Archivi giornalieri: 19 ottobre 2012

I moti di Palabanda


PALABANDA: CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA? di Francesco Casula

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald  Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta,  viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista –   delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire allaquaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze  e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius.

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte  fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2

Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive:”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice”3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare  in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere  “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4Ricorda infatti Francesco Cesare Casula56. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari  persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.

Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico…Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano…Superfluo è il discorrere della plebe…Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive  Girolamo Sotgiu –  che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.

Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta” 12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .

E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti  studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e  a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

 

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.




Convegni e iniziative pre ricordare la Rivolta di Palabanda in occasione del bicentenario

I moti di Palabanda

Il fatto: la rivolta di Palabanda

Pagina originale

Nel 1812 la Sardegna 1812, con i raccolti distrutti dalla siccità seguita da una grave carestia, si trovò in una terribile epidemia. In quell’anno il Piemonte occupato dai francesi, il re Vittorio Emanuele I con il suo seguito preferirono rimanere in Sardegna imponendo al popolo Sardo insostenibili tasse per sostenere le spese della corte. Un gruppo di amici esasperati dalle pesanti richieste cominciò a pensare ad una ribellione e si riunirono in un podere nella località Palabanda di Cagliari in un podere di Salvatore Cadeddu segretario dell’Università. Riuniti con Salvatore Cadeddu i due figli Gaetano e Luigi assieme agli avvocati Francesco Garau e Antonio Massa, il sacerdote don Antonio Muroni, l’insegnante Giuseppe Zedda, gli artigiani Raimondo Sorgia e Giovanni Putzolu, un pescatore Ignazio Fanni e il panettiere Giacomo Floris. Organizzata nei minimi particolari, la data della rivolta era fissata per la notte fra il 29 e il 30 ottobre.

Ma la notizia arrivò a Raimondo Garau avvocato del fisco che informò immediatamente il re e il colonnello di Villamarina. Giacomo Floris insospettito rinunciò subito quando incontrò una pattuglia di guardie Piemontesi e con lui alcuni suoi amici. Giovanni Putzolu e alcuni compagni furono intercettati nelle stradine di Stampace dal colonnello di Villamarina. Putzolu, vistosi perduto, puntò una pistola contro il comandante ma i suoi amici gli impedirono di sparare. Putzolu, Sorgia e Salvatore Cadeddu furono arrestati e impiccati. Gaetano e Luigi Cadeddu, Fanni, Zedda e Garau, furono giudicati e subirono la stessa condanna. Floris e Massa condannati all’ergastolo. Gli atti di questo processo scomparvero subito dagli archivi ma rimane comunque una data storica da ricordare e annoverare come eroi sardi i rivoltosi di Palabanda morti per la giusta causa contro i tiranni del popolo Sardo.

La commemorazione: la lapide

Programma  per i 200 anni  dai fatti (29/30 ottobre 1812- 29/30 ottobre 2012 )

Sabato 20 ottobre 2012  ore 9.30     CONVEGNO DIBATTITO

                Biblioteca  settecentesca –Rettorato via Università Cagliari

Lunedi’ 29 ottobre 2012 ore 9.00  presso l’Orto Botanico      RAPPRESENTAZIONE TEATRALE SUI  FATTI DI PALABANDA a cura di Piero Marcialis  subito dopo alle 10.30 circa Corteo  con corone e cestini di essenze sarde che verranno depositate  sotto la Lapide ricordo dei fatti di Palabanda presso l’Orto Botanico  di Cagliari

 

                                                                 

 

Clicca qui per l’immagine ad alta risoluzione

[ Indietro ]

Report della Cgil sugli effetti della crisi sul sistema manifatturiero e sui servizi

A rischio estinzione intere filiere industriali e prodotti storici del made in Italy

In gioco ormai è tutto il made in Italy.  La crisi continua infatti a non fare sconti a nessuno e colpisce un settore dopo l’altro. Quando chiude o riduce drasticamente la produzione uno stabilimento a scomparire dal mercato è anche il suo prodotto, e così in Italia rischiano di scomparire intere filiere come quella dell’alluminio in Sardegna (Alcoa, Eurallumina) o dell’acciaio (ThyssenKrupp, Lucchini, Ilva) con il conseguente aumento delle importazioni e quindi della dipendenza dall’estero della nostra economia.

A rischio il made in Italy nel tessile e nell’industria del bianco (Merloni, Indesit), nella ceramica (Ginori), nell’alimentare e nel mobile imbottito che 10 anni fa copriva il 16% dell’intera produzione mondiale mentre oggi registra una mortalità delle attività produttive pari all’80%. E se è vero che l’industria italiana si è dimostrata meno sofferente sotto il punto di vista dell’export, passando dal 61,4% del 2000 al 55,6% del 2011, a subire enormemente la crisi sono le aziende che si rivolgono esclusivamente o quasi al mercato interno.

Il quadro per l’industria italiana è drammatico: i primi sentori della crisi il nostro paese li ha avvertiti nel 2008, quando ha registrato un calo dell’attività industriale del 22,1% (aprile 2008 marzo 2009) e da allora, sostanzialmente non si è più ripresa. A dimostrarlo è la scomparsa tra il 2009 e il 2011 di 30mila imprese.

A questa sofferenza dell’attività industriale si sommano le richieste di ore di Cassa integrazione, circa un miliardo all’anno per 500mila lavoratori, che è importante sottolinearlo, incidono negativamente sulla produttività oraria che viene invece solitamente calcolata sul numero complessivo della forza lavoro.

Il report completo su:

//www.cgil.it/dettagliodocumento.aspx?ID=19966

La crisi cambia la povertà

Caritas: la crisi cambia la povertà

 

La povertà si trasforma e cambia aspetto. La crisi economica degli ultimi anni non ha lasciato scampo e ha causato l’estensione di fenomeni di impoverimento ad ampi settori di popolazione, che non sempre coincidono con le situazioni del passato. I poveri sempre meno vivono in situazione di marginalità. Sono poveri casalinghe, anziani, pensionati, immigrati, persone che vivono in condizioni lavorative precarie o che hanno una vita complicata. La Caritas ha fotografato il fenomeno nel “Rapporto 2012 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia”.

I numeri dicono che nel corso del 2011 le persone che si sono rivolte ai Centri di ascolto promossi dalla Caritas, o collegati con essi, e selezionati nel rapporto, sono stati oltre 31 mila, per il 70,7% stranieri e per il 28,9% italiani. Ma tutte le testimonianze a disposizione raccontano di un deciso aumento degli utenti italiani che, a partire dalla crisi economica, hanno cominciato a rivolgersi ai centri Caritas.

In sintesi: aumentano gli italiani, cresce la multi problematicità delle persone, con storie di vita complesse, di non facile risoluzione, che coinvolgono tutta la famiglia. La fragilità occupazionale è molto evidente e diffusa: rispetto alle tendenze del recente passato, i poveri in Italia sono sempre meno “working” e sempre più “poor”.

Aumentano gli anziani e le persone in età matura: la presenza in Caritas di pensionati e casalinghe è ormai una regola, non più l’eccezione. Si impoveriscono ulteriormente le famiglie immigrate e peggiorano le condizioni di vita degli emarginati gravi, esclusi da un welfare pubblico sempre più residuale.

Ci sono poi situazioni specifiche, come gli “zero figli”: aumentano le persone senza figli che chiedono aiuto e che nel solo 2011 sono pari al 26,9%. Peggiorano le condizioni di vita delle famiglie immigrate, perché la crisi è andata a colpire chi talvolta da poco aveva acquisito un relativo benessere e una certa stabilità, tanto che – scrive la Caritas – il licenziamento di molti immigrati è arrivato mentre stavano attuando il ricongiungimento familiare.

 

Disabili

Disabili, Censis: bisogni ignorati

disabilit.jpg

Invisibilità. Distacco dal resto del mondo. Bisogni inascoltati e ignorati. Soprattutto, un approccio che in Italia è tutto fondato sull’assistenza e non mette in primo piano il tema dell’uguaglianza, delle pari opportunità, dei diritti. L’Italia è fra gli ultimi posti in Europa per risorse destinate alla protezione sociale delle persone con disabilità. E fa perno, ancora e sempre, sull’assistenza della famiglia, che riceve il mandato di far fronte ai bisogni dei disabili. Spesso da sola. Lo dice una ricerca di Censis e Fondazione Cesare Serono. Non a caso è intitolata “I bisogni ignorati delle persone con disabilità”. Oltre i numeri, che indicano una spesa media italiana pari a 438 euro procapite nelle risorse destinate alle persone con disabilità, lontano dalla media europea (531 euro) e lontanissimo dal Regno Unito (754 euro), ci sono i problemi dell’inserimento lavorativo e il rischio che anche un caso di eccellenza come la scuola, che accoglie tutti i bambini disabili, finisca per arenarsi nella mancanza di risorse. Senza contare che, come in molti altri campi, il modello italiano è tutto centrato sulla famiglia, che si accolla praticamente da sola – o con l’aiuto delle “badanti” – la responsabilità dell’assistenza a malati e disabili, con la conseguente de-responsabilizzazione delle politiche pubbliche. Al di là delle erogazioni dell’Inps, il modello italiano – spiega infatti la ricerca – “rimane fondamentalmente assistenzialistico e incentrato sulla delega alle famiglie, che ricevono il mandato implicito di provvedere autonomamente ai bisogni delle persone con disabilità, di fatto senza avere l’opportunità di rivolgersi a strutture e servizi che, sulla base di competenze professionali e risorse adeguate, potrebbero garantire non solo livelli di assistenza migliori, ma anche la valorizzazione della capacità e la promozione dell’autonomia delle persone con disabilità”. In Italia la disabilità è trattata e percepita, sia nei media sia nella politica, come una questione assistenziale e non come un tema che riguarda uguaglianza, inclusione, diritti civili: questo fa la differenza in negativo col resto d’Europa. Anche sull’inserimento lavorativo, l’Italia è indietro. Pur tenendo presente le diverse definizioni di disabilità nei paesi europei, emerge che in Francia si arriva al 36% di occupati fra i 45-64enni disabili, mentre in Italia il tasso di occupazione si ferma al 18,4% dei 15-44enni e al 17% dei 45-64enni. Le ricerche del Censis e della Fondazione Cesare Serono evidenziano la difficoltà di trovare lavoro e di conservarlo, anche quando la disabilità non impedisce affatto di lavorare. Una volta completato il percorso formativo, c’è difficoltà a trovare lavoro e c’è difficoltà a conservarlo se si ha una malattia cronica che causa progressiva disabilità – come è il caso di chi soffre di sclerosi multipla.