridicolo, e benevolmente sorridere mi ha fatto anche quel darti del vigliacco per la mancata gita a Fondi. Credo che capirai. Arrivato a questo punto sono esaurito, ed a ragione: non solo per il molto sforzo, ma proprio per averti dato il senso di queste giornate di lontananza. Ripeto quello che forse non son riuscito a darti è il senso di rabbia e di dolore che mi invade in certi momenti. Pure tutti, o quasi, mi hanno in conto di persona pacifica o tranquilla. Permettimi questo sfogo di vanità. Il resto di questi giorni non conta. I dati fisici sono brevi: il giorno non esco e studio fino alla sera, ora in cui scendo in paese fino verso le 10, con pochissima o niente compagnia. Il meglio della giornata è nello studio e nelle osservazioni che riesco a fare, qui su in casa; il più rabbioso e il più pesante, te lo ripeto per la terza volta, è la discesa in paese: tutto per aria o quasi! Il comune consiglio però è sempre uno: stringere i denti e aver pazienza. Non mi manca il piacevole: cioè la possibilità di avere del tempo per meditare ed osservare, nel cuore di una natura che mi è sempre cara, o quasi (anche questo quasi ti prego di notare) e che mi rimetteva nella possibilità di riflettere e cavare il succo, delle piccole brevi amarezze, ma intense, della serata. Il mondo che mi sta intorno non mi offre dati nuovi da aggiungere alla tua storia, ma piuttosto da approfondire, da scavare in quello che già ne conoscevo, ed in quel senso di cui ti ho discusso per tante pagine. Se ne vuoi una rappresentazione efficace, con le debite diversità di passioni e di oggetti, di prego di leggere il Mastro Don Gesualdo di cui ti parlavo. Credo che Verga sia quello che abbia saputo vedere con più acume in questa nostra vita meridionale. Ho letto qualche pagina di Faulkner non mi ha fatto tutta l’impressione che a te, o almeno dico, lo conosco, non mi sorprende. È giusta però la tua osservazione: c’è una materia ed un atteggiamento che mi interessa e mi suscita una moltitudine di echi. Ancora avrei da scrivere, ma il meglio è detto. Cerca di rispondere appena puoi, perché qui, ne avrai esperienza, la posta è un vero regalo. Menico non l’ho più veduto e non ho cercato nemmeno, perché volevo esercitarmi, pur soffrendone, a star solo, e andarlo a cercare una volta rassodate le impressioni di questi primi giorni. Di Capri fra qualche giorno bisognerà parlarne: finora non ho rinunziato, come tu predici (secondo la storiella della bicicletta). Salutami come si deve Gianni, digli molte grazie e dammi tue. Tuo Pietro

 

(CSC, Archivio Giuseppe De Santis, Faldone,

inv. n. 58501, b. 31)

 

Scandalo borghese per “Miracolo a Milano”

 

Quando venne presentato Ladri di biciclette, “L’Osservatore romano” uscì con un aspro e insidioso attacco, che non è stato ancora dimenticato. Il film venne definito immorale, ne venne chiesto sfacciatamente il ritiro, con una aspra rampogna alla censura di De Gasperi, la quale ne aveva tollerata la circolazione. Pretesto banale per l’attacco velenoso furono alcuni tratti di pungente ironia su una confraternita di dame e, mi pare, l’immagine scherzevole di un prete che dava una brusca “carocchia” in testa a Bruno, l’indimenticabile protagonista bambino della vicenda. Ognuno comprese, allora, che si trattava di altro: bruciava ai clericali non la “carocchia” o la colorita satira delle pie dame, ma l’amara, calzante evocazione della Roma borghese e papalina, della Roma di oggi, di De Gasperi e del Vaticano.

Ora c’è Miracolo a Milano, il nuovo film di De Sica e Zavattini. Stavolta anche la copertura, il pretesto sono stati abbandonati. Per nulla fatti prudenti dagli applausi calorosi che hanno accolto la singolare opera nelle prime visioni di Roma e di Milano, i critici dei giornali governativi, i sacerdoti illuminati della estetica borghese, i Catoni che gridano e declamano ad ogni stormir di foglia sulla libertà dell’arte e sulla sua purezza, si sono scagliati contro il film di De Sica e, fra contorcimenti, balbettii, soffiamenti di naso, hanno segnato il loro «pollice verso». E lo dicono brutalmente: il peccato, l’errore, il marcio del film è che esso attacca i ricchi, i plutocrati e difende i poveri, anzi che il film vede la società divisa in ricchi e poveri. Quale scandalo! È un film classista, strilla sbalordito il cacasenno del “Tempo”. Quale maliziosa “tendenziosità” verso i ricchi lacrima l’ineffabile Contini sul “Messaggero”. E l’uno obietta funereo che vi è un attacco, ahimè, al “sistema economico”; l’altro, coi decreti del Santo Uffizio alla roano, protesta che non è quello il modo di trattare i miracoli. Persino la colomba, la mite colomba miracolosa li spaventa; e avanzano il dubbio atroce: si tratta per caso “di quella immortalata da Picasso”?

Si badi che nel film non è mai nemmeno nominata la parola “classe”: e la classe operaia non si vede, non c’è nel film. Al centro della storia è un nucleo di sottoproletariato, un gruppo di diseredati e declassati, che più miti nelle loro rivendicazioni non potrebbero essere. I “barboni” di Miracolo a Milano chiedono di poter mantenere almeno una baracca di latta, un rottame di tubo come abitazione, in quella squallida landa della periferia milanese: che terribile, “rivoluzionaria” rivendicazione avanzano i poveri di Miracolo a Milano! Nemmeno questo è consentito di chiedere nell’Italia di De Gasperi e dei critici vaticaneschi. La lotta che i “barboni” conducono è la più candida e ingenua che possa rappresentarsi: prima che si decidano a respingere con il tortore le bombe e le autoblindo della Celere hanno pregato con tanto di cappello in mano davanti al ricco Mobbi. – Ohibò, strilla il critico del “Popolo”, perché non vanno a lavorare? A Milano essi avrebbero trovato certamente da lavorare.

A tal punto i gazzettieri di questa borghesia hanno perduto la testa e il pudore dinanzi alla candida favola di De Sica e Zavattini. La verità è che essi sanno che quella non è favola, ma bruciante ritratto di una realtà, immagine lacerante di una condizione reale esistente nel nostro Paese, atto d’accusa alla “loro” società, al sistema che essi difendono con le unghie e con i denti.

E la verità gli brucia. La prima considerazione che si può fare è questa: così marcia e debole è la società di costoro, che essa non tollera nemmeno gli attacchi e le critiche ai suoi aspetti più vergognosi e desolanti. Anche una favola sulla miseria dei “barboni”, anche una denuncia delle prepotenze più ottuse e ripugnanti della plutocrazia mette in pericolo questa società ed è una minaccia all'”ordìne”. Tale è la libertà di critica e di autocritica di cui è capace l’Italia di Agnelli, di Baracco e dei fratelli Perrone. E De Sica allora diviene un sovversivo, Zavattini un pericoloso marxista. Si domanda: ma chi hanno allora con sé questi pontefici del regime clericale, se sono costretti a respingere e a trattare da nemici chi solo tenta di puntare il dito sulla piaga purulenta, sulla ferita che sanguina, inequivocabile dinanzi agli occhi di tutti? Se De Sica è un sovversivo e Zavattini un marxista, quali allora sono le forze culturali di cui dispongono costoro, che pure proprio in questi giorni vanno cianciando di una «crisi» fra gli intellettuali legati alla classe operaia e al popolo lavoratore?

Vuoi dire dunque che la crisi è nelle file altrui, nelle file dei corifei della “civiltà occidentale” dove non c’è più posto nemmeno per le fantasie poetiche di Zavattini e le umane denunce di De Sica. Quanto a noi non abbiamo bisogno dì far passare per marxisti De Sica e Zavattini per concludere che Miracolo a Milano è una degna battaglia combattuta per un mondo più giusto e per una nuova arte italiana.

 “L’Unità”, 11 febbraio 1951

 Mobbi sconfitto a Cannes

  Ricordate? Quando venne presentato al pubblico il film “Miracolo a Milano”, i tre quarti della stampa italiana lo attaccarono: dissero che il film era malriuscito e infelice, che De Sica era un traviato, un perduto all’arte, vittima, ormai, dell’anima dannata Zavattini; che l’opera era intrisa di sporca propaganda sovversiva, tarata, ahimè, da una visione classista della società. Uno scemo sanfedista sotto pseudonimo – dicono che fosse lo stesso direttore del giornale su cui apparve l’articolo – arrivò a scrivere che quella favola dei bambini trovati sotto il cavolo, richiamata all’inizio del film, era la prova lampante – beato lui – dell’“ideologia materialistica sovietica” di cui la pellicola era intrisa! E ancora qualche giorno fa il giornale del piccolo Tupini irrideva ai “film progressisti”, all’intollerabile pretesa di chi chiede che la cinematografia italiana si metta su questa strada. “Miracolo a Milano” fu uno scandalo per i giornali dell’agraria e della grassa borghesia italiana.

Questo film, attaccato in Italia dalla stampa italiana e sabotato nelle sale cinematografiche italiane, è andato a Cannes, al Festival Internazionale del Cinema; e a Cannes ha vinto il primo premio assoluto, insieme con un film svedese, e il premio della critica internazionale; due brillanti vittorie, di cui ci congratuliamo cordialmente con De Sica, con Zavattini e con tutti gli efficaci interpreti del film. In più, “Miracolo a Milano” a Cannes ha avuto un successo di pubblico eccezionale. E qui non si scappa: o i critici italiani borghesi, i quali lo attaccarono violentemente e lo svalutarono, sono dei cretini o bisogna credere che a Cannes vi fossero una giuria e una organizzazione “rossa”, obbedienti ai “diabolici dettati del Cominform”, le quali, per incendiare l’Occidente e denigrare il piano Marshall agli occhi dell’opinione pubblica, abbiano premiato un’opera mediocre e senza meriti. È tale l’ambiente di Cannes, dove è stato premiato “Miracolo a Milano”? Per rispondere, basta un episodio: a Cannes è stata impedita la programmazione della grande opera di Gherassimov “Cina liberata”, perché questa rappresentazione della nuova Cina, tra le più serene e limpide, affidata solo alla calma sequenza dei documenti, dava fastidio a quel povero Ciang Kai Scek rifugiato a Formosa e ai colonialisti francesi, quelli della sporca guerra contro il Viet Nam. L’arte indiscussa di Gherassimov non ha potuto parlare dagli schermi del Festival: è tutto stato fatto nell’assegnazione dei premi per impedire un riconoscimento delle opere presentate dall’URSS e dai paesi di democrazia popolare; sino al punto che, non potendo evitare una segnalazione di quell’impetuoso affresco romantico che è il “Mussorgsky” di Roscial, gli è stato dato il premio per la migliore scenografia! Questo è il clima di Cannes, dove è stato premiato “Miracolo a Milano”. Parlare stavolta di “fazione bolscevica” a proposito di un siffatto ambiente è dire la più grossa baggianata.

Resterebbe allora da concludere che quei giornalisti borghesi italiani, i quali hanno vituperato “Miracolo a Milano”, sono privi di capacità critica e di intelligenza. Ma per debole che sia la stima che noi abbiamo di costoro, vale per noi un’altra considerazione. Non è che questi critici non abbiamo veduto il valore di “Miracolo a Milano”; essi lo hanno veduto e, anzi, hanno avuto una paura folle dell’efficacia e del successo del film. Quello che essi non hanno potuto sopportare e che li ha mandati in furia è il contenuto, le cose che sono dette nel film; che è un contenuto niente affatto socialista, né orientato da una visione marxista delle cose, ma democratico, umanitario, riflettente l’allarme e l’angoscia di alcuni strati sociali dinnanzi alle piaghe e alle lacerazioni più evidenti del regime glorioso di cui godiamo. I borghesi che hanno giudicato a Cannes non possono consentire che dagli schermi parli la nuova Cina, con le sue risolutive vittorie e le sue costruzioni positive, ma almeno tollerano la denuncia umanitaria di “Miracolo a Milano”; i critici dell’agraria e della grossa borghesia italiana no. Essi rivelano quanto sia cieca e ottusa la classe dirigente italiana, incapace di consentire un margine di ricerca e discussione almeno artistica. Essi rivelano quanto sia cieca e ottusa la classe dirigente italiana, incapace di consentire un margine di ricerca e discussione nemmeno tra le forze che certo non sono socialiste, né ancora orientate verso il socialismo. I due milioni di disoccupati, la disgregazione sociale, il feudo, il dominio dei monopoli non debbono nemmeno essere discussi; debbono starci, vivere, continuare; sono tabù: alla gogna chi solo avanza un dubbio o esprime un allarme. Questa non è classe nazionale; lo prova, nel suo limite, la storia di “Miracolo a Milano”. Il successo ottenuto da questo film a Cannes divora (?) l’Italia; ma che figura ci fanno coloro che hanno vilipeso e disprezzato per odio di classe, che hanno sabotato per interessi di fazione? Si dice che a Cannes fra i più ostili al film siano stati alcuni critici italiani; non sappiamo se è vero, ma non ne saremmo sorpresi. Certamente è vero che i giornali borghesi hanno dimostrato, in questa polemica, di infischiarsene profondamente dei valori culturali, che stanno creandosi nell’Italia del dopoguerra, tesi solo alla difesa disperata di gruppi condannati e sterili. La notizia del successo di Cannes è stata presentata da alcuni dei maggiori giornali della borghesia romana in un modo vergognoso; non paghi di aver continuato la loro opera di svalutazione, nelle corrispondenze dal Festival, anche dopo il successo di pubblico ottenuto dall’opera di De Sica e di Zavattini, essi hanno confinato la notizia del premio in poche righe a fondo pagina; uno di essi, preso evidentemente dal mal di fegato, l’ha data come ultima notizia del giornale!

Questi sono i “nazionali”, i “patrioti”, gli “italiani”; e sono gli stessi che hanno speso colonne e colonne per narrare le partite a “canasta”, i sorrisi, gli starnuti di due  scialbe figure, quali Elisabetta e Filippo di Edimburgo; sono gli stessi che riempiono le pagine dei quotidiani di osanna, di fotografie, di lagrime intorno al criminale di guerra Mac Arthur, riconosciuto come pericoloso provocatore di sciagure e di conflitti persino nella sua patria, macchiato dal sangue di centinaia di migliaia di coreani e responsabile di aver condotta alla sconfitta e alla morte i soldati del suo paese: gente estranea ad ogni sentimento nazionale e a ogni passione di patria e pronta a dimenticarsene ogni volta che Mobbi comanda. E sul terreno della cultura non solo sono incapaci di creare, ma mirano a distruggere, a soffocare ogni cosa che viene fatta di positivo che si ispira ad un orientamento nuovo. Perciò confinano fra la pubblicità il premio a “Miracolo a Milano”, quasi fosse una vergogna; perciò disprezzano la pittura di Guttuso e di Mafai, due fra gli artisti più valorosi che abbia oggi l’Europa, perciò lasciano apparire sui loro fogli attacchi ed insulti persino all’opera di un maestro, di un genio italiano come Gramsci.

Se Mac Arthur è il loro dio e il sillabo (vero, Missiroli?) il loro “credo”, Koestler e Malaparte sono i loro artisti. Si capisce che l’umano e il nuovo li offenda e li atterrisca, essi che sono i rami sterili di un mondo in decomposizione.

 (“L’Unità”, 22 aprile 1951, p. 3)

 Cinema realistico

  Ancora non era stato presentato nella grande maggioranza delle città italiane, e già la radio e la stampa clericale attaccavano con arida acrimonia, sotto la guida dell’ori. Andreotti, l’ultimo film di De Sica e Zavattini, Umberto D.

Gli argomenti di tale campagna non c’è bisogno di riportarli: sono gli stessi, tali e quali, sciorinati per Miracolo a Milano, per Ladri di biciclette e tanti altri film della cor­rente realistica italiana: se mai stavolta sono esposti in modo ancor più brutale. Questi film dicono la verità sull’Italia e mettono a nudo piaghe vergognose. Perciò essi distur­bano; e fanno paura agli uffici di propaganda del governo in una misura che rasenta il comico.

È successo questo: nei giorni in cui è stato presentato a Roma il film di De Santis Roma ore 11, un giornale borghese gli ha dedicato un lungo editoriale, gridando allo scandalo, perché l’opera aveva come tema la tragica avventura di duecento ragazze in cerca di lavoro. Su per giù il ragionamento del giornale borghese era questo: – Ma come! Il regime borghese sopporta tranquillamente che si raccontino in pubblico le sue porcherie!

E la intollerabile pericolosità di simili film stava, per codesto censore, non già nel fatto che essi mentissero, ma proprio nella loro impressionante allusione a una realtà che è dinanzi agli occhi di tutti: nella loro forza di verità ed efficacia artistica, insom­ma. In un paese di due milioni di disoccupati permanenti, è «incendiario» già solo pren­dere a tema la storia di duecento ragazze in cerca di lavoro; figurarsi se il regista rie­sce a trattare questa storia con scrupolo di verità e in modo convincente!

Di qui il grido: bisogna affrettarsi a metter la foglia di fico ai film italiani. E si capi­sce che i più furiosi siano i clericali: non solo perché sentono colpiti il loro governo e il regime che essi difendono, ma, più ancora, per una ragione di fondo: in quei film la sventura non è rappresentata e teorizzata come la condizione necessaria dell’uomo, che deve educarlo e rivolgerlo al regno dei cieli. Sono tutti film scandalosamente «pro­fani». E questo è intollerabile per i predicatori gesuiti e i gerarchi dell’Azione Cattolica,

che considerano empio tutto quanto è stato creato dal pensiero umano e dall’arte dopo il grande peccato del Rinascimento.

Si deve riconoscere un merito a questa campagna clericale: essa basta da sola a sottolineare gli elementi positivi di opere come Umberto D. e vale a ricordarci, se lo avessimo dimenticato, l’impegno di sincerità cui esse obbediscono nel tetro quadro del conformismo sanfedista. In questo senso, un film sconsolato e amaro come Umberto D. perplesso e senza speranza nella sua conclusione, è un’opera di coraggio. Si sente l’impegno aspro della fantasia di Zavattini di scoprire il dramma nelle cose più sempli­ci di una giornata umana, per fissarle sulla tela dello schermo, senza gridi né lenocini, con l’inquadratura spoglia, la recitazione essenziale, il palpito di commozione che sa dare ad esse De Sica. È un film coraggioso non solo per il tema che sceglie, ma per lo stile severo e nudo con cui l’affronta.

Le rivelazioni che ne escono sull’asprezza agghiacciante di questa società in cui viviamo non sono facilmente dimenticabili; e basta ricordare il risveglio della servetta, la squallida storia della sua maternità, l’incontro del pensionato col capo-ufficio com­mendatore (quella domanda convenzionale e tragica lanciata dal finestrino della cor­riera: «Che ne dice lei, ci sarà la guerra?»), la fuga mattutina di Umberto D. sfrattato, verso il suicidio, l’ironia sferzante delle scene di ospedale. La condizione del povero, la separazione cui l’uno è costretto rispetto all’altro; la necessità imperiosa di badare ai propri guai, di assoggettarsi, per difesa, alle regole dell’ipocrisia bacchettona, la deva­stazione dei sentimenti di generosità e di solidarietà, che compie questa società “cri­stiana”, sono viste con una verità, che stringe il cuore; e alcuni momenti meritano senza dubbio di restare a documento della desolazione e dell’avvilimento morale e materiale, che percorre i difficili tempi del nostro Paese e della nostra generazione.

C’è poi il finale, lungo, confuso, faticoso. Il pensionato Umberto D., relitto della società, trascinato al suicidio dalla miseria, dal deserto che gli è intorno, rinuncia ad uccidersi per il richiamo improvviso alla vita che gli viene dal suo cane, che non vuole morire; e scompare Umberto D., nelle ultime inquadrature, senza speranze né novità, si dilegua nell’indistinto del domani. Che farà domani? Ricomincerà a vivere? E come? Ritenterà di uccidersi?

Finale discusso, criticato. È la debolezza dei film di Zavattini e di De Sica – è stato detto. Il dramma è senza soluzione, rimane sospeso, termina in modo arbitrario.

A guardar bene la debolezza di Umberto D. – e di altre opere di Zavattini e di De Sica – non sta nel finale, ma nell’impostazione dell’opera. La confusione, l’oscurità del finale sono la conseguenza del modo con cui sono stati concepiti la storia e i suoi per­sonaggi. In Umberto D.questo si vede più chiaramente: la città in cui il pensionato Umberto D. vive la sua vicenda è un seguito di volti, di apparizioni, dì figure sfuggen­ti, di palazzi, di autobus, di voci, che egli non comprende e non si spiega, ma che nem­meno l’autore riesce a comprendere e a definire limpidamente. Il regista ha reciso ogni filo che lega Umberto D. al suo ceto, al resto della sua classe, a quelli che lo hanno preceduto e a quelli che rimangono e che verranno; e rinuncia a individuare con esattez­za – o non gli è consentito? – le origini stesse del destino del suo eroe.

Messe così le cose il risultato non può essere che quello: la solitudine, la morte; unico barbaglio di salvezza resta l’istinto elementare, canino, di attaccamento alla vita. E il dramma non può che fermarsi alla denuncia angosciata, la quale non offre solu­zioni, perché non le ha, non le vede.

Altre volte abbiamo parlato della concezione del mondo ingenua, spaventata e mutila, che si ritrova anche nelle opere più efficaci del cinema realistico italiano. Umberto D. conferma questa osservazione.

Ciò non è per caso. Saremmo ingenui, a nostra volta, se dimenticassimo le condi­zioni singolari in cui questo cinema è nato, dovendo spezzare d’istinto, con forze acer­be e improvvisate, tutta una tradizione accademica dell’arte e della cultura italiana ultime, lottando contro l’oscurantismo più ottuso, che opera attraverso la censura uffi­ciale, il veto del produttore, l’intimidazione perfida, il boicottaggio. Nella misura in cui le forze nuove si aprivano la strada sulla scena nazionale e presentavano i loro proble­mi, questo cinema si è nutrito a tale linfa ed è fiorito. Ma è rimasto alla denuncia; per continuare a vivere e per crescere, ha bisogno oggi di approfondire le sue radici nel ter­reno nuovo, dove ha appena gettato i primi gracili fili. Saprà farlo? Sapremo dare a questi artisti l’appoggio, la critica schietta, il clima politico e culturale che li aiuti?

Ecco l’esperienza di un altro regista, De Santis. Con Roma ore 11, egli ha buttato a mare le favole letterarie, su cui aveva imbastito gli ultimi suoi film, e il dannunziane­simo sensuale che intorbidava la sua vena di narratore popolare. Ha preso a soggetto un lacerante episodio di cronaca e, senza perdersi nel dettaglio, ha cercato di svilup­pare intorno ad esso un buon racconto, costruito in modo solido e chiaro. Ha fatto un film commosso, avvincente.

Ma l’elemento più interessante della sua opera è nello sforzo che egli ha compiuto per allargare l’orizzonte, per cogliere i nessi che legavano l’una vicenda all’altra e che avevano aggruppato sulla tragica scala di via Savoia vite così diverse. Il tratto è anco­ra sommario, molte figure sono tipi più che persone vive; vi è però un occhio il quale ha l’ambizione di vedere oltre il particolare e vuole comprendere donde è venuta quel­la fanciulla e quel destino, il quartiere, il ceto, la realtà più larga da cui discende. Questione solo di soggetto, di numero dei personaggi? Vecchia formula del film «cora­le»? Di più tentativo di superare quanto di oscuro, di «misterioso» – e anche di reticen­te – e quindi di inefficace artisticamente e di insoluto vi è nel film realistico italiano; per sapere con più chiarezza e quindi raccontare con più nettezza come stanno le cose, e come la sorte di ognuno di noi si leghi a quella degli altri.

Roma ore 11 cerca una «soluzione». L’ultima inquadratura del film – dopo il lugubre crollo, dopo i ritorni delle ragazze nei quartieri, gli incontri e le separazioni – ci fa vede­re una delle duecento ferma di nuovo sulla soglia della scala squarciata, dove al mat­tino, con le altre, si era recata a cercare lavoro: e la nuova alba la troverà lì, come ieri, sempre in attesa dell’impiego. Il problema da cui è nata la tragedia dunque non è risol­to; né il regista dice come si debba risolverlo. Ma è successo qualcosa in quelle venti­quattro ore; i personaggi hanno camminato e il regista con loro: seguendo e interro­gando i suoi eroi, egli ha cercato un filo, una spiegazione. Non gli è bastato di racco­gliere un brandello sanguinante di realtà; ha voluto scoprire la storia che unisce i suoi personaggi, come uomo moderno il quale crede nella ragione e nella fantasia e pren­de il suo posto di combattente.

Perciò tentativo difficile e ambizioso, ma che avvicina il problema di fondo posto oggi agli artisti del cinema realistico italiano. Problema oramai rivelato nitidamente proprio dalle ultime opere loro: se essi vogliono rendere più profonda e più vera la loro arte e arricchirla, se vogliono far camminare i personaggi che oggi si arrestano perples­si alla conclusione del dramma, debbono saperne di più sul passato e sull’avvenire dei loro eroi, sulla società che li esprime, nei suoi diversi momenti e nel suo drammatico sviluppo. Debbono insomma, con studio e coraggio, superare ciò che ancora impaccia la loro fantasia.

 

“Rinascita”, n. 2, febbraio 1952

 

Fallimento di don Camillo

 

 
Non abbiamo mai considerato il regista Duvivier un artista autentico. Le sue opere, anche le migliori, ci sono apparse sempre una furba mescolanza del verismo socializ­zante, proprio del cinema europeo del primo dopoguerra, con il «giallo» del film di gan­gster americani; senza genio, però, né vena originale. Entrando a vedere un suo film, lo spettatore sapeva già tutto ciò che l’aspettava, sapeva cioè di trovarsi dinanzi a un’opera di seconda e anche di terza mano.

Se tali sono le sue proporzioni di artista, ognuno però doveva riconoscere ai film di Duvivier sapienza di mestiere e una vernice di decoro, un’ambizione, che è propria del­le persone avvezze a commerciare con le cose d’arte e con una problematica non pro­prio da dozzina. Insomma Duvivier non era né un De Mille, né un Mattoli e il suo nome stava a buon diritto nelle discussioni accese ed erudite, che si fanno dai giovani di vent’anni nelle mattinate di cine-club.

Ora Divivier ha fatto Don Camillo, un film che racconta il lungo e accanito duello, che si svolge in una paese dell’Emilia fra un prete anticomunista da una parte e il sin­daco rosso, la sezione del partito e la popolazione dell’altra. La materia del film è trat­ta da una mediocrissima buffoneria del disegnatore Guareschi.

La devastazione che è venuta all’ingegno del Duvivier da tale meschino matrimonio con il libello anticomunista è chiaramente visibile nel film. Ogni ambizione d’arte è del tutto scomparsa, il film si presenta dall’inizio come un’opera di produzione corrente e tirata via alla carlona. Al posto della sapienza d’intreccio, o anche soltanto di intrigo, mai mancata al regista francese, si trova una storia scucita, che rivela a occhio nudo le sue suture faticose: che senso ha – per fare solo qualche esempio – l’episodio della campana sommersa in fondo al lago? Non si capisce. Come si sposa la storia vecchiot­ta e convenzionale dei due ragazzi, il melodrammatico della loro fuga nella notte con il farsesco alla Ridolini della partita di calcio? Resta oscuro. Chi non avverte come siano goffe artisticamente e inutili ai fini della vicenda scene come la litigata fra il prete e gli «attivisti» comunisti arrivati dalla città?

E si vedano anche le ragioni esterne che hanno dettato il pasticcio. Duvivier non è rosi sciocco e sprovveduto da non sapere che le passioni e gli scontri di parte possono essere in Italia anche più aspri ed esclusivi di quanto non sia detto in Don Camillo, ma non sono mai così puerili. Egli ha, soltanto, sacrificato la verità e l’efficacia ai cliché! del Candido; e tanto mortificanti sono questi clichés che persino il prete protagonista è risultato più gratuito e balordo di quanto non siano in realtà i preti emiliani, certa­mente più furbi e insidiosi di questo nocchieruto don Camillo.

Ma la cosa più interessante è un’altra: a un certo punto il regista ha sentito il peri­colo e si è rifiutato all’obbligo anticomunista. Ne è venuto fuori l’ultimo scandalo del cinema italiano. Il Popolo, invece di compiacersi dell’opera di Duvivier, le ha indirizzato alcune aspre e stizzite parole di rimprovero. Perché?

Perché il regista, rifiutandosi di uccidere i suoi personaggi e di trasformarli in ma­rionette, ha mostrato che il sindaco Peppone si preoccupa dei salari dei suoi ammini­strati e di costruire una casa del popolo, che lo sciopero si fa perché c’è la fame nel paese, che gli agrari non vogliono muovere un dito per alleviare la disoccupazione bracciantile. Naturalmente lo spettatore non capisce, a questo punto, per quale motivo il prete ce l’abbia tanto con persone – e sono poi i comunisti – le quali si preoccupano di queste cose e agiscono per l’utile di tutti, anche se il film ce le descrive come anal­fabete, o zuccone o come «obbedienti ciecamente al capo». E per quanto pio e amico del Padreterno sia il prete, risulta che il sindaco Peppone fa il suo mestiere di ammini­stratore e di capopopolo in modo tutto sommato ragionevole e tollerante; e l’altro in­vece si impiccia di affari che non lo riguardano, è pronto sempre – alle spalle del buon Dio – a tirar fuori il mitra o il manganello, e nella gran parte dei casi è lui, proprio lui, che va a cercar rogna, con le scampanate, le scritte sui manifesti altrui, i ricatti e le li­tigate. Naturalmente questo il regista non lo dice esplicitamente, ma viene fuori dalle cose, appena esse si allontanano dalla macchietta volgare e cercano di disporsi in un quadro più umano e reale. Insomma nella misura in cui il Divivier rifiuta di scendere al livello del Guareschi e vuole fare un film dove vi siano degli uomini verosimili, comuni­sti o non, egli è costretto a far vedere che non sono «trinariciuti»; e sforzandosi di am­bientare la sua storia nell’Italia d’oggi, egli è costretto a toccare il problema della fa­me, della terra, della disoccupazione.

È difficile far la crociata contro lavoratori che chiedono un miglior salario, in un Paese dove la terra è ripartita ingiustamente e trionfa la disoccupazione. È insensato, in questo Paese, scatenare una parte contro l’altra, quando vi sono questioni così gravi e pressanti. Questa è la morale che vien fuori dal film, nonostante il Candido e Guareschi.

I clericali ne fanno colpa al Duvivier. Sbagliato. Il Duvivier, poveretto, si è assunto un ruolo assai ingrato e ha consentito a sperperare in quest’opera una parte notevole del suo credito di regista. Non sappiamo quanti altri, della sua levatura, sarebbero di­sposti alla stessa sorte. Il Popolo lamenta che egli non se la sia sentita di degradarsi si no alle frottole del «comunista pronto a passare sul cadavere della propria madre». Ma un film che racconti queste baggianate, chi lo andrebbe a vedere? Gli americani ci hanno provato e, almeno in Italia, hanno fatto fiasco, sul terreno dell’arte e sul terreno degli affari.

Duvivier, che lo sa, ha cercato di salvare la faccia e la cassetta, girando nello scher­zo bonario il libello volgare. Non è venuto fuori il film anticomunista che si aspettava; Don Camillo non serve per le elezioni di primavere, perché smentisce De Gasperi e Gedda: d’accordo. Ma la colpa non è di Duvivier. È che il mestiere dell’anticomunista diventa sempre più difficile in Italia; non per quel che riguarda la polizia naturalmente, ma sotto l’aspetto della intelligenza e della persuasività. E non parliamo poi dell’arte.

 

“Rinascita”, n. 3, marzo 1952

 

Cinema senza verità

 

 

 

 Chi vuole avere un’idea del cattivo gusto dei giudici, che decidono i premi al Festival cinematografico di Venezia (e c’è gente che passa per raffinatissima: Baldini, Vigolo, ecc), si faccia coraggio e vada a vedere Rasciomon, insignito, il settembre scorso a Venezia, dell’onorificenza massima e cioè del “Gran premio Leone di San Marco”.

Sappiamo tutti a quale indecorosa decadenza sia stato ridotto il Festival di Venezia dalle amorose sollecitudini dei vari Andreotti e Petrucci, e comprendiamo l’imbarazzo di chi doveva scegliere tra tanta mediocrità; ma, perdio, qualcosa di più degno di questo tetro, falso, pretenzioso drammone giapponese c’era a Venezia! Meglio cento volte – tanto per fare un esempio – la satira, la recitazione spiritosa di un film raccontato alla brava, come l’americano Nata ieri, che non il giallo cosmico e le ambizioni fallite di questo solenne Rasciomon.

Non parliamo del contenuto, della “morale”, per cui l’umanità è presentata in questo film come una sentina di sterco e composta solo di banditi, di assassini, di bugiardi. È stato ucciso un samurai e tutti si accusano del delitto e tutti mentono a se stessi e agli altri. La donna è vista come una sorta di invincibile iettatrice, fontana di malanni e di perversità. La verità non esiste o non è conoscibile. Nessuno ci capisce niente nelle cose del mondo, salvo un prete, perché è prete e ha la fede. Alla fine lo spettatore, al vedere una serie così innumerevole di guai e di porcherie e costatato che il mondo è tutto nero e non ci si può far niente, si stringe nelle spalle e conclude che tanto vale non prendersela troppo. E ha il nostro pieno, solidale consenso, questo spettatore.

Ma almeno tali peregrine meditazioni fossero servite con garbo, articolate in personaggi accettabili e non troppo fastidiosi. Macché! La donna non fa che urlare penosamente. Il bandito invece sghignazza e ride ad ogni momento, per cui non si capisce se è un ebete o un allegrone. Il ladro ha sempre un ghigno sulla bocca, come di prammatica. Quando si vede un ruscello, allora la musica, in fondocampo, vi fa sentire campanelli argentini. Quando c’è una scena ossessiva, allora si ode un diabolico ritmo di bolero. Quando c’è una scena di angoscia, le mani dei protagonisti si torcono armoniosamente secondo le regole consacrate nelle accademie di recitazione. Tutti hanno una capacità straordinaria di sudare freddo, copiosamente, nei momenti cruciali. E poi frasche dappertutto: sotto forma di bosco, calibrate al millimetro, fotografate magistralmente, ma sempre frasche, inequivocabili frasche, come l’immortale pino che fa da sfondo alla foto di Gigi, che è andato soldato.

L’unica cosa davvero notevole è la capacità che ha il regista di muovere la macchina da presa: ci sono carrellate prodigiose, di una scioltezza acrobatica, inquadrature perfette. Il guaio è quel che il regista ci mette dentro a queste carrellate. Ci sono stati sempre e ci sono, nel nostro Paese, verseggiatori, arcadi, dannunziani, benelliani, che sanno imbastire, in modo spettacoloso, rime, strofe, parole, suoni; ma nessuno si è mai sognato di prenderli per poeti; e invece a Rasciomon, a Venezia, gli hanno dato il Leone di San Marco.

 

Tanto è cupo e greve Rasciomon quanto è idillico, melato, fluviale un altro film pregiatissimo a Venezia, Il fiume di Renoir. È una storia di adolescenti al primo amore, ambientata fra i templi in rovina, i bungalow, le scalinate, le primavere fiammeggianti dell’India. Il commento musicale è raffinato, la recitazione discreta, i paesaggi stupendi; il colore è trattato da uno che conosce a menadito la pittura e anche l’iconografia, i costumi dell’800 europeo. Ma tanto decoro esteriore non riesce nemmeno qui a nascondere la banalità della storia e la gracilità scoraggiante dei personaggi. Il film vuole essere la descrizione di uno stato d’animo aurorale, del poetico passaggio dalla fanciullezza alle trepidazioni sentimentali dell’adolescenza; ma non bastano i colori, le musiche, le parole sognanti a far poesia, quando le persone che si muovono in questo dolciume non escono dalla maniera di un romanzetto rosa. La melassa resta melassa, anche se la presenti in una coppa di Murano. E trascuriamo le moralità che circolano nella storia e si esprimono in frasi di questo genere: “Il mondo dovrebbe essere solo dei bambini, perché solo essi sanno capire le cose importanti, il nascere di un sorcio, il cadere di una foglia, ecc. ecc.”; frasi che hanno il loro giusto e commovente luogo nei versi che si scrivono a 18 anni, ma fuori di lì rischiano solo di far sorridere.

Quanto all’India, essa sta nel film semplicemente in funzione di cartolina illustrata, dà il “colore”, serve a comporre il quadro. Qualcuno ha avvertito nel Renoir di questo film lo spirito del colonialista, dell’uomo abituato a considerare gli asiatici come razza inferiore, schiavi, oggetti curiosi. Forse il giudizio è esagerato, proprio perché il film rimane su un terreno ancora più superficiale e banale. Che cosa ha cercato il regista nel folclore, nelle tradizioni, nei riti delle cui immagini ha disseminato largamente la sua opera dal primo all’ultimo quadro? In fondo ha creato frasche, pure lui come il regista di Rasciomon, anche se con mano più educata. Che ha scoperto nella vita del grande fiume, che ha posto ambiziosamente al centro della sua opera? Nient’altro che effetti di luce, vele che trascorrono, splendore del tecnicolor. Gli uomini che vivono nella folla di barche miserabili, le donne aggiogate a lavori di una tecnica arretrata, le schiene curve degli operai dello jutificio sono per lui solo il contorno esotico al romanzetto rosa che si svolge nel bungalow. Più ancora che giudicarla da colonialista, egli non vede nemmeno l’India; la sua fantasia non ce la fa manco a quello.

Come mai un regista come Renoir, che seppe darci la Grande illusione e la Marsigliese, è ridotto a questa povertà, a questa aridità di fantasia? Per noi la risposta è semplice: staccato dai grandi temi umani, dalle questioni vive del suo tempo, è condannato anche lui al deserto del formalismo e riesce solo a ricoprire di bei colori il vuoto che gli si è fatto dentro.

Cose evidenti, ma che a scriverle ti saltano addosso i neo-crocianuzzi del cinematografo, protestando che vuoi distruggere l’arte nella propaganda e negare l’immortale libertà dell’artista di divertirsi sul nulla. Tant’è; pur di cacciare dall’arte l’uomo e la verità, a costoro basta una frasca stucchevole per celebrarla come poesia. S’è visto al Festival di Venezia con Rasciomon e con Il fiume.

 

“Rinascita”,  1952, anno X, n. p. 247

 

 

L’ultimo film di Charlie Chaplin

 

 

 Da che cosa viene il fascino di quest’opera, l’emozione che ha suscitato? Per capirlo, cominceremo dai difetti. Il più evidente mi sembra la sommarietà, l’incompiu­tezza dell’ambiente, in cui si svolge la storia dei due protagonisti, Teresa e Calvero. Il mondo del music-hall è visto con discrezione, con amore, con grande mestiere; ma non va oltre alla maniera di una stampa dell’epoca. L’impresario e il coreografo, per esempio, rimangono figure da bozzetto, macchiette, non riescono a diventare caratteri, simbolo, come altrove in Charlot. Il giovane musicista innamorato della ragazza, Neville, vive solo nel poetico racconto che essa fa del loro primo incontro, nella memoria che essa serba di quel primo amore; poi si sbiadisce, rimane solo un elemento della trama, uno strumento esterno nella macchina del racconto. La folla delle figure minori non ha l’incisività e la fre­schezza, che popolavano e rendevano così ricchi gli altri film di Chaplin. Sembra che Chaplin non si sia preoccupato di approfondirle, tutto preso dal dramma dei due protagonisti. Anche la storia di Teresa e di Cal­vero ha momenti non risolti: la presentazione e i primi dialoghi della ragazza, che in seguito prenderà un ri­lievo stupendo, sono francamente convenzionali; i sogni di Calvero sanno di espediente narrativo e tutto l’inizio è un po’ lento, prolisso, più affidato a certe spiegazioni del “parlato” che non alla vivezza delle immagini. Anche più tardi, prima di arrivare alla fuga di Calvero e alla tragedia finale, ci sono delle stanchezze nel rac­conto. Chaplin ha sempre costruito i suoi film a blocchi messi l’uno accanto all’altro (salvo la stretta e incal­zante concatenazione della vicenda in Monsieur Verdoux)Probabilmente i passaggi che nelle sue grandi opere “mute” erano sintetizzati da una didascalia e assorbiti nel ritmo dei “gag”, delle capriole, delle trovate, qui, nell’onda pacata di Limelight, nel lento accu­mularsi del dramma, mostrano più chiaramente il loro carattere sommario, la funzione di comodo cui assol­vono.

In questa cornice un po’ manierata, in questo cano­vaccio non originale e a volte meccanico sgorgano i momenti di arte, di limpida piena poesia, che non moriranno. Essi sono stati sottolineati dall’applauso concorde di tutta la critica: l’attimo, il grido con cui la ragazza riprende a camminare; lo schiaffo con cui Calvero la salva dalla sua malattia e la spinge sulla scena; il suo trionfo e il giuoco dei sentimenti sulla maschera patetica, dolente, del clown, e tutto il finale. Noi aggiungeremmo la rievocazione dell’idillio nella cartoleria, così semplice ed essenziale, e il ritorno della ragazza, dopo la scomparsa di Calvero, di notte, in quella stanza fatta vuota, che la macchina da presa fruga lembo a lembo.

E’ tutto qua Limelight? Alcuni splendidi squarci di una storia d’amore e un patetico scrutare nel dramma di una decadenza e di una vecchiezza? Se così fosse, per forti e toccanti che potessero essere questi momenti, noi non guarderemmo a questa opera di Chaplin come a qualche cosa di nuovo e di diverso; e ci sarebbe, senza dubbio, un impoverimento rispetto alla grande polemica sociale che egli ci aveva dato. Avremmo perduto Charlot, per acquistare una pagina in più di commovente psicologia.

Ma non è così. La storia di Limelight ha orizzonti più larghi del dramma di un comico decaduto e di una ragazza malata di isterismo; e anche di quanto di auto­biografico vi hanno riconosciuto certi critici. Essa entra in una disputa che dura da tempo; e lo dice chia­ramente, in modo addirittura didascalico.

Abbiamo assistito in questi anni, in Occidente, ad una polemica feroce contro l’uomo: si è lavorato a disinte­grare l’unità della coscienza, si è negato fondamento obiettivo al suo sapere; si è diffamata la sua intelli­genza. La battaglia contro l’uomo non si è arrestata alle armi della fame, della miseria, della servitù, alle guerre, ai progrom, alle carestie: non si è appagata della violenza materiale. Essa ha agito attraverso le astuzie delle mistificazioni culturali; ha operato attra­verso le vie che penetrano nella coscienza e spezzano la volontà di lotta e di ribellione.

L’arte occidentale di questi ultimi cinquant’anni è cresciuta in un simile paesaggio desolato, ha respirato quest’aria. E’ intessuta perciò di sfiducia, di delusione, di spavento; e da questo stato d’animo essa ha avuto il respiro mozzato e ridotta la sua capacità di costruire. Così si sono spenti l’alto volo della lirica ottocentesca e le grandi costruzioni del romanzo realista; i pittori si sono ridotti ai cocci di bottiglia, gli scultori sono caduti nella miserabile aridità del filo contorto di Calder.

Ma gli uomini continuavano a vivere, a lottare e a cercare nell’arte un ritorno pieno ed intiero della loro storia, una consolazione e un incitamento. Persino la ribellione piccolo-borghese contro le deformazioni del­l’arte moderna, nei suoi limiti filistei, aveva una sua giustificazione: esprimeva questo rifiuto alla disintegra­zione dell’umano. Com’è stata combattuta, nel campo dell’arte, questa battaglia in difesa dell’uomo? Anche le cose più oneste e più belle di questi anni, in Occidente, sono state solo il grido strozzato, la protesta, la denuncia. Guardate – tanto per rimanere nella nostra materia – ­che cosa è il grande cinema neorealistico italiano del do­poguerra: difesa dell’uomo senza speranza; grido di pro­testa senza prospettiva. Umberto D. arriva alle soglie del suicidio e non sappiamo se svoltato l’angolo del viale, dove confuso e sconvolto si ritrova ancora nella vita, non tenterà di nuovo di ammazzarsi. La madre di Bellissima, offesa dal mondo, si stringe spaventata alla sua creatura, aggrappata all’unico, esile filo di questo suo sentimento: resisterà? Il disoccupato diLadri di biciclette si allontana dall’ultimo fotogramma col volto in lacrime, con la stessa miseria di ieri e una disperazione più grande.

Denuncia, accusa, amarezza: su questa trincea si è svolta la resistenza contro l’avvilimento e la diffamazione dell’uomo, nelle cose più alte dell’arte dell’Occi­dente.

Con Limelight Chaplin interviene in questo scontro intorno all’uomo e al suo destino; interviene mentre più volgari si fanno le bestemmie, più violento il tentativo di piegare la volontà dell’uomo, di togliergli la fiducia nelle sue forze, per gettarlo nella superstizione e nella servitù. Già in Verdoux Chaplin aveva deposto la bombetta e la canna di bambù, quasi per rendere più diretta la sua denuncia dei delitti commessi contro la libertà e l’esistenza dell’uomo. Ma Verdoux era pur’esso solo collera e disperazione: umiliato ed offeso, il piccolo-borghese Verdoux si difendeva uccidendo, sim­bolo di una società dove per sopravvivere devi ammaz­zare. Non riusciva a salvarsi: sul finale si proiettava l’ombra della ghigliottina.

Anche Limelight finisce con la morte dell’eroe; e Cha­plin non vela la tragedia, l’angoscia di quest’ultima partenza. Ma Calvero lascia una parte di sé, un’eredità, nella ragazza che ha salvato dalla sconfitta e dalla morte. Dunque, più forte della ingiustizia, della vec­chiezza, della morte, c’è l’amore, la solidarietà umana. Calvero combatte la sua battaglia contro le offese del tempo e della società fondandosi sulla forza che viene  da sentimenti semplici; universali, quali l’amore, la solidarietà umana, la convinzione di un destino comune.        In Limelighttornano a rivivere, nella loro piena luce, questi sentimenti perenni – e si direbbe meglio queste conquiste dell’umanità nel suo cammino – che, avviliti prima dalla retorica e dalla ipocrisia, erano stati espulsi e messi in forse nell’arte squallida ed amara dei nostri tempi; questi sentimenti che oggi sono oggetto della        offensiva più tenace e rabbiosa (quanto non fa questa società per sradicare, sin nell’età più tenera, sin nel fanciullo, la fiducia nell’amore, per convincerlo, tappa a tappa, pazientemente, che la vita è  azzannarsi, che la legge ineluttabile è la guerra e la prepotenza, che la fortuna e la felicità è nel calpestare e nell’offendere!).

Quei temi erano sempre stati nell’opera di Chaplin: ma altrove servivano a denunciare l’offesa che ad essi veniva fatta da questa società, erano la luce che serviva a dare rilievo alla grande ombra. In Limelight la bat­taglia è ingaggiata in pieno, esplicitamente, e Chaplin si mette a raccontare la difficile, contrastata vittoria di questo mondo positivo di solidarietà e di amore. L’ottimismo di Limelight non è figlio d’ingenui entusiasmi, di illusioni, di sogni puerili. La malinconia, lo scora­mento, la tragedia – lo abbiamo detto – non sono estra­nei aLimelight. E’ attraverso lagrime, errori e sconforti che Calvero impara e comprende: allora può mettersi anche a fare il pagliaccio di strada e tendere il cappello ai passanti. Quello che conta è altro.

Per queste ragioni Limelight, imperfetto com’è, ci è­ però caro: perché, nei suoi momenti felici, riporta nella

luce e nella verità dell’arte quella parte così grande e decisiva dell’uomo, che era stata denigrata e dispersa, e ci riporge un uomo e una donna con intiere le loro ­forze e la loro ricchezza. Esso si sforza di ridare pie­nezza alla storia dell’uomo, che era stata mutilata.

Qualcuno ha ricordato Shakespeare e Moliere, altri ha detto che Limelight è il capolavoro di Chaplin. Non so se sia vero; non credo. Il mondo positivo, il mondo della giustizia e della solidarietà, si afferma attraverso, lotte ­complicate, contrasti giganteschi, sommovimenti di mi­lioni di uomini, che ancora appaiono confusi, oscuri, lontani a tanti degli artisti di questo crepuscolo.

Così in Limelight ciò vive a brani, costretto in una storia individuale, isolato in un contorno che è ancora di maniera e a volte persino privo della icasticità pun­gente, che trovammo in altre opere di Chaplin. Ma que­sti brandelli di un mondo nuovo hanno un significato, oggi, nella storia del cinematografo e nel panorama tormentato dell’arte in Occidente. Essi sono una parteci­pazione coraggiosa alla lotta, che crede nell’uomo e­difende la dignità dell’uomo e il suo domani.

Delle altre questioni che un film come Limelight sug­gerisce una ne vogliamo ricordare: la semplicità dei mezzi di cui Chaplin si serve. Assistiamo a tanti imbro­gli e mistificazioni; siamo soffocati dalle astruserie fatte ­passare per intelligenza. Perciò la semplicità classica della recitazione e della inquadratura, la chiarezza cri­stallina del racconto; il rifiuto alla frode e al trucco anche quando la fantasia non sorregge a pieno, questa onestà insomma di Limelight ci è pur’essa cara e ci ristora.

“Rinascita”, n. 12, dicembre 1952

 La realtà e le formule

  Caro Direttore,

permettimi di intervenire nella discussione sul film di Cayatte Prima del diluvio. Dico subito che sono d’accordo con Chiarini e non mi convincono le obiezioni di Borsellino.

Non nego a Cayatte il merito di aver tentato un film sulla psicosi di guerra, di essersi mosso cioè verso quella “rappresentazione degli aspetti più storicamente imponenti e più umanamente drammatici dei nostri anni”, che il Borsellino cita dal programma del Contemporaneo come canone per salvare Cayatte e il suo film. Ma un giudizio critico non può arrestarsi alle intenzioni. Insomma, Cayatte è riuscito o no a quella “rappresentazione”? E quale “rappresentazione” ci ha dato?

I giovani, che fanno da protagonisti nel film di Cayatte, puzzano di letteratura lontano un miglio. Che ha da spartire quella stanza-rifugio, dove i ragazzi sognano l’idilliaca pace di isole esotiche, con la realtà storica dei nostri tempi, con i crudi drammi e le illusioni della nostra gioventù? Diciamo la verità: è una scena di cartapesta in cui si atteggiano pupazzi. Si veda l’episodio dell’uccisione del ragazzo ebreo: quale coerenza psicologica, quale nesso convincente con la vicenda sia pure tetra, penosa, narrata sino a quel punto? Ma no: quei ragazzi impazziscono improvvisamente sullo schermo. Noi soltanto vediamo che uccidono orribilmente; ma non riusciamo a comprendere perché uccidono, e in quel modo orribile: il regista non ce lo fa scoprire, impegnato com’è a sottolineare l’orrore esterno, l’effetto.

Quel delitto è al centro del film. Ma così come è narrato, esso non nasce dalla psicosi di guerra, bensì dalla buaggine e dai vizi di quei genitori, niente affatto esemplari. Questo dopo che nella storia del cinema c’è stato Monsier Verdoux. Scherziamo?  La borghesia francese deve essere ridotta assai a mal partito, se si ha avuto paura di un simile “atto d’accusa”.

Io sono comunista e dovrei compiacermi che il giovane comunista, nel film, fa la figura migliore di tutti. Senonchè quel giovane non è un personaggio, ma una povera formula. I giovani comunisti dei nostri tempi  non mancano talvolta di settarismo, di infantilità, che sono anche astrattezza, ardore giovanile; e chiunque un po’ li conosca, non fatica a scoprirlo. Ma quel settarismo e quella astrattezza sono qualcosa di assai più complesso, vario, contraddittorio, umano, delle reazioni meccaniche, freddamente uguali, irreali, cui Cayatte dalla prima all’ultima sequenza costringe il suo eroe. Se Cayatte ha ambizioni di storico o di cronista, si metta a studiare seriamente la realtà e i tipi che vuole narrare. A che serve, altrimenti, quel manichino? Che mi svela? Che chiarezza, quale commozione mi reca? Semmai, il succo che ne ricavo è che coloro i quali si occupano di politica sono dei ciechi e dei cretini, e farebbero meglio a controllare l’ora in cui rientrano a casa i figli. Qualunquismo da strapazzo: su questa strada L’Onorevole Angelina era assai meglio e diceva qualcosa di serio.

E tutto il film è pervaso da scarso amore, da assenza di rispetto verso l’umanità: non a caso manca nella storia di Cayatte una presenza positiva. Non chiedo l’apologetica; chiedo all’artista umiltà, sforzo di comprensione dinanzi alla ricchezza della vita umana. Non mi preoccupo di fini didascalici, di propaganda; resto deluso per la schematicità, per l’assenza di capacità fantastica, che sappia scoprire e rappresentare. Non è questo l’esempio dei grandi maestri del realismo, da Tolstoi, a Maupassant, a Verga.

E vengo così alla cosa che più mi preme. Chiarini ha respinto il film di Cayatte; Chiarini – dice Borsellino – ha dato una “mano d’aiuto a coloro che si sono sentiti colpiti dalle accuse di Cayatte”, minimizzando un dibattito che potrebbe essere particolarmente fruttuoso per noi in Italia. E perché? Quale dibattito serio, giovevole sarebbe quello che si limitasse a giudicare un’opera dal mero tema, rinunciando a vagliare la coerenza interna dell’opera, la sua aderenza alla realtà storica?

Ad un certo punto in Italia, c’è stata una discussione sul film realistico italiano e sui suoi limiti; sul film realistico italiano, che pure, partendo a volte da temi esteriormente assai più dimessi, tanto più ha recato nella conoscenza della nostra epoca, e come umile adesione ai drammi e ai problemi del nostro tempo. Credo che quella discussione sia stata un gran bene, anche se contemporaneamente gli oscurantisti tipo Andreotti muovevano all’attacco del film realistico. Se il nemico attacca il nostro fronte, non per questo rinunceremo a discutere coraggiosamente la disposizione delle nostre forze, la nostra strategia e la nostra tattica: anzi tale coraggio è l’unica via per la vittoria; e una battaglia culturale non si è mai fatta senza una critica interna. Questo vuol dire che noi, certamente, non tratteremo Cayatte da nemico, ma non per questo rinunceremo a giudicarlo, e a condannarlo là dove sbaglia. Ormai dovremmo saperlo: le alleanze culturali non si fanno con i silenzi compiacenti.

Anzi: la battaglia per la cultura moderna, che il Contemporaneo ha preso a sua bandiera, la battaglia per il realismo hanno bisogno, secondo me, assai più che nel passato, di spregiudicatezza, che dissipi equivoci e spazzi via certe superficialità proprio perché siamo andati avanti nell’approfondimento delle nostre ragioni. Lascar passare tranquillamente merce di frodo, celare limiti e insufficienze – questo sì sarebbe dare una “mano d’aiuto” agli oscurantisti, i quali vogliono spacciare la lotta per il realismo come l’adorazione di freddi schemi socializzanti, come una nuova retorica, quando essa invece è lotta per una conoscenza critica e moderna della realtà, che aiuti il nuovo mondo a nascere e a vincere sul passato.

Grazie dell’ospitalità

 

(“Il Contemporaneo”, 3 luglio 1954)

Pietro Ingrao

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Pietro Ingrao
PietroIngrao.jpg

Presidente della Camera dei deputati
Durata mandato 5 luglio 1976 –
19 giugno 1979
Predecessore Sandro Pertini
Successore Nilde Iotti

Dati generali
Partito politico PCI (1946-1991)
PDS (1991-1993)
PRC (1996-2009)
on. Pietro Ingrao
Bandiera italiana
Parlamento italiano
Camera dei deputati
Ingrao durante il discorso di insediamento come Presidente della Camera dei deputati a Montecitorio

Ingrao durante il discorso di insediamento come Presidente della Camera dei deputati a Montecitorio

Luogo nascita Lenola (LT)
Data nascita 30 marzo 1915 (99 anni)
Titolo di studio laurea in giursprudenza e in lettere e filosofia
Professione giornalista pubblicista
Partito PCI (1948-1991), PDS (1991-1992)
Legislatura IIIIIIIVVVIVIIVIII,IXX
Gruppo PCI (1948-1991), Gruppo Comunista – PDS (1991-1992)
Coalizione FDP (1948-1963),Compromesso storico (1970-1980)
Incarichi parlamentari
IV Legislatura:

  • Presidente del gruppo parlamentare del PCI (1964-1968)

V Legislatura:

  • Presidente del gruppo parlamentare del PCI (1968-1972)

VI Legislatura:

  • Vicepresidente della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana (1972-1976)

VII Legislatura: Presidente della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana (1976-1979)

Pagina istituzionale

Pietro Ingrao (Lenola30 marzo 1915) è un politicogiornalista e partigiano italiano. Storico esponente dell’ala sinistra del Partito Comunista Italiano, fu direttore de l’Unità dal 1947 al 1957 e Presidente della Camera dei deputati dal 1976 al 1979.

 

 

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Nipote di Francesco Ingrao, Pietro Ingrao nasce nel piccolo paese di Lenola (al tempo nella provincia di Terra di Lavoro in Campania, oggi in provincia di Latina), da una famiglia di proprietari terrieri originari di Grotte, piccolo paesino, in provincia di Agrigento in Sicilia. Frequenta il ginnasio a Santa Maria Capua Vetere e il liceo a Formia dove conosce gli insegnanti Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo che ne influenzeranno profondamente la formazione. Iniziata la sua attività anti-fascista nel 1939 (ma fu in precedenza iscritto al Gruppo Universitario Fascista, vincendo un Littoriale della cultura e dell’arte[1]), aderì al Partito Comunista Italianonel 1940 e partecipò attivamente alla Resistenza partigiana.

Al termine della seconda guerra mondiale fu il riferimento indiscusso di un’area all’interno del PCI schierata su posizioni marxiste creative, molto attente ai movimenti della società. Rappresentò quindi l’ala “sinistra” del partito (ciò, tuttavia, non gli impedì di votare a favore dell’espulsione dei dissidenti di sinistra, a lui molto vicini, che si raccoglievano intorno al mensile Il manifesto, che sarebbe di lì a poco diventato il quotidiano il manifesto). Ebbe spesso profondi scontri politici con Giorgio Amendola, che invece guidava l’ala “destra”. Ininterrottamente deputato dal 27 settembre 1950, quando subentrò al mandato del collega Domenico Emanuellideceduto prematuramente[2] e il 1992, fu direttore del quotidiano l’Unità dall’11 febbraio 1947 al 15 gennaio 1957.

In seguito entrò nel comitato centrale del partito e fu il primo comunista a presiedere la Camera dei deputati dal 1976 al 1979. Sposato con Laura Lombardo Radice (19132003), ha cinque figli: Chiara, Renata, Bruna, Celeste e Guido. Fra il 1989 e il 1991 fu tra i massimi oppositori della svolta della Bolognina che portò allo scioglimento del PCI. Ingrao aderì comunque al Partito Democratico della Sinistra dove coordinò l’area deiComunisti Democratici fino al 15 maggio 1993, quando annunciò l’addio al PDS[3]. In seguito è stato un indipendente vicino al Partito della Rifondazione Comunista dal 1996[4], organizzazione alla quale aderirà formalmente solo il 3 marzo 2005[5].

Ancora alle elezioni europee del 2009 invitava a votare la Lista Anticapitalista[6], ma nel marzo 2010 dichiara di votare per Emma Bonino e Nichi Vendola, candidati alla presidenza rispettivamente della Regione Lazio e della Regione Puglia[7]. Nella sua vita Pietro Ingrao ha scritto poesie e saggi politici. La sua opera più importante è, secondo il giudizio della maggior parte dei critici, Appuntamenti di fine secolo, pubblicata nel 1995 grazie alla collaborazione con Rossana Rossanda. Il 20 ottobre 2007 Pietro Ingrao ha portato il suo saluto alla manifestazione di piazza San Giovanni in Laterano (Roma) organizzata dalla sinistra radicale contro il precariato e per i diritti dei lavoratori. È uno dei primi firmatari dell’appello per la manifestazione.

Nel 2011 scrive Indignarsi non basta, risposta a Indignatevi! di Stéphane Hessel, appello a non cadere nel disinteresse per la politica. Ingrao si è sempre dichiarato ateo, ma ha manifestato in molte occasioni profondo interesse per le domande spirituali e per le esperienze religiose altrui più intense e coerenti[8]. In vista delle elezioni politiche del 2013, dichiara di votare per Sinistra Ecologia Libertà di Vendola, che per Ingrao è l’unica forza unitaria della sinistra che può ambire a governare il paese ed essere protagonista di un cambiamento reale[9]. Nel 2014 crea un sito internet a lui intestato per offrire una sintesi della sua carriera politica e continuare a comunicare coi simpatizzanti.

Onorificenze[modifica | modifica wikitesto]

Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
  — Roma, 24 giugno 1996[10]

Opere[modifica | modifica wikitesto]

  • Masse e potere, Roma, Editori Riuniti, 1977.
  • Crisi e terza via, intervista di Romano Ledda, Roma, Editori Riuniti, 1978.
  • Parlamento, regioni, Mezzogiorno. Atti del Convegno presieduto da Pietro Ingrao, Reggio Calabria, Casa del libro, 1980.
  • Discorso sul governo Spadolini e sulla lotta per l’alternativa democratica, Roma, Grafica editrice romana, 1981.
  • Tradizione e progetto, Bari, De Donato, 1982.
  • I poteri si rifondano: quale risposta?, in L’alternativa: culture politiche del Pci alla prova, Roma, Editori riuniti riviste, 1986.
  • Il dubbio dei vincitori. Poesie, Milano, A. Mondadori, 1986.
  • Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Roma, Editori Riuniti, 1990. ISBN 88-359-3415-X.
  • Interventi sul campo, Napoli, CUEN, 1990. ISBN 88-7146-136-3.
  • L’alta febbre del fare, Milano, A. Mondadori, 1994. ISBN 88-04-38149-3.
  • Appuntamenti di fine secolo, con Rossana Rossanda, Roma, Manifestolibri, 1995. ISBN 88-7285-089-4.
  • Variazioni serali, Milano, Il Saggiatore, 2000. ISBN 88-428-0872-5.
  • Parti, Osnago, Pulcinoelefante, 2001.
  • La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi, Bari, Dedalo, 2003. ISBN 88-220-5337-0.
  • Non ci sto! Appunti per un mondo migliore, con Alex Zanotelli, San Cesario di Lecce, Manni, 2003. ISBN 88-8176-357-5.
  • Una lettera di Pietro Ingrao. Con una risposta di Goffredo Bettini, Fiesole, Cadmo, 2005. ISBN 88-7923-326-2.
  • Mi sono molto divertito. Scritti sul cinema (1936-2003), Roma, Centro sperimentale di cinematografia, 2006.
  • Volevo la luna, Torino, Einaudi, 2006. ISBN 88-06-17990-X.
  • La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri, San Cesario di Lecce, Manni, 2007. ISBN 978-88-8176-977-3.
  • Indignarsi non basta. Con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, Aliberti editore, 2011. ISBN 978-88-7424-785-1

Note[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Antonio GaldoPietro Ingrao. Il compagno disarmato, Milano, Sperling & Kupfer, 2004. ISBN 88-200-3732-7.
  • Cerimonia in onore dei 90 anni di Pietro Ingrao. Palazzo Montecitorio, 31 marzo 2005, Roma, Camera dei Deputati, 2005.
  • Alberto Olivetti, Nove ritratti di Pietro Ingrao. Nell’estate del 1984, Milano, Silvana, 2005. ISBN 88-8215-898-5.
  • Lorenzo Benadusi e Giovanni Cerchia (a cura di), L’archivio di Pietro Ingrao. Guida alle carte del Centro di studi e iniziative per la Riforma dello Stato, Roma, Ediesse, 2006. ISBN 88-230-1114-0.

Film su Pietro Ingrao[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Predecessore Presidente della Camera dei deputati Successore Emblem of Italy.svg
Sandro Pertini 5 luglio 1976 – 19 giugno 1979 Nilde Iotti  
[mostra]

V · D · M

Presidenti della Camera dei deputati

Predecessore Direttore de l’Unità Successore L'Unità logo trasparente.png
Mario Montagnana 11 febbraio 1947 – 15 gennaio 1957 Alfredo Reichlin  
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UE

Un asse Londra-Berlino contro la libera circolazione dei cittadini UE

Regno Unito  e Germania vogliono entrambi introdurre un maggiore controllo all’accesso dei migranti ai servizi sociali e sanitari europei, secondo il deputato tedesco Stephan Mayer, che era a Londra in questi giorni per sostenere la campagna contro il cosiddetto “turismo sociale” in Europa.

In una conferenza organizzata alcuni giorni fa a Londra dal think tank Open Europe, il deputato CSU Stephan Mayer, membro della Commissione per gli affari interni del Bundestag e portavoce della CSU della Baviera, ha detto che i fatti dimostrano una vera e propria crescita del problema degli abusi del sistema sociale da parte dei migranti europei. Siamo favorevoli all’immigrazione verso il mercato del lavoro – ha affermato Stephan Mayer – ma siamo contro l’immigrazione verso i centri per l’impiego.

Secondo Mayer, i migranti provenienti dall’Europa meridionale e orientale hanno svolto un ruolo fondamentale per l’economia tedesca. Tuttavia, l’immigrazione è diventata una priorità nell’agenda politica tedesca dal momento in cui il paese è oggetto ormai di una migrazione netta di oltre 400.000 persone l’anno.

L’introduzione di controlli più severi in materia di accesso alle prestazioni sociali per gli immigrati europei sembra quindi una prospettiva sempre più vicina, e potrebbe svolgere un ruolo chiave nella rinegoziazione dell’adesione del Regno Unito all’Unione europea. Il premier britannico David Cameron ha annunciato infatti che, se vincerà le elezioni di maggio, i termini di adesione del suo paese all’Unione europea saranno rinegoziati, e che un referendum sarà indetto su questo entro il 2017. L’immigrazione sarà probabilmente un tema chiave.

A Londra anche il primo vice-presidente della Commissione, l’olandese Frans Timmermans, secondo il quale il sostegno pubblico alla libertà di circolazione potrebbe essere compromesso se questa venisse percepita come una minaccia per i sistemi sociali nazionali.

Berlino e la Commissione europea hanno assicurato che il principio della libera circolazione in quanto tale non sarà toccato. Diffiile da credre, quando soltanto pochi giorni lo stesso Timmermans ha affermato che l’accesso al lavoro e l’accesso alla sicurezza sociale sono due cose diverse, sostenendo così a tutti gli effetti l’idea avanzata dal Regno Unito, secondo cui l’accesso al welfare nazionale dovrebbe applicarsi solo ai cittadini del singolo paese, e non tutti i cittadini europei.

Il Ministro degli Affari Esteri della Lettonia, che attualmente detiene la presidenza di turno dell’UE, ha tuttavia suggerito che dei cambiamenti possono essere effettuati nel contesto della politica interna degli Stati membri.

I conservatori britannici insistono, dal canto loro, affinché gli immigrati europei siano esclusi dalle prestazioni legate al lavoro, ad esempio la disoccupazione, durante i primi quattro anni di residenza nel Regno Unito. Vogliono anche porre fine agli assegni familiari percepiti dai lavoratori europei i cui figli a carico vivano al di fuori del Regno Unito.  Il tedesco Stephan Mayer ha sostenuto tali posizioni: Sono d’accordo – ha detto  – ad attribuire gli assegni familiari a seconda del paese in cui risiedono i figli.

Detto così, sembrerebbe che le misure richieste da Regno Unito e Germania siano solo, come dire, dei piccoli aggiustamenti. In realtà esse mettono in discussione i pilastri della libera circolazione delle persone, e quindi dell’intero progetto europeo.

Ad esempio, il principio della “parità di trattamento” sancito dall’articolo 24 della direttiva sulla libera circolazione dei cittadini UE, o ancora, il principio secondo cui ogni persona ha diritto alle prestazioni familiari “anche per per i membri della famiglia residenti in un altro Stato membro” (art. 67 del regolamento UE 883/2004 sul coordinamento della sicurezza sociale).

Simili restrizioni erano del resto state già introdotte nel 2000 dal Lussemburgo, nei confronti degli studenti figli di lavoratori stranieri in Lussemburgo ma non residenti nel Granducato, fino a quando 600 di loro hanno introdotto nel 2012 un ricorso davanti al Tribunale amministrativo lussemburghese. Il risultato è stato che nel 2013 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ordinato il ritiro delle misure restrittive, dicendo per l’ennesima volta che i lavoratori migranti “godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali che i lavoratori nazionali” (art. 7.2 del regolamento UE 492/2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori).

E del resto, l’applicazione eventuale di simili regole restrittive avrebbe solo un effetto demagogico. Il reale impatto sulle finanze sarebbe infatti trascurabile: in Germania, dei 14 milioni di bambini aventi diritto alle prestazioni familiari, solo lo 0,6% vive all’estero. Tuttavia, questo può avere un impatto disastroso sulle famiglie dei migranti, come ad esempio i circa 144.000 lavoratori polacchi che vivono in Germania e hanno almeno un figlio a carico ancora residente in Polonia.

www.osservatorioinca.org

Pietro Ingrao

I 100 anni di Pietro Ingrao

La Fondazione Centro studi e iniziative per la Riforma  dello Stato – Archivio Pietro Ingrao, con l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica e il Patrocinio della Presidenza del Senato, della Presidenza della Camera dei Deputati, della Regione Lazio e di Roma Capitale,  organizzano un ricco programma di iniziative per la celebrazione de “I cento anni di Pietro Ingrao”, che ricorrono il 30 marzo 2015.

Oggi 27 marzo alle ore 11.30, presso la Sala Stampa di Montecitorio, conferenza stampa di presentazione del calendario degli eventi che avranno inizio il 31 marzo prossimo con il convegno ‘‘Perché la politica’’ alla presenza del Presidente della Repubblica  Sergio Mattarella e della Presidente della Camera Laura Boldrini.

Gli eventi avranno luogo a Roma tra aprile e maggio e vedranno anche il coinvolgimento della Casa editrice Ediesse che per l’occasione dà alle stampe due volumi “Per un ritratto di Pietro Ingrao” di Alberto Olivetti e “Coniugare al presente. L’Ottantanove e la fine del Pci (1989-1993)” a cura di Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti. Si allega il programma completo delle iniziative.  

Alla conferenza stampa partecipano Celeste Ingrao, Mario Tronti – Presidente Centro studi e iniziative per la Riforma  dello Stato (CRS), Walter Tocci – Direttore CRS, Maria Luisa Boccia – Comitato scientifico CRS, Alberto Olivetti – Comitato scientifico CRS.

Proposta di legge

Proposta di legge sulla Difesa civile non armata e non violenta

Il Sindaco di Genova Marco Doria ha aggiunto la sua firma alle oltre mille già raccolte in Liguria a sostegno di una proposta di Legge di Iniziativa Popolare per l’Istituzione di un Dipartimento della Difesa Civile non armata e nonviolenta promossa dalla Campagna nazionale Un’altra difesa è possibile.

Una firma quella del Sindaco della città Metropolitana che si va ad aggiungere a quelle di Sindaci di molte tra le maggiori città d’Italia, tra cui Milano e Napoli.

Il confronto con gli enti locali è uno dei principali obiettivi della campagna, anche perché la capacità di fare rete tra cittadini e tra questi e le istituzioni territoriali più prossime è uno dei fondamenti dell’idea di difesa civile che la campagna promuove. 
Il rafforzamento del tessuto di relazioni a livello locale sembra un passo essenziale per la costruzione di un nuovo modello di difesa; un modello diffuso e partecipativo, che sembra quello più adatto a garantire il diritto costituzionale alla sicurezza nei nuovi scenari di rischio che, come in Liguria sappiamo, sono sempre più intrecciati con la vita di tutti i giorni.
 
Si ricorda che ogni cittadino può recarsi a firmare presso il Municipio più vicino, oppure presso la Segreteria Generale del Comune di Genova a Palazzo Tursi, via Garibaldi 9, all’Anagrafe in Corso Torino.
Chi volesse ulteriori informazioni sulla campagna può visitare il sito www.difesacivilenonviolenta.org; per conoscere luoghi e orari dei banchetti o collaborare si può contattare il comitato all’indirizzo difesacivileliguria@gmail.com
 
In provincia di Genova il comitato raccoglie l’adesione al momento  da Arci, Auser, CGIL, Circolo culturale Aldo Moro, Legambiente, Libera, Movimento Nonviolento, Tavola della Pace Liguria. 

ULTIMISSIME EDILIZIA – COOPERATIVE27/03/2015

GIURISPRUDENZA

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 26 marzo 2015, n. 51COOPERATIVE

Lavoro e occupazione – Soci lavoratori di società cooperative – Pluralità di contratti collettivi della medesima categoria – Applicazione di trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria.

CORTE DI CASSAZIONE

SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 febbraio 2015, n. 2894COOPERATIVE, EDILIZIA

Previdenza – Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali – Indennità e rendita – Prestazioni economiche in caso di inabilità – Indennità giornaliera

TRIBUNALE

TRIBUNALE DI TORINO – Sentenza 10 marzo 2015COOPERATIVE, EDILIZIA

FIOM CGIL – Svolgimento dell’assemblea retribuita convocata dai component della RSU – Consenso negato – Antisindacabilità del comportamento datoriale – Accertamento

PRASSI

INPS

MESSAGGIO

INPS – Messaggio 26 marzo 2015, n. 2191COOPERATIVE, EDILIZIA

Avvio attività termale 2015. Trasmissione elenchi strutture convenzionate.

ULTIMISSIME LAVORO – FISCALE27/03/2015

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIO DI STATO

SENTENZA

CONSIGLIO DI STATO – Sentenza 05 marzo 2015, n. 1113LAVORO

Procedura di conferimento dell’incarico di responsabile amministrativo

CONSIGLIO DI STATO – Sentenza 26 marzo 2015, n. 1593LAVORO

Indennità integrativa speciale – Ore di lezione eccedenti le 18 settimanali

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA

CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 26 marzo 2015, n. 51LAVORO

Lavoro e occupazione – Soci lavoratori di società cooperative – Pluralità di contratti collettivi della medesima categoria – Applicazione di trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria.

CORTE DI CASSAZIONE

ORDINANZA

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 marzo 2015, n. 6054FISCALE

Tributi – Studi di settore – Attivazione del contradditorio – Accertamento emesso prima dello spirare del termine dilatorio – Legittimità

SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 febbraio 2015, n. 2894LAVORO

Previdenza – Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali – Indennità e rendita – Prestazioni economiche in caso di inabilità – Indennità giornaliera

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3044LAVORO, FISCALE

Professionisti – Previdenza – Geometri – Pensione di vecchiaia – Rivalutazione – Applicazione della misura ridotta di cui al regolamento della Cassa nazionale di previdenza e assistenza – Legittimità – Fondamento

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2015, n. 3670LAVORO, FISCALE

Avvocato e procuratore – Giudizi disciplinari – Procedimento – Impedimento dell’incolpato a comparire alla seduta disciplinare del Consiglio dell’ordine – Condizioni

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 febbraio 2015, n. 3758FISCALE

Tributi – Imposte sui redditi – Reddito d’impresa – Competenza – Amministratore dimissionario – Patto di non concorrenza – Corrispettivo – Deducibilità per cassa – Sussiste

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 marzo 2015, n. 5972FISCALE

Tributi – TIA – Controversie – Competenza della giurisdizione tributaria – Sussiste

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 marzo 2015, n. 5976FISCALE

Tributi – IRPEF – Componente negativo del reddito – Indeterminatezza – Prova – Onere – Incombenza – Debitore – Sussistenza

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 marzo 2015, n. 5985FISCALE

Tributi – Riscossione coattiva – Sanzioni amministrative – Cartella di pagamento – Omessa notifica atto presupposto – Omessa sottoscrizione della cartella – Illegittimità della cartella – Non sussiste

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 marzo 2015, n. 6116LAVORO

Lavoro – Insegnanti di sostegno – Programma di integrazione scolastica dei disabili – Asl – Compenso fisso mensile – Orario di lavoro predeterminato – Modalità proprie della subordinazione

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 marzo 2015, n. 6060FISCALE

Fallimento ed altre procedure concorsuali – Fallimento – Domanda per credito principale – Ammessa con rango privilegiato – Domanda per credito accessorio – Tardiva – Preclusione da giudicato – Non sussiste

CORTE DI GIUSTIZIA CE – UE

SENTENZA

CORTE DI GIUSTIZIA CE-UE – Sentenza 26 marzo 2015, n. C-499/13FISCALE

IVA – Principi di proporzionalità e di neutralità fiscale – Cessione di immobile nell’ambito di una vendita giudiziale al pubblico incanto – Assoggettamento ad imposta – Normativa nazionale che obbliga l’ufficiale giudiziario che esegue la vendita a calcolare e a versare l’IVA – Pagamento del prezzo di acquisto al Tribunale competente e necessità che l’IVA da versare sia trasferita da quest’ultimo all’ufficiale giudiziario – Responsabilità pecuniaria e penale dell’ufficiale giudiziario in caso di mancato versamento dell’IVA – Differenza tra il termine di diritto comune per il versamento dell’IVA da parte di un soggetto passivo e il termine imposto a tale ufficiale giudiziario – Impossibilità di detrarre l’IVA pagata a monte

TRIBUNALE

TRIBUNALE DI TORINO – Sentenza 10 marzo 2015LAVORO

FIOM CGIL – Svolgimento dell’assemblea retribuita convocata dai component della RSU – Consenso negato – Antisindacabilità del comportamento datoriale – Accertamento

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

SENTENZA

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE FRIULI VENEZIA GIULIA – Sentenza 27 febbraio 2015, n. 107LAVORO

Lavoro – Militare dell’esercito – Dipendenza da causa di servizio – Domanda – Correlazione tra la patologia e l’attività svolta – Accertamento

PRASSI

AGENZIA DELLE DOGANE

NOTA

AGENZIA DELLE DOGANE – Nota 20 marzo 2015, n. 31373FISCALE

Benefici sul gasolio per uso auto trazione utilizzato nel settore del trasporto – Invio telematico delle dichiarazioni – Primo trimestre 2015 – Disponibilità del software

AGENZIA DELLE DOGANE – Nota 24 marzo 2015, n. 37062FISCALE

Benefici sul gasolio per uso auto trazione utilizzato nel settore del trasporto – Rimborso sui quantitativi di prodotto consumati nel primo trimestre dell’anno 2015

AGENZIA DELLE ENTRATE

CIRCOLARE

AGENZIA DELLE ENTRATE – Circolare 26 marzo 2015, n. 13/ELAVORO, FISCALE

Articolo 1, comma 154, legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Legge stabilità 2015) – Contributo del cinque per mille dell’IRPEF esercizio finanziario 2015 e successivi

RISOLUZIONE

AGENZIA DELLE ENTRATE – Risoluzione 26 marzo 2015, n. 34/ELAVORO, FISCALE

Soppressione causali contributo “CCLS” e “CCSP”

INPS

MESSAGGIO

INPS – Messaggio 26 marzo 2015, n. 2190LAVORO

Decentramento autorizzazioni ai versamenti volontari nel Fondo ex – IPOST.

INPS – Messaggio 26 marzo 2015, n. 2191LAVORO

Avvio attività termale 2015. Trasmissione elenchi strutture convenzionate.

INPS – Messaggio 26 marzo 2015, n. 2194LAVORO, FISCALE

Gestione Artigiani e Commercianti – Avvisi Bonari rata con scadenza Febbraio 2015.

MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI

COMUNICATO

MINISTERO LAVORO E POLITICHE SOCIALI – Comunicato 26 marzo 2015LAVORO

Indennità di malattia per i lavoratori del trasporto pubblico locale – Comunicato relativo all’applicazione dell’art. 1, comma 273, legge 23/12/2005, n. 266. Anno di competenza 2014

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