Lavoro: Inca Cgil, tra finti autonomi e precari in Europa un esercito di “atipici”
Interinali, finti autonomi, contratti a “zero ore” o “mini job” con orario molto ridotto. Sono solo alcune delle molteplici forme di contratto di lavoro “atipico” (in Italia se ne contano dalle 19 alle 46, a seconda di chi esegue il calcolo) diffuse in Europa. Un “esercito” di lavoratori che con la crisi sono diventati sempre più precari: 9 milioni, stando ai dati Eurostat, coloro che hanno un contratto di durata inferiore a 6 mesi, di cui l’80% ha meno di 40 anni. A lanciare l’allarme è l’Inca, il patronato della Cgil, che ha promosso con altri partner sindacali europei (Cgil per l’Italia, Ces per l’Europa, Tuc per il Regno Unito, Fgtb per il Belgio, Dgb per la Germania, Ccoo per la Spagna) il progetto “Accessor” (acronimo di “Atypical Contracts and Crossborder European Social Security Obligations and Rigths”).
Secondo i dati di Eurofound, citati nel rapporto finale del progetto, già nel 2005 un lavoratore su quattro era impiegato con un contratto di lavoro atipico o molto atipico, o semplicemente senza contratto. E diversi studi, anche della Commissione europea, concordano sul fatto che durante la crisi questa dimensione del lavoro è sostanzialmente aumentata e che quindi l’occupazione sia complessivamente più precaria oggi che nel 2005 o nel 2007.
L’indagine Eurobarometro del 2009 indica che circa il 5% dei lavoratori nell’Europa a 27 ha svolto almeno un lavoro informale nel corso dell’ultimo anno. La European Labour Force Survey del 2012 ha riscontrato che la proporzione dei lavoratori part time, sotto-occupati involontari, ossia che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è aumentata fino a raggiungere il 21,4%, superando i nove milioni di lavoratori. “Ne consegue uno spreco di potenziale produttivo del lavoro e il fenomeno continua a crescere – avverte lo studio -. In Spagna, la percentuale di lavoratori part time che vorrebbero incrementare l’orario di lavoro è ormai del 54%”.
Negli 8 rapporti nazionali Accessor stilati dai singoli paesi, il lavoro atipico è dunque sinonimo di precarietà, di basse retribuzioni, di scarse coperture sociali ed è spesso associato all’occupazione femminile, anche se l’indagine denuncia una crescita del lavoro atipico nell’universo maschile. In Belgio, per esempio, la proporzione degli uomini con contratto part time, pur rappresentando meno di un decimo di tutti i lavoratori a tempo parziale, è quasi raddoppiata tra il 1999 e il 2010. In Germania, il numero di impieghi a salario basso è cresciuto dal 17,7% nel 1995 al 23,1% nel 2010, ovvero un aumento del 30%.
Le tipologie di contratti atipici sono associate anche ai giovani lavoratori praticamente in tutti gli otto paesi oggetto dello studio, ma ne sono sempre più spesso vittime anche i lavoratori ultracinquantenni. In tutti gli otto paesi considerati, i contratti di lavoro atipico sono aumentati di numero negli ultimi vent’anni; a partire dall’Italia, dove quasi due contratti su tre stipulati negli ultimi anni sono stati per lavori a tempo determinato. In Svezia, il rapporto è di uno su sei (pari al 15% dell”occupazione totale), al punto che il contratto a tempo determinato è considerato quasi la regola.
In Francia, dagli anni ’80 i contratti a tempo determinato sono sestuplicati, i contratti tramite terzi e i tirocini sono quadruplicati. In Germania, un giovane lavoratore qualificato su cinque ha svolto almeno un tirocinio, nella metà dei casi senza remunerazione, nell’altra metà per un compenso che non garantiva la sussistenza. Circa nove milioni di lavoratori e lavoratrici tedeschi sono occupati con contratti atipici. In Belgio, ha avuto una esplosione il lavoro domestico a ore retribuito attraverso i cosiddetti “titres service”, in vigore dal 2004.
“Ufficialmente, tale sistema è stato creato per riportare all’interno di un quadro di legalità tutta una serie di lavori non dichiarati inerenti all’aiuto domestico; nei fatti, sta creando un ghetto nel mercato del lavoro, riservato soltanto alle donne immigrate”, si sottolinea.
In Svezia, i contratti di lavoro a chiamata (behovsanstallningar) e i contratti a ore (timanstallningar) non sono coperti dagli accordi collettivi, non seguono uno schema di lavoro, non danno la possibilità di pianificare la propria settimana e spesso neanche la propria giornata, e non portano praticamente mai a un impiego a tempo indeterminato.
Molto usati nel settore dei servizi e del commercio, la chiamata può avvenire tramite sms e il lavoratore deve essere sempre pronto. Hanno redditi bassi e precari quando lavorano, sono scarsamente coperti dai sistemi di sicurezza sociale quando restano disoccupati, perdono una parte dei loro diritti quando si spostano in un altro Stato Ue.
In pratica, sono discriminati non una, ma tre volte. I rapporti nazionali Accessor mettono in luce anche un altro aspetto del problema: i lavoratori atipici, sempre più mobili, si trovano a dover interagire nel corso della loro vita con molteplici e differenti sistemi nazionali di sicurezza sociale, ciascuno con le proprie regole di apertura dei diritti, spesso anch’esse per così dire atipiche e flessibili.
“Da un lato, le lavoratrici e i lavoratori con contratti atipici – sottolinea il rapporto – sono più degli altri spinti a migrare alla ricerca di migliori condizioni economiche e sociali in altri paesi; dall”altro, è proprio tra gli immigrati (comunitari e cittadini di paesi terzi) che le condizioni di lavoro atipico si presentano più frequentemente come unica opportunità di occupazione”.
Una situazione, avverte lo studio, che si pone “spesso fuori, o comunque ai limiti, degli schemi attorno a cui era stato costruito e strutturato il sistema europeo del coordinamento”.
“Il risultato paradossale -spiegano gli esperti dell’Inca, Sonia Mckai, Stefano Giubboni e Carlo Caldarini, che hanno curato lo studio – è che, avendo rinunciato, in nome del coordinamento, a qualsiasi forma di armonizzazione sociale dei sistemi nazionali di welfare, gli stessi principi del coordinamento oggi sono, di fatto, impraticabili a una schiera crescente di lavoratori atipici e precari, di cui non si conoscono esattamente dimensioni, caratteristiche e bisogni.
E anche la terza generazione di regolamenti sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, entrata in vigore nel 2010 (in nome della semplificazione e
della modernizzazione), non ha scalfito da questo punto di vista il problema, nonostante un periodo d”incubazione durato piu” di 7 anni”.
L’analisi Accessor, quindi, sintetizza i problemi che si pongono a diversi livelli, sulla base dei dati raccolti dagli otto rapporti nazionali. Il primo è quello della mancanza di copertura assicurativa: “E’ il problema – si legge nel rapporto – soprattutto dei contratti tipo mini-job, ossia senza obbligo contributivo o con coperture assicurative soltanto per alcune branche della sicurezza sociale. Questi contratti rendono ovviamente impossibile la totalizzazione dei periodi lavorativi in caso di esercizio della libera circolazione”.
Il secondo problema, la totalizzazione impossibile anche in presenza di contributi assicurativi: “La questione si manifesta – sottolinea lo studio – quando i periodi di assicurazione maturati in uno Stato membro non trovano corrispondenza nel regime assicurativo dell”altro Stato membro, a causa di limiti speciali stabiliti dall”ordinamento nazionale di uno dei due Stati. E’ il caso, soprattutto, di quei rapporti di lavoro la cui natura sia intermedia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo”.
Al terzo posto, l’impossibilità a esportare prestazioni di disoccupazione: “E’ conseguenza – si precisa – della tendenza, sempre più frequente, a proteggere i lavoratori con contratti atipici attraverso misure parziali e speciali, non contributive. Oltre alla oggettiva pauperizzazione che queste misure comportano, il problema si pone al momento in cui il lavoratore disoccupato, titolare di una prestazione di tipo non contributivo, volesse cercare una occupazione in un altro Stato membro”.
C’è poi, come quarto punto, la mancanza dei requisiti assicurativi minimi: “Un altro ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori atipici – si aggiunge – deriva dalla varietà dei requisiti assicurativi minimi per l’apertura del diritto a talune prestazioni.
In alcuni paesi, tali requisiti sono relativamente bassi, in altri sono elevati e complessi, quindi difficilmente raggiungibili per coloro che hanno lavorato in diversi paesi, con carriere parziali e frammentate”.
Infine, quinto problema rilevato, i metodi di calcolo delle prestazioni: “In alcuni casi, è il metodo stesso di calcolo delle prestazioni a svantaggiare le persone con periodi assicurativi (o di residenza) brevi, o per così dire incompleti, maturati in più paesi”.