Archivi giornalieri: 5 giugno 2013

Canne al vento di Grazia Deledda – Capitolo quindicesimo

Capitolo quindicesimo

  Se li tirò addietro per molto tempo.download.jpg
  Di festa in festa camminavano, o soli o in fila con altri mendicanti, come condannati diretti a un luogo di pena irraggiungibile.
  Le feste si rassomigliavano: le principali erano di primavera e di autunno, e si svolgevano attorno alle chiesette campestri solitarie, sui monti, sugli altipiani, sull’orlo delle valli. Allora, nel luogo tutto l’anno deserto, nei campi incolti e selvaggi, era come una improvvisa fioritura, un irrompere di vita e di gioia. I colori vivi dei costumi paesani, il rosso di scarlatto, il giallo delle bende, il cremis ardente dei grembiali, brillavano come macchie di fiori tra il verde dei lentischi e l’avorio delle stoppie.
  E dappertutto si beveva, si cantava, si ballava, si rissava. Efix, vestito anche lui come gli altri mendicanti, si portava addietro i due ciechi e gli sembrava fossero il suo destino stesso: il suo delitto e il suo castigo.
  Non li amava, ma li sopportava con infinita pazienza.
  Anch’essi non lo amavano ma erano gelosi l’uno dell’altro per le attenzioni di lui, e litigavano continuamente.
  In agosto e settembre fu un andare continuo, un correre affannoso. Dapprima salirono sul monte Orthobene, per la Festa del Redentore.
  Era d’agosto, la luna grande rossa sorgeva dal mare e illuminava i boschi. Di lassù, sì, Efix vedeva il suo Monte lontano; e passò la notte a pregare, sotto la croce nera che pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia. All’alba s’udì un salmodiare lontano; una processione salì dalla valle e in un attimo le rocce si coprirono di bianco e di rosso, i cespugli fiorirono di volti di fanciulli ridenti, e sotto gli elci i vecchi pastori s’inginocchiarono come Druidi convertiti.
  Sopra l’altare tagliato sulla viva pietra il calice scintillò al sole, e il Redentore parve indugiare prima di spiccare il volo dalla roccia, piantando la croce fra la terra grigia e il cielo azzurro. S’udì qualcuno piangere forte; era un mendicante fra due ciechi, dietro un cespuglio. Era Efix.
  In settembre salirono sul Monte Gonare. Il tempo era di nuovo brutto, sconvolto da violenti temporali: rivoli d’acqua torbida solcavano le chine, sotto i boschi contorti dal vento, e tutto il monte sussultava per il rombo dei tuoni. Ma i fedeli accorrevano egualmente; salivano da tutti i sentieri tortuosi, da tutte le strade serpeggianti, affluendo alla chiesetta come il sangue che dalle vene va su al cuore.
  Da una nicchia di pietre ove s’era rifugiato coi compagni Efix vedeva le figure passare fra la nebbia come sopra le nuvole, e la storia del Diluvio Universale che il cieco giovane raccontava gli sembrava la loro storia. Ecco, alcuni patriarchi s’erano salvati e si rifugiavano sul Monte: venivano su con le loro donne e i loro figli, ed erano tristi e lieti in pari tempo perché avevano tutto perduto e tutto salvato.
  Le donne specialmente guardavano dall’alto dei cavalli, dalla cornice dei loro scialli, coi grandi occhi smarriti eppure a tratti scintillanti di gioia: qualche cosa le spaventava, qualche cosa le rallegrava, forse il loro stesso spavento. E gridi lontani risuonavano fra la nebbia come nitriti di cavalli selvaggi in corsa col vento.
  Efix aveva sempre paura d’esser riconosciuto sebbene vestito da borghese e con la barba grigia ispida come una mezza maschera fatta di pelo d’asino: guardava le figure che passavano sul sentiero davanti a lui, se qualcuna gli era nota, e infatti d’improvviso si piegò chiudendo gli occhi come i bambini quando vogliono nascondersi.
  Un uomo un po’ abbandonato sopra un cavallo nero saliva lentamente, tutto ricoperto da un gabbano d’orbace foderato di scarlatto. Il vento sollevava le falde di questa specie di mantello spagnuolo e lasciava vedere la bisaccia ricamata e le grosse gambe del cavaliere con gli sproni lucidi come d’argento. Il cappuccio ombreggiava un viso bonario e sarcastico che si volse ai mendicanti e sogghignò lievemente mentre la mano gettava alcune monete.
  Efix riaprì gli occhi e piano piano si sollevò.
  «Sai chi è quello?», disse al cieco giovane. «E’ il mio padrone!»
  Cessata la pioggia i tre compagni ripresero a salire, silenziosi, curvi, come cercando qualche cosa smarrita nel sentiero; le nuvole correvano sopra le rocce e le macchie e gli alberi si contorcevano al vento, folli dal desiderio di staccarsi dalla terra e seguirle: il tuono rombava ancora, tutto era grande di agitazione e d’angoscia, ed Efix si sentiva preso dal turbine come una foglia secca.

  Presero posto accanto ad una delle croci che segnano il sentiero.
  Il vento passava impetuoso, ma sul tardi il sole apparve fra le nubi squarciandole e respingendole fino all’orizzonte, e tutto brillò attorno ai monti e alle valli ove la nebbia si raccolse in laghi argentei luminosi.
  I mendicanti si scaldavano al sole ed Efix raccoglieva le elemosine tremando a ogni rumore di passo per paura di rivedere don Predu; eppure di tanto in tanto sollevava la testa come ascoltando una voce lontana.
  Gli pareva d’essere ancora seduto davanti alla sua capanna nel poderetto, e sentiva il frusciare delle canne, ed era la voce del suo cuore che gli diceva:
  «Efix, se stai lì per vera penitenza, perché temi d’esser riconosciuto? Alzati quando passa il tuo padrone e salutalo».
  E d’improvviso un senso di gioia lo fece balzare, lo penetrò tutto come il sole che gli asciugava le vesti e scaldava le sue membra intirizzite: ecco, egli pensava di nuovo alle sue padrone, le amava ancora, e aspettava don Predu per domandar notizie di loro.
  Ma don Predu non scendeva.
  Veniva giù, dopo aver ascoltata la messa, una catena di fanciulle paesane belle come rose, l’una appresso l’altra strette ridenti.
  «Hai veduto quell’uomo grosso che s’e comunicato?», disse una. «E’ un nobile, un riccone, ammaliato.»
  «Sì, lo so. Lo ha fatto ammaliare una ragazza povera che egli doveva sposare e non ha sposato.»
  «Va’, e impiccati, Maria, che dici? Se lo ammaliava lo ammaliava per farsi sposare…»
  «E non mi spingere, per questo! Va’ a romperti il collo, Franzisca Bè!»
  Coi denti scintillanti nella bella bocca piena di male parole, passavano davanti ad Efix: qualcuna s’indugiava a gettare una monetina ai mendicanti e il vento sollevava i lembi del suo fazzoletto ricamato.
  Efix aspettava don Predu. Scendevano i patriarchi, le donne taciturne, i giovani dalle ginocchia elastiche, i piccoli pastori dagli occhi tristi di solitudine: don Predu non si vedeva.
  Efix aspettava. Ma dopo mezzogiorno la gente era già tutta ritornata alle capanne giù nella radura, e don Predu non era ancora passato.
  Allora Efix fece salire i compagni fino alla chiesetta davanti alla quale solo pochi giovani si aggrappavano alla roccia per guardare le corse dei barberi a mezza costa. Il vento pareva portarsi via lungo il sentiero laggiù, i cavalli lunghi montati da paesani incappucciati.
  Efix fece sedere i ciechi contro il muro ed entrò nella chiesetta avanzandosi in punta di piedi fino ai gradini dell’altare ove don Predu inginocchiato immobile pregava col viso sollevato, i capelli azzurrognoli nella penombra dorata dai ceri, una falda rossa del gabbano rivoltata, lo sprone al piede, simile in tutto ai Baroni in pellegrinaggio quali il servo li aveva veduti dipinti in qualche antico quadro della Basilica.
  Pregava assorto, ma quando Efix gli ebbe toccato lievemente il cappotto si volse dapprima sorpreso, poi violento, senza riconoscere il mendicante.
  «Al diavolo! Neanche qui lasciate in pace?»
  «Don Predu, padrone mio! Sono Efix, non mi riconosce?»
  Don Predu balzò sollevando le falde del gabbano quasi volesse abbracciare il suo servo: e si guardarono come due vecchi amici.
  «Ebbene? Ebbene?»download.jpg
  «Ebbene?»
  «Sì», disse don Predu riprendendosi per il primo, «Giacinto mi ha raccontato le tue prodezze, babbeo. E dunque, ti sei messo a fare un mestiere facile, poltronaccio! Bel mestiere, sì! Ecco, prendi!»
  Gli porse una moneta, ma Efix lo guardava negli occhi coi suoi occhi di cane fedele e sospirava senza offendersi.
  «Don Predu, padrone mio, mi dia notizie delle mie dame.»
  «Le tue dame? Chi le vede? Stanno chiuse nella loro tana come faine.»
  «E Giacinto?»
  «L’ho veduto a Nuoro, quel morto di fame. Perché non l’hai preso con te a chiedere l’elemosina? E adesso, sai cosa fa? Sposa quell’altra morta di fame, Grixenda, sì, stupido!»
  «E’ bene: lo aveva promesso», disse Efix, e di nuovo si sentì pieno di gioia. «Ecco fatta la grazia che lei chiedeva, padrone mio», pensava, e sorrideva agli improperi che don Predu, pentito del suo primo impeto di benevolenza, gli rivolgeva trattandolo da mendicante quale era.
  Dopo la Festa di San Cosma e Damiano di Mamojada, Efix e i ciechi andarono a Bitti per la Madonna del Miracolo. Prima di arrivare fecero tappa sopra Orune, ma sebbene stanco Efix non s’addormentò per paura che gli rubassero la bisaccia col gruzzolo raccolto nelle ultime feste. Pregava, tranquillo, socchiudendo ogni tanto gli occhi per guardare i suoi compagni addormentati sotto una quercia.
  Era notte ancora, ma un brivido di luce passava ad Oriente fra i monti che si aprivano verso il mare: l’alba si svegliava laggiù. Ed ecco Efix, vinto dal sonno, crede di non poter più sollevare le palpebre e di sognare: vede il vecchio cieco mettersi a sedere, protendersi in ascolto, appoggiare la mano al tronco della quercia, alzarsi e dopo un momento di esitazione accostarsi a lui e con la mano adunca tirar su la bisaccia come pescandola nell’ombra.
  Egli non si muove, non parla: e il vecchio se ne va, piano piano, su fra le macchie e le pietre, senza voltarsi, grande e nero sullo sfondo azzurro della montagna.
  Solo quando non lo vide più s’accorse di non aver sognato, e balzò in piedi, ma gli parve che una mano lo tirasse giù costringendolo a sedersi di nuovo, a stare immobile. E a poco a poco alla sorpresa seguì un impeto di gioia, un desiderio di ridere: e rise, e tutto intorno il cielo si colorì di azzurro e di rosa, e le cinzie cantarono fra le macchie.
  «Ecco», egli pensava. «E’ Dio che mi ha liberato di uno de’ miei compagni. Oh che peso mi ha tolto!»
  Svegliò l’altro dicendogli dell’accaduto.
  «Lo vedi? Efix, adesso sei convinto? Io lo sapevo, che fingeva. Non lo dissi subito? E tu te lo sei portato addietro, tu mi hai tormentato giorno e notte con lui. Adesso andremo a denunziarlo: lo cercheremo, gli pesteremo le ossa.»
  Efix sorrideva. Durante la festa fu quasi felice. Una folla com’egli non l’aveva ancora veduta riempiva la chiesa. il campo attorno, il sentiero che conduceva al paese. Una processione s’aggirava continuamente attorno al santuario, come un serpente rosso e bianco, giallo e nero: gli stendardi sventolavano simili a grandi farfalle, e canti corali, tintinnii di cavalli bardati per la corsa, grida di gioia si univano alle cantilene gravi dei pellegrini. Passavano donne coi capelli neri sciolti giù per le spalle come veli di lutto; seguivano uomini a capo scoperto, con un cero in mano, scalzi, polverosi come arrivassero dall’altra estremità del mondo: tutti avevano gli occhi pieni di domande e di speranza.
  E i cavalli pazienti salivano su per la strada carichi di gioia o di dolore: li cavalcavano giovani dal viso fiammante, gonfio di sangue, fanciulle pallide che nascondevano la passione come le brage sotto la cenere, e infermi, pazzi, indemoniati, tutti avevano gli occhi pieni di vita e di morte.
  Efix s’era messo un po’ discosto dalla chiesa, in un posto ove non molta gente passava. Il cieco non finiva di brontolare, fra una lamentazione e l’altra, e aveva un viso cupo, minaccioso.
  Verso sera – la raccolta era stata scarsa – diede sfogo alla sua ira, accusando Efix di aver ammazzato l’altro compagno per liberarsene e tenersi i denari.
  Efix sorrideva.
  «Vieni», disse, prendendolo per mano, e dopo aver camminato un poco: «senti?».
  Il cieco sentiva la voce dell’altro compagno, che lì davanti a loro domandava l’elemosina.
  «Adesso non farete come l’altra volta», disse Efix. «Se vi azzuffate e vi arrestano, io, in verità, me ne lavo le mani.»
  Allora il cieco vero si chinò sul cieco finto, e gli chiese a denti stretti, sottovoce:
  «Perché hai fatto questo, fariseo?».
  «Perché mi pare e piace.»
  Efix sorrideva. Il cieco vedeva questo sorriso e se ne esasperava: tutta la sua ira contro il compagno ladro si riversò sul compagno buono.
  «Io non voglio più venire con te: piuttosto mi butto per terra e mi lascio morire. Tu sei uno stupido, un buono a niente: tu vieni con me per divertirti e tormentarmi. Va’ e impiccati, va’ al più profondo dell’inferno.»
  «Tu parli così perché sai che non ti abbandono», disse Efix. «Tu sebbene cieco conosci me, ed io non conosco te sebbene ci veda. Ma se tu credi di poterti trovare un altro compagno fa’ pure. Ti aiuterò.»
  Il cieco finto ascoltava, con la bisaccia rubata stretta a se. Afferrò la mano di Istène e gli disse:
  «E rimani con me, diavolo!».
  Stettero così, con le mani unite, come Efix li aveva veduti uscire dalla caserma di Fonni, e pareva aspettassero ch’egli parlasse, sfidandolo un poco: trasse quindi l’involtino delle monete raccolte in quel giorno, e dopo averlo fatto dondolare davanti a loro, guardandoli e sorridendo, lo lasciò cadere in mano al cieco vero e se ne andò.
  Libero! Ma aveva l’impressione fisica di tirarsi ancora addietro i compagni, e si dava pensiero di loro.
  Camminò tutta la notte e tutto il giorno seguente, giù lungo la vallata dell’Isalle, finché arrivò al mare. Là si gettò a terra, fra due macchie di filirea, e gli parve d’esser tornato al suo paese dopo aver compiuto il giro del mondo.
  Ma nel sonno rivedeva il cieco, curvo su se stesso, con le labbra livide semiaperte sui denti ferini, e gli sembrava che lo deridesse e lo compiangesse.
  «Tu credi d’essere tornato e di riposarti. Vedrai, Efix; adesso comincia davvero il tuo cammino.»

  A misura che s’avvicinava al poderetto, risalendo lo stradone, sentiva un lamento di fisarmonica che gli pareva un’illusione delle sue orecchie abituate ai suoni delle feste.
  Tante cose lontane gli tornarono in mente: e tutte le foglie si agitavano intorno per salutarlo. Ecco la siepe, ecco il fiume, la collina, la capanna. Egli non era commosso, ma quel lamento dolce, velato, che pareva salire dalla quiete dell’acqua verdastra, lo attirava come un richiamo.
  Entrò, sollevò gli occhi e subito si accorse che il poderetto era mal coltivato. Pareva un luogo da cui fosse mancato il padrone: gli alberi erano già quasi tutti spogli dei loro frutti e qualche ramo stroncato pendeva qua e là.
  Zuannantoni, seduto sotto il pergolato davanti alla capanna, suonava la fisarmonica; e tutto intorno il motivo monotono si spandeva come un velo di sonno sul luogo desolato.
  Vedendo l’uomo sconosciuto che s’avanzava curvandosi per guardare dentro la capanna, il ragazzo smise di suonare, e i suoi occhi si fecero minacciosi.
  «Che volete?»
  L’uomo si tolse il berretto.
  «Zio Efix!», gridò il ragazzo, e riprese a suonare, parlando e ridendo nel medesimo tempo. «Ma non eravate morto? E chi diceva che eravate in America e diventato ricco, e che mandavate tanti denari alle vostre padrone. Adesso il guardiano qui, sono io: se voglio scacciarvi come un ladro posso farlo. Ma non lo faccio. Volete dell’uva? Prendetevela. Il mio padrone, don Predu, se ne infischia, di questo pezzo di terra: ne ha tanti altri, di poderi. Quello grande, di Badde Saliche, quello sì, ne dà prodotto. Le frutta di qui, il mio padrone le manda in regalo alle sue cugine, le vostre padrone: ma esse stanno sempre chiuse dentro come il riccio nella sua scorza. Oh, zio Efix, vi devo dire una cosa: l’altra notte – di notte sto chiuso nella capanna, perché ho paura degli spiriti, e sempre sento nonna raspare alla porta – l’altra notte che spavento! Ho sentito una cosa molle agitarsi intorno ai miei piedi. Ho gridato, ho sudato: ma poi all’alba mi accorsi che era una lepre ferita: sì, presa al laccio era riuscita a scappare e stava lì con la zampetta rotta e mi guardava con due occhi da cristiana. Gliel’ho fasciata, la zampetta; ma poi ha avuto la febbre; scottava fra le mie mani come un gomitolo di fuoco; e s’è fatta nera nera ed è morta.»
  Efix si era seduto davanti alla capanna guardando lontano.
  «Che ne dici tu», domandò gravemente. «don Predu mi ripiglierà al suo servizio?»
  Il ragazzo si fece minaccioso.
  «E allora dovrebbe scacciarmi? E io come faccio, allora? Grixenda si sposa e se ne va. E io cosa faccio, intanto? Vado a chiedere l’elemosina? No, andateci voi, che siete vecchio.»
  «Hai ragione», disse Efix, e chinò la testa. Ma la sua remissione gli rese benevolo il servetto.
  «Don Predu è così ricco che può prendervi lo stesso; vi può mandare negli altri poderi, perché a me piace star qui. Qui è un bel posto: lo dice anche Grixenda.»
  «Che fa Grixenda?»
  «Cucisce il suo vestito da sposa.»
  «Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è venuto in paese?»
  «Mio cognato», disse il ragazzo con orgoglio, «è venuto, sì, questo luglio scorso. Grixenda stava sempre male: un altro poco e la trovava morta. Sì, è venuto…»
  Tacque, col viso reclinato sulla fisarmonica, gli occhi gravi di ricordo.
  «Dimmi tutto; puoi dirmelo, Zuannantò. Io sono come di famiglia. »
  «Sì, ecco, vi dirò. Dunque Grixenda stava male; si consumava, come un lucignolo. Di notte aveva la febbre: s’alzava come una matta e diceva: voglio andare a Nuoro. Ma quando si trattava di aprir la porta non poteva. Capite: c’era fuori la nonna che spingeva la porta e le impediva di andare. Allora, una volta, sono andato io, a Nuoro. Ho trovato mio cognato, in un luogo che pare l’inferno: nel Molino. Gli dissi tutto. Allora egli domandò tre giorni di permesso e venne con me. Aveva preso un cavallo a nolo, perché costa meno della carrozza; e mi prese in groppa: era bello, andare così, pareva di esser giganti. Così ha chiesto Grixenda in moglie, e così per i Santi si sposano.»
  «A chi l’ha chiesta: in moglie?»
  «Non lo so; a lei stessa!»
  «Dimmi, Zuannantoni, don Giacinto è dalle sue zie, dalle mie padrone?»
  Il ragazzo esitò nuovamente.
  «Si», disse poi, «c’è stato. Credo che abbiano litigato perché venne fuori con gli occhi rossi, come avesse pianto; Grixenda lo guardava e rideva, ma stringeva i denti. Egli disse: questa e l’ultima volta che mi vedono.»
  Efix non fece altre domande. Passò la notte nella capanna e siccome era venuto su un gran vento e le canne del ciglione gemevano come anime in pena, destando paura al piccolo guardiano, egli cominciò a raccontare le storie della Bibbia, imitando l’accento del cieco.
  «Sì, c’era un re che con la scusa che gli alberi sono spiriti li faceva adorare e anche gli animali e persino il fuoco. Allora il vero Dio, offeso, fece sì che i servi di questo re diventassero così cattivi che congiurarono per uccidere il loro padrone. Sì, egli faceva adorare un Dio tutto d’oro: per questo è rimasto nel mondo tanto amore del denaro e i parenti, persino, uccidono i parenti, per il denaro. Persino le anime innocenti adorano il denaro.»
  Poi cominciò a descrivere il tempio e i palazzi del Re Salomone. Zuannantoni si addormentò ch’egli raccontava ancora. Fuori le canne dei ciglione frusciavano con tale violenza che pareva combattessero una battaglia.
  All’alba, uscendo dalla capanna Efix infatti ne vide centinaia pendere spezzate, con le lunghe foglie sparse per terra come spade rotte. E le superstiti, un poco sfrondate anch’esse, pareva si curvassero a guardare le compagne morte, accarezzandole con le loro foglie ferite.
  «Prendetevi dell’uva, zio Efix», gli disse il ragazzo, salutandolo pensieroso: «se don Predu vi rimanda qui son contento: così passeremo il tempo a contar le storie. E andate da Grixenda a salutarla».
  Ed ecco Efix che risale la strada verso il paese. L’alba è quasi fredda e le colline bianche sembrano coperte di neve. I monticelli sopra i paesetti sparsi per la pianura, dopo il Castello, fumano come carbonaie coperte: e tutto è silenzio e morto nel mattino roseo. Ma Efix ritrovava la sua anima, e gli sembrava di tornare alla casa del suo dolore come il figliol prodigo, dopo aver dissipato tutte le sue speranze.
  Andò dritto dall’usuraia, e rise accorgendosi che sebbene non lo riconoscesse subito ella lo accoglieva benevolmente credendolo uno straniero, un servo mandato da qualche proprietario per chiedere denaro.
  «Kallina, i corvi ti becchino, non mi riconosci? Anche tu sei diminuita, però.»
  Ella aveva le scarpette in mano; le lasciò cadere una dopo l’altra, poi si curvò a riprenderle.
  «Efix, vedi? Come io ti ho maledetto così sei andato! Hai persino mutato di vesti. Rammentati quando volevi massacrarmi.»
  «Sono sempre a tempo, se non smetti! Dimmi, come stai?»
  «Non troppo bene. Da qualche tempo ho sempre male di testa, e il dolore e l’insonnia mi hanno ridotta così, piccola, curva, come succhiata dal vampiro.»
  «E’ giusto!», pensava Efix; ma non lo disse.
  «E’ un male da cani, il male di testa, Efix mio. Ho persino promesso di andare in pellegrinaggio a San Francesco, adesso, in ottobre…»
  «Senti», disse Efix, che s’era seduto davanti al focolare e non accennava ad andarsene, «è inutile che tu vai in pellegrinaggio: se hai da far penitenza falla in casa tua.»
  «Io non ho da far penitenza! Se vado, vado per devozione. La mia anima è davanti a Dio, non davanti a un pari.»
  Egli abbassò la testa.
  «Senti», riprese, «io ho bisogno di vesti e di denari. Tu devi aiutarmi, Kallina: se vuoi tu puoi farlo. Io sono come il soldato ch’è stato in guerra: torno, ma non posso tenere queste vesti.»
  «Dimmi almeno, dove sei stato?»
  «Così, ho voluto un poco girare il mondo. Sono stato fino in Oriente, dove c’era il tempio e la casa del Re Salomone… questa casa era tutta d’oro, con le porte che avevano per pomi melagrane d’oro… e i piatti e i vasi erano d’oro e persino le chiavi e i pali per fermare le porte erano d’oro…»
  La donna lo guardava di sottocchi, mentre infilava i lacci nuovi alle sue scarpette senza buttar via i vecchi, che a legare qualche cosa ancora potevan servire. Perché egli parlava così, con un accento cadenzato da mendicante? Si burlava di lei, o aveva la febbre?
  «Efix, anima mia, il girare il mondo ti ha consumato le scarpe e il cervello!»
  Tuttavia gli prestò i denari.
  Egli però non se ne andò.
  «Non posso uscire così, presentarmi alle serve beffarde di don Predu. Bisogna che tu mi procuri le vesti. Va’: cosa pensi quando non dormi? Va’, va’, sei cristiana anche tu.»
  «Come, anch’io? Più cristiana di te, anima mia: io non ho mai lasciato la mia casa per correre il mondo da vecchia…»
  «Se non smetti prendo il palo, Kallì, bada!»
  Per tutto il giorno continuarono a insolentirsi, un po’ scherzando, un po’ sul serio: ma nel pomeriggio ella uscì e comprò un costume quasi nuovo da una donna il cui marito era andato in America.

  Verso sera Efix ritornò dalle sue padrone. Sì, verso sera, come dopo una giornata di libertà passata girovagando ozioso e scontento. Tutto era tranquillo e triste lassù; il Monte s’affacciava sopra la casa nera, sul cielo verdolino del crepuscolo, la luna nuova cadeva sopra il Monte, la stella della sera tremolava sopra la luna.
  Il portone era chiuso, l’erba cresceva lungo il muro e sugli scalini come davanti a una casa abbandonata: ed Efix ebbe paura a picchiare.
  Vide la porticina di Grixenda che brillava come un rettangolo d’oro sul muro nero, e ricordò l’incarico di Zuannantoni.
  Grixenda stava davanti alla fiammata ad asciugarsi le sottane bagnate. Era scalza e le sue gambe dritte luccicavano come fossero il bronzo. Vedendo l’uomo lasciò cadere le sottane e rise, gridando di gioia nel riconoscerlo.
  «Come, Grixenda! Tu vai ancora al fiume? Lo sposo te lo permette?»
  «E lui non lavora? E’ forse un signore, lui? Se fosse stato un signore io sarei sottoterra… Ebbene, non venite avanti? Sedetevi: vi pesa, quella bisaccia? E piena d’oro? Avete fatto fortuna, voi, zitto, zitto, maligno che siete!»
  Egli sedette e mise la bisaccia per terra, e guardava Grixenda, e Grixenda lo guardava maliziosa lasciandogli capire che sapeva la verità.
  «Ma anche noi, zio Efix, anche noi, io e Giacinto, qualche cosa faremo. Possiamo anche diventar ricchi, zio Efix; chi lo sa? Tutto è possibile nel mondo: io credo che tutto sia possibile.»
  «E non siete già ricchi? Chi più ricchi di voi?»
  Ella si chinò su di lui, graziosa e infantile come un tempo.
  «E’ questo che dicevo, sempre! Quando le vostre dame non volevano, che io e Giacinto ci sposassimo, perché io son povera, io dicevo: non son giovane? Non gli voglio bene? Forse che donna Noemi e don Predu, con tutta la loro roba, sono più ricchi di noi? Di anni, sì, se vogliono, non di altro!»
  Efix trasalì.
  «Si sposano?»
  «Si sposano, sì! Egli si consumava come mi consumavo io questa primavera scorsa. Dicevano ch’era ammaliato. Era ammaliato, sì! Malìa d’amore. Andò persino ad Oliena a consultare la fattucchiera. Ultimamente, la settimana scorsa, è andato alla Madonna di Gonare, in pellegrinaggio, ed ha fatto un’offerta di tre scudi, per ottenere il miracolo. Così dicono i maligni!»
  Efix guardava pensieroso per terra, fra le sue ginocchia.
  «Devo tornare?», si domandava. «Non crederanno sia il vento della buona fortuna che mi riporta?»
  E d’improvviso, per un attimo, gli dispiacque che Noemi avesse acconsentito prima ch’egli tornasse. Ma subito s’alzò pentito umiliato. Ah, com’era peccatore ancora!
  «Tu credi che don Predu sia là?», domandò volgendosi prima di uscire.
  «Io sono qui, non sono là, zio Efix!», disse Grixenda, correndogli appresso ridente; «e non posso neppure dire: vado a guardare perché le vostre padrone chiudono a doppio giro il portone quando mi vedono!»
  Egli andò; ma ancora una volta il suo cuore palpitava convulso, e gli parve che i colpi battuti al portone gli si ripercotessero dentro le viscere.

 


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precari scuola e sanità

Anief: 500mila precari nella scuola e nella sanità

Cresce inesorabilmente il numero di precari alle dipendenze dello Stato: secondo il “Rapporto sui diritti globali 2013”,     edito da Ediesse e curato dall’Associazione Società Informazione Onlus, a fronte di  3.315.580 lavoratori precari  italiani complessivi, oltre 1.110.000 appartengono al pubblico impiego e tra questi quasi la metà, oltre mezzo milione,    opera nei comparti della scuola e della sanità. Ma non è un caso, perché si tratta dei due settori dove in maniera più     marcata si disattende la direttiva 1999/70/CE, recepita in Italia attraverso l’art. 5, comma 4 bis del decreto legislativo     368/01, che indica ai datori di lavoro, quindi anche allo Stato, di stabilizzare i precari di vecchio corso.   

La linea di tendenza è stata ribadita di recente dal Governo Letta, il cui Consiglio dei Ministri  il 17 maggio scorso     ha approvato un decreto  ad hoc che proroga al 31 dicembre prossimo i contratti di lavoro subordinato a tempo     determinato di circa 100mila dipendenti pubblici, altrimenti in scadenza nel corso dell’estate. Escludendo però proprio     i lavoratori dei due ambiti professionali che conterrebbero maggiore precariato. Ora, è vero che i supplenti che     operano nella scuola e nella sanità comportano una selezione e delle esigenze particolari, ma è altrettanto vero che   non si può continuare ad escluderli da quei progetti che, seppure gradualmente, porteranno alla loro stabilizzazione.

“È evidente –  spiega Marcello Pacifico, presidente Anief e delegato Confedir per la scuola e i per quadri – che in Italia stiamo assistendo ad una procedura fuori dalla legge: mentre le direttive comunitarie ci chiedono di immettere     in ruolo tutti i lavoratori che operano, anche non continuativamente, da oltre 36 mesi, nel nostro Paese ci siamo     arrogati il diritto di introdurre delle deroghe nazionali. Ed ora ci ritroviamo con oltre mezzo milione di preziose figure     professionali – come gli insegnanti, i medici, gli infermieri, i tecnici e tanti altri specializzati – che anziché essere  immessi in ruolo si ritrovano a vivere nell’incertezza”.

Alla luce di questa discriminazione di trattamento, Anief ha avviato da diversi mesi un contenzioso per la loro     assunzione: l’obiettivo è vedere la “luce”, attraverso la loro assunzione in ruolo stabilita dal tribunale di giustizia     europeo, situato in Lussemburgo, dove dei giudici sovranazionali stanno valutando proprio la compatibilità delle norme derogatorie italiane. Un’espressione di cui potranno giovarsi, tra l’altro, non solo i docenti a tempo determinato     della scuola e del settore sanitario, ma anche tutti gli altri lavoratori precari del pubblico impiego.   

agricoltura

Agricoltura, i lavoratori sottopagati delle “cooperative senza terra”

Le chiamano “cooperative senza terra” e sono la nuova forma di caporalato nelle province di Brescia e Mantova. Il loro unico scopo è di reperire braccianti a basso costo per le grandi aziende agricole. Li trovano nei Paesi dell’est Europa, soprattutto in Romania e Polonia, perché essendo Paesi dell’Unione europea hanno meno difficoltà a varcare i confini dell’Italia. Ma anche dal Sudafrica, o dall’Asia. “Invece che pagare i lavoratori 80-90 euro come il contratto nazionale, le cooperative danno loro 25 euro”, spiega Fulvia Colombini, segretario regionale Cgil. Ma alle aziende agricole, denuncia la Cgil, interessano poco le condizioni di lavoro di chi sta nei campi. È sufficiente che le cooperative con cui stipulano un contratto offrano un prezzo basso, circa il 15-20 per cento meno del normale valore di mercato: “È un servizio “chiavi in mano”: queste cooperative trovano gli stagionali, li portano in Italia, li alloggiano e danno loro da mangiare. C’è una grossa responsabilità delle aziende, che si disinteressano di quello che accade prima del loro contratto”, aggiunge Colombini.

La Cgil lombarda illustra il problema nel corso di un convegno organizzato a Pavia dalla Camera del lavoro locale e il sindacato regionale, a cui partecipano anche Camera del lavoro di Brescia e Mantova e segreteria nazionale Cgil. Il sindacato propone di istituire dei tavoli provinciali con sindacati, Inail, Inps, amministrazioni locali e associazioni di imprenditori per rendere più efficienti ed efficaci i controlli. “Oggi la Provincia di Pavia si è data disponibile per cominciare”, continua Fulvia Colombini. L’accordo è stato raggiunto al termine di un convegno sul tema caporalato e legalità nell’agricoltura. Cgil vuole anche introdurre un marchio “legalità doc”, per valorizzare oltre alla qualità del prodotto anche la capacità dell’azienda di rispettare le regole del lavoro: “Vogliamo che diventi un incentivo per acquistare certi prodotti”, precisa Colombini.

Ma rintracciare le cooperative senza terra è un’impresa: “Rendono invisibile chi lavora con loro. Siamo riusciti a venire a capo della situazione solo grazie alla testimonianza diretta di alcune vittime di caporalato, ma ancora non ci sono dati in merito”, dichiara la segretaria regionale di Cgil Colombini. Perché il caporalato, in Lombardia, è una “forma organizzata”, sempre più infiltrato nel sistema agroalimentare. E finché ci sarà la connivenza di certe imprese ad accettare il lavoro solo a seconda del prezzo proposto e i controlli saranno così a singhiozzo, il sistema non avrà anticorpi per difendersi.

redattore sociale

Censis

Censis, italiani in fuga verso la sanità privata

Da tempo segnalata con preoccupazione, la fuga degli italiani dalla sanità pubblica è ora certificata. Le cifre sono state messe nero su bianco dal rapporto di Rbm Salute-Censis presentato ieri in occasione del Welfare Day, secondo il quale sono 12,2 milioni gli italiani che hanno deciso di rivolgersi alla sanità privata, a fronte dei ticket elevati e delle lunghe liste di attesa. Proprio queste ultime costituiscono la principale ragione del fenomeno, secondo il 61,6% degli intervistati.

Se l’odontoiatria si conferma la specialità in cui più spesso gli italiani si rivolgono a liberi professionisti (90%), il privato raccoglie anche il 57% delle visite gineco logiche e il 36% delle prestazioni di riabilitazione. Non è che il privato venga ritenuto conveniente, anzi: il 69% considera le parcelle elevate e anche l’intramoenia è cara per il 73% degli italiani. Tuttavia i ticket richiesti dal Ssn sono sempre meno competitivi e nel 27% dei casi allineano i prezzi alle prestazioni private; e nelle Regioni sottoposte a piani di rientro, la percentuale sale al 37%. Solo 41 italiani su cento ritengono giusto il prezzo del ticket, che viene invece bocciato dal 56% dei cittadini; particolarmente elevati sono quelli richiesti per le visite ortopediche (53%), l’ecografia dell’addome (52%), le visite ginecologiche (49%) e la colonscopia (45%).

Secondo il 41% degli italiani, la sanità pubblica copre solo le prestazioni essenziali; il 14% ritiene che la copertura pubblica sia insufficiente per sé e la propria famiglia, mentre il 45% la considera adeguata per le prestazioni di cui ha bisogno. Per garantirsi la copertura sanitaria, i fondi sanitari integrativi sono visti con sempre maggiore interesse. Sono già sei milioni le adesioni che, considerando i familiari, estendono l’offerta a undici milioni di assistiti. In media, un italiano su cinque sarebbe disposto a investire 600 euro al mese per un fondo sanitario integrativo che coprisse le spese per la salute. Il 52% dei cittadini è interessato soprattutto a una copertura per visite specialistiche e diagnostica ordinaria, mentre il maggior incentivo che potrebbe attrarli sarebbe un’assistenza medica per 24 ore 7 giorni alla settimana, citata dal 39% degli interpellati.

doctornews

Amianto

Amianto, in dieci anni patologie aumentate del 50%

Le patologie correlate all’amianto sono aumentate in 10 anni del 50% e in 5 anni del 18%. Nel 2011, infatti, in base all’ultimo Rapporto annuale dell’Inail sono state denunciate, ai fini del riconoscimento e dell’eventuale indennizzo, 2.250 patologie correlate all’amianto, pari al 5% delle 46.558 malattie professionali. Erano circa 1.900 nel 2006 e 1.500 circa nel 2001. A scattare la fotografia è l’Anmil.

Di amianto si continua a morire in Italia, e il picco di casi per il principale tumore causato dall’esposizione alla fibra killer, il mesotelioma maligno pleurico, è atteso entro il 2020 o 2025. I dati dell’emergenza sono ricordati nel testo del Piano nazionale amianto: secondo le stime il picco sarà di 800-1.000 morti l’anno tra gli uomini (tra il 2010 e il 2020 o il 2012 e il 2025), mentre mancano o sono imprecise le stime per le donne, per gli altri organi colpiti dal mesotelioma e per le altre malattie collegate all’amianto.

Dopo la fase ‘nera’ del boom di casi, seguirà un declino relativamente rapido, legato al fatto che a partire dal 1992 l’impiego dell’amianto è stato bandito nei nuovi manufatti. L’Italia, del resto, è stata fino alla fine degli anni ’80 il secondo maggiore produttore europeo di amianto dopo l’ex Unione Sovietica nonché uno dei maggiori utilizzatori. Nel Belpaese sono anche presenti e hanno causato esposizione umana fibre asbestosimili, come la fluoro-edenite, una fibra di origine naturale presente nell’area etnea e capace di indurre anch’essa il mesotelioma, e la balangeroite, individuata in talune rocce presenti nella miniera di Balangero (Torino).

E’ in questo quadro che si inserisce il Piano nazionale che elenca una serie di obiettivi (e azioni per concretizzarli), suddivisi in tre aree: tutela della salute, tutela dell’ambiente, aspetti di sicurezza del lavoro e previdenziali. Obiettivi urgenti, spiegano gli autori del piano, ricordando che ad oggi “sono stati mappati circa 34 mila siti interessati dalla presenza di amianto in 19 regioni, mentre Calabria e Sicilia non hanno trasmesso alcun dato”. I siti con rischio più elevato sono 380 (priorità 1), ma con il procedere della mappatura potrebbero in proiezione superare quota 500, spiegano gli esperti sottolineando la necessità di “completare la mappatura dell’amianto sul territorio nazionale”.

Gli esperti stilano una lista di azioni: rafforzare il controllo sull’assoluto rispetto dei divieti; mappare le situazioni di rischio; attivare interventi di messa in sicurezza e bonifica anche attraverso la previsione di risorse certe e adeguate; promuovere la ricerca su nuove tecniche per lo smaltimento dell’amianto. Nel piano si definiscono “carenti i dati sulle industrie, sulle scuole e sugli ospedali” e si parla di favorire “l’identificazione dei siti a maggior rischio anche con l’introduzione di nuove forme di incentivazione, ricorrendo per esempio a un sistema premiante”.

Parola d’ordine: continuità dei finanziamenti. E scelta delle priorità sul fronte bonifica: tra i circa 380 siti in classe di rischio 1 devono essere individuati, per l’appunto, quelli caratterizzati da più diffusa rilevanza sociale ed ambientale come ad esempio scuole, caserme ed ospedali in contesto urbano. Per gli interventi di messa in sicurezza di emergenza si può stimare “un fabbisogno immediato di alcune decine di milioni di euro”. Si pensa anche al coinvolgimento del ministero dell’Istruzione per mettere in atto e completare nell’arco temporale di 3-5 anni, in modo omogeneo a livello nazionale, i necessari interventi di bonifica degli edifici scolastici.

Ires

Ilva: è commissariamento!

Un commissario per la durata massima di 36 mesi, da nominare entro 7 giorni dall’approvazione del decreto.

E’ quanto prevede, secondo quanto spiegano fonti di governo, la bozza del provvedimento sull’Ilva che entra in Consiglio dei Ministri. Ci saranno due subcommissari, uno di nomina del ministero dello Sviluppo economico e uno di nomina del ministero dell”Ambiente. Il commissario “assume tutti i poteri degli organi amministrativi dell”impresa”.

Il commissario sarà nominato dal presidente del Consiglio, è scritto nel decreto a breve all’esame del cdm, entro 7 giorni dalla delibera del consiglio dei ministri, così come i due sub commissari e il comitato dei 5 esperti. 
Al commissario spettano ”tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell’impresa” ed ”è sospeso l’esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell’impresa, nonché  dei diritti connessi alla titolarità o al possesso delle quote o delle azioni”. I compensi omnicomprensivi del commissario straordinario, dei sub commissari  e dei componenti del comitato sono determinati rispettivamente, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ”in misura non superiore al trattamento economico annuo lordo  omnicomprensivo del primo Presidente della Corte di
Cassazione per il primo, alla metà di tale trattamento per i sub commissari,  e non superiore al 15% del predetto trattamento per i componenti del comitato”.

Ilva

Ilva: è commissariamento!

Un commissario per la durata massima di 36 mesi, da nominare entro 7 giorni dall’approvazione del decreto.

E’ quanto prevede, secondo quanto spiegano fonti di governo, la bozza del provvedimento sull’Ilva che entra in Consiglio dei Ministri. Ci saranno due subcommissari, uno di nomina del ministero dello Sviluppo economico e uno di nomina del ministero dell”Ambiente. Il commissario “assume tutti i poteri degli organi amministrativi dell”impresa”.

Il commissario sarà nominato dal presidente del Consiglio, è scritto nel decreto a breve all’esame del cdm, entro 7 giorni dalla delibera del consiglio dei ministri, così come i due sub commissari e il comitato dei 5 esperti. 
Al commissario spettano ”tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell’impresa” ed ”è sospeso l’esercizio dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell’impresa, nonché  dei diritti connessi alla titolarità o al possesso delle quote o delle azioni”. I compensi omnicomprensivi del commissario straordinario, dei sub commissari  e dei componenti del comitato sono determinati rispettivamente, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ”in misura non superiore al trattamento economico annuo lordo  omnicomprensivo del primo Presidente della Corte di
Cassazione per il primo, alla metà di tale trattamento per i sub commissari,  e non superiore al 15% del predetto trattamento per i componenti del comitato”.

Guarinello

Guariniello, troppe stragi sul lavoro dimenticate

”Sono entusiasta per questa sentenza ma nello stesso tempo mi arrabbio pensando a quante tragedie sul lavoro, con o senza l’amianto di mezzo, sono state dimenticate dalla giustizia”. Lo dice in un’intervista alla Stampa il pm Raffaele Guariniello commentando la sentenza d’appello del processo Eternit.

I 18 anni di carcere per Stephan Schmidheiny sono ”una pena inaudita – spiega Guariniello. – Merito di questo processo è di averla resa ragionevole”. ”Diciamo che è consuetudine che nelle corti d’appello si riducano le pene. Qui è stata aumentata per l’elevata capacità di delinquere di Schmidheiny,
la sua consapevolezza della pericolosità dell’amianto, per la stessa strategia di disinformazione messa in atto con le fabbriche aperte e proseguita dopo”.
Soddisfazione ma anche rabbia: ”A Torino – afferma il pm – e in altre città si fanno i processi sulla salute di lavoratori e cittadini mentre altrove non si sa nemmeno cosa sono questi processi. Non c’è la cultura, non c’è la specializzazione dei magistrati”. Non c’è stata solo l’Eternit a fare danni così gravi: ”in giro per l’Italia si costituiscono associazioni di
familiari delle vittime che non riescono ad avere giustizia.
L’ultimo caso di cui sono stato messo al corrente è quello di uno stabilimento campano, fra Salerno e Avellino, dove si smontavano vagoni ferroviari pieni di amianto. Cominciano ad esservi numerosi decessi fra i lavoratori di quello stabilimento e nessuno apre un’indagine”.

Intervistato anche da Repubblica il magistrato di Torino sottolinea che la sentenza Eternit è un modello per gli altri disastri ambientali. ”L’Italia oggi può essere soddisfatta della sua giustizia. Siamo riusciti a fare un processo che in nessun altro Paese al mondo sinora si è mai potuto fare”.

”Sul caso Ilva – intervistato dall’Ansa il magistrato dice – non conosco le carte, l’unica cosa di cui sono a conoscenza è una sentenza della Corte di Cassazione di aprile in cui si è data la conferma degli arresti domiciliari nei confronti di alcuni imputati e quello che ho potuto rilevare è che i reati che sono stati contestati dagli ottimi colleghi della Procura di Taranto sono tutti reati che sono anche al centro del processo Eternit”….    ”Questo vuol dire che abbiamo delle norme che possono essere di base per essere finalmente incisive – ha aggiunto – .Se non
si applicano, però, restano sulla carta e facciamo la figura di chi ha delle belle leggi di facciata, ma rimangono scritte sull’acqua”…..

Agricoltura

In agricoltura, sconti Inail sui premi dei lavoratori

Via libera agli sconti Inail sui premi dei lavoratori agricoli dipendenti. Le istanze possono essere presentate entro il 30 giugno p.v.. L’agevolazione prevede che l’Inail possa applicare una riduzione in misura non superiore al 20% dei contributi dovuti per l’assicurazione dei lavoratori agricoli entro il limite annuo di 20milioni di euro.

Al beneficio sono ammesse le aziende in regola con gli adempimenti contributivi e assicurativi che siano attive da almeno due anni, che abbiano adottato le misure per l’eliminazione delle fonti di rischio, che non abbiano registrato infortuni nel biennio precedente, che non siano destinatarie di provvedimenti sanzionatori.

La lista delle domande ammesse verrà, dopo il 30 giugno, tramessa all’Inps per i controlli in materia di regolarità contributiva e assicurativa, all’esito dei quali verrà effettuata la comunicazione in merito alla definitiva ammissione al beneficio.

Precariato

Sei precario e ti scappano i contributi? Senza i contributi previdenziali perdi i tuoi diritti: maternità, malattia, una tantum, pensione

Domani, 5 giugno, dalle 9 alle 13.30 saranno allestite delle postazioni presso le Università e le Pubbliche Amministrazioni per fornire consulenza gratuita ai lavoratori e alle lavoratrici iscritti/e alla Gestione separata Inps

E’ questo lo slogan scelto da Cgil, F.P., Flc, Nidil e Inca per promuovere la giornata di mobilitazione, a sostegno dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici iscritti/e alla Gestione separata Inps.

Il 5 giugno, dunque, dalle 9 alle 13.30, saranno allestite delle postazioni  presso le Università e le pubbliche amministrazioni maggiormente interessate al problema, secondo i dati Inps. Gli operatori di Inca, insieme ai sindacalisti di FP CGIL, NIDIL CGIL E FLC, offriranno una consulenza gratuita ai lavoratori e alle lavoratrici interessati, che saranno invitati a verificare il loro estratto conto Inps individuale, a richiedere eventuali integrazioni di contributi mancanti, rivendicare le prestazioni (quali l’indennità di maternità ecc.) rifiutate o non correttamente liquidate dall’Inps.
Le postazioni saranno allestite presso le Università di Roma (La Sapienza), Cagliari, Modena,  L’Aquila, Sassari, Brescia e Palermo nonché presso i Comuni di Napoli e di Livorno.
A Roma, gli operatori di patronato e i sindacalisti promotori della campagna saranno presenti anche al Ministero dell’Ambiente (Via Cristoforo Colombo), al Ministero per i beni e le attività culturali (Via del Collegio romano) e presso le ASL Roma C, in via  Primo Carnera 1 e ASL Roma H (Albano Laziale).

L’iniziativa nasce dall’allarme, già lanciato mesi fa dalla Cgil e dall’Inca, dopo alcune segnalazioni da parte di ricercatori e assegnisti di diverse Università, con contratti co.co.pro, ai quali l’Inps non ha accreditato correttamente i versamenti contributivi previdenziali, provocando loro non pochi disagi, a cominciare da indennità di maternità non riconosciute o riconosciute parzialmente e mettendo a rischio anche le loro aspettative pensionistiche.   
Il problema dei contributi scomparsi dei precari è già stato affrontato dall’Inca nel 2007, quando ad essere investiti erano alcuni lavoratori dell’Università Federico II di Napoli, ottenendo poi dall’Inps la modifica delle posizioni individuali.

Ma il problema è riemerso in modo più critico, dopo le recenti denunce pervenute alla Cgil di lavoratori e lavoratrici iscritti alla Gestione separata Inps, esclusi dai diritti perché il committente (la maggior parte Amministrazioni pubbliche) ha omesso, del tutto o solo parzialmente,  di effettuare i versamenti contributivi pur avendo operato, in molti casi, la trattenuta al lavoratore.  
Le organizzazioni sindacali promotrici della campagna, pur non potendo fare una stima di quanti siano i lavoratori e le lavoratrici coinvolti,  affermano che si tratti soprattutto di lavoratori impegnati nei Ministeri, nei Comuni, nelle Università e in Istituti di ricerca pubblici (per collaboratori, assegnisti di ricerca, dottorandi di ricerca).

Questa è la ragione che ha indotto la Cgil, insieme a Fp, Flc, Nidil e Inca a promuovere una vera e propria campagna per sensibilizzare tutti i lavoratori precari delle diverse amministrazioni e tutti gli iscritti alla Gestione separata Inps affinché controllino le proprie posizioni assicurative con l’aiuto degli esperti del Patronato della Cgil. 

Camusso

Rapporto diritti globali 2013: Camusso, basta austerità

In Europa e in Italia serve una ”netta inversione di tendenza delle politiche economiche”. E’ finito il tempo dell’austerità e del ”rigore dei conti pubblici”: ”occorre imporre una politica per la crescita che ribalti le logiche liberiste dell’ultimo ventennio e ricollochi il lavoro al centro del sistema economico e sociale europeo”. Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, nella prefazione al Rapporto sui Diritti globali 2013. 

La Cgil, spiega Camusso, ”chiede una ripresa degli investimenti per sollecitare innovazione e generare lavoro qualificato e dignitoso, ricco di sapere e di responsabilità da destinare in particolare ai giovani”. ”Le euro-austerità – è convinta Camusso – hanno prodotto un ulteriore impoverimento dei Paesi più deboli, un aumento della disoccupazione e delle diseguaglianze, la compressione del reddito da lavoro e dei diritti soprattutto a scapito delle nuove generazioni; oltre che gravi conseguenze sul piano politico, istituzionale e civile”.
Secondo Camusso, le politiche di crescita devono ora coinvolgere ”imprese, università, centri di ricerca e istituzioni di governo sia a livello centrale che territoriale”.  L’attuale modello di sviluppo è da bocciare, come la globalizzazione che si trasforma in uno ”tsunami,
tornato in Europa e negli Usa ad abbassare i trattamenti retributivi e a rendere volatili le condizioni di lavoro previste da contratti e leggi”. Proprio in questo periodo di globalizzazione e crisi, conclude il segretario della Cgil, i ”diritti acquisiti e da acquisire sono stati la variabile dipendente e residuale” e sono cresciute ”le discriminazioni e la violenza sulle donne”.

Sergio Segio, invece sottolinea che ”Sono state 121 le persone che tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013 si sono tolte la vita per cause
direttamente legate al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali: nel 2012 i suicidi sono stati 89, mentre nei primi tre mesi del 2013 32, il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”.  Segio cita una ricerca della Link Campus University, che rileva come ”la precaria situazione economica personale avrebbe determinato il 49,4% di questi decessi, la perdita del posto di lavoro il 28,1%, i debiti con l’erario il 14,6% e il ritardo nei pagamenti da parte dei committenti il 7,9%. Il 30% delle persone
che si sono tolte la vita viveva nel nord-est, il 13,9% nel nord-ovest, il 25,8% nel centro, il 14,6% al sud e il 15,7% nelle isole”. 

Carceri

Carceri: 65.886 detenuti al 31 maggio, oltre 24mila in attesa di giudizio

Sono 65.886 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 31 maggio 2013, a fronte di una capienza regolamentare di 46.995 posti. Tra questi 40.228 hanno una condanna definitiva, mentre 24.342 sono in attesa di giudizio. I detenuti stranieri sono 23.265 e 2.897 le donne. E’ il quadro dell’emergenza dei 206 istituti italiani fornito dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Da non dimenticare che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rigettato il ricorso dell’Italia e ha confermato che il nostro Paese dovrà trovare entro un anno una soluzione al sovraffollamento carcerario. Inoltre, l’Italia è tenuta a risarcire i detenuti che ne hanno dovuto subire le conseguenze.

Tra le regioni italiane è  la Lombardia quella che ospita il maggior numero di detenuti, 9.280, seguita dalla Campania, con 8.186, dalla Sicilia, 7.143. Quanto agli stranieri presenti nelle carceri, il gruppo più numeroso proviene dal Marocco, 4.415, poi dalla Romania, 3.691, dall’Albania, 2.890, e dalla Tunisia, 2.880.

Sono poi 10.825 i detenuti che hanno lasciato il carcere per effetto della legge 199 del 2010, che prevede la possibilità di scontare ai domiciliari una pena non superiore ai 12 mesi, anche se residuale di una più lunga, limite poi portato a 18 mesi dal decreto ”salva carceri” dell’ex ministro della Giustizia, Paola Severino.