Tutte le contraddizioni nelle politiche delle istituzioni europee e dei suoi paesi membri emergono forti su due direttrici diverse, ma che si intrecciano nell’affrontare le storie di migrazioni in questi anni. Da un lato, infatti, la differenza di approccio sull’inclusione e l’accoglienza di cittadini ucraini e non ucraini è marcata. Dall’altro, le disparità di trattamento nell’accettare migranti e richiedenti asilo provenienti dal resto del mondo sono altrettanto evidenti, oltre che drammatiche.
In questo senso è critico paragonare i dati tra Italia e Ungheria, laddove nella prima nazione sono in migliaia ogni anno a richiedere asilo politico e umanitario (come nella maggior parte dei paesi dell’Europa continentale), mentre nella seconda questo diritto non solo viene concesso a poche decine di persone l’anno, ma è inoltre complesso anche persino capire quante richieste vengono realmente inoltrate.
Sette anni di politiche repressive in Ungheria
Sono lontane le immagini dell’estate 2015, quando la stazione centrale e le piazze principali di Budapest erano attraversate da migliaia di profughi, soprattutto provenienti dalla Siria, che chiedevano di salire sui treni internazionali verso Vienna e Berlino. È stato quello il periodo in cui il governo Orbán ha avviato una stretta sempre più repressiva sui migranti, riformando e modificando più volte, fino a oggi, la disciplina sul diritto di asilo nel paese. Con il risultato di azzerare di fatto gli ingressi legali e ricevere sanzioni da parte dell’Unione europea e reprimende da parte della Corte europea dei diritti umani.
Proprio nell’estate 2015 il parlamento ungherese ha approvato la prima di una serie di modifiche legislative volte a complicare le vite dei richiedenti asilo. Subito dopo è iniziata la costruzione di una barriera metallica lunga oltre 500 km sui confini meridionali con la Serbia e in parte con la Croazia.
523 km è la lunghezza della barriera di filo spinato e lamette presente sul confine serbo-ungherese.
Dal 2017 è stata attivata la “procedura di frontiera”, che prevedeva la detenzione in aree definite transit zone lungo la barriera per chi richiede l’asilo, un meccanismo fortemente criticato dalle organizzazioni umanitarie dalle Nazioni unite e dalle istituzioni europee. Tanto che le transit zone sono state chiuse nel maggio 2020, in seguito ad alcune sentenze della Corte europea dei diritti umani, che hanno evidenziato la natura illegale dei respingimenti e la violazione dei diritti internazionali.
Il 2020 è un anno decisivo per la stretta repressiva del governo ungherese sui migranti.
Nonostante la chiusura di queste zone al confine, è proprio il 2020 l’anno decisivo per la repressione dei migranti. Da un lato, infatti, il governo ha riconosciuto come “paesi terzi sicuri” i paesi di transito al confine, di fatto giudicando come persone fuori pericolo tutti coloro che arrivano da zone di guerra ma passano per i paesi confinanti con l’Ungheria. Dall’altro, forte del regime di emergenza attivato a causa della pandemia da Covid-19, l’esecutivo Orbán ha incentivato il numero dei respingimenti, legiferando anche su meccanismi per la richiesta di asilo in contraddizione con le norme internazionali.
Chi chiede asilo oggi in Ungheria è costretto a farlo dall’ambasciata ungherese in Serbia.
Infatti, oggi, chiunque voglia entrare in Unione Europea dall’Ungheria deve recarsi all’ambasciata del paese a Belgrado, in Serbia, e presentare una “lettera di intenti” che certifica la volontà preliminare di chiedere asilo. Solo successivamente viene fissato, spesso dopo mesi dalla presentazione della lettera, un appuntamento con i funzionari dell’ambasciata per inoltrare la vera e propria richiesta di asilo. Il tutto, però, continuando a rimanere in Serbia, pena il respingimento al confine da parte della polizia ungherese.
È facile capire come queste procedure sfianchino i migranti, impedendo l’esercizio del diritto di asilo, così come afferma da tempo la stessa Unione europea. Che tuttavia non va molto oltre le procedure di infrazione attivate negli anni, non ridiscutendo la prima e più importante criticità del sistema europeo: il regolamento di Dublino e le quote di assegnazione dei richiedenti asilo.
Il risultato, nel caso del paese magiaro, è il numero soprendentemente esiguo di richieste di asilo accettate.
42 richieste di asilo accettate in Ungheria in tutto il 2021.
I numeri ungheresi dell’asilo sono lampanti anche se consideriamo le richieste, comparando le cifre con quelle registrate dagli altri paesi dell’Europa orientale. Nella confinante Romania, per esempio, il 2020 ha visto oltre 6mila istanze di asilo, a fronte delle 117 presentate in Ungheria.
Quanto emerge dai dati trova riscontro nelle cifre sui respingimenti alla frontiera di coloro che vengono chiamati “immigrati irregolari”. Si tratta della somma del numero di attraversamenti (anche della stessa persona) definiti illegali nelle aree della barriera metallica tra Ungheria e Serbia. Negli ultimi anni la polizia ne ha certificati in numero sempre crescente: 42mila nel 2020, quasi 120mila nel 2021 e il numero record di 132mila respingimenti nei primi 7 mesi di quest’anno.
Le debolezze del sistema italiano
In Italia la situazione è apparentemente migliore rispetto a quella ungherese, ma il sistema mostra evidenti debolezze, a svantaggio dei migranti e della loro inclusione sociale nelle comunità autoctone.
Nonostante siano attive politiche restrittive e duramente criticate perché accusate di violazioni dei diritti umani (come gli accordi con il governo libico stipulati nel 2017 e oggi ancora attivi), i migranti continuano ad arrivare e i numeri nel paese sono molto diversi rispetto a quelli registrati in Ungheria. A determinare questa differenza sono anche le caratteristiche geografiche dei confini.
Dal 2017 al 2020 Il sistema di accoglienza in Italia è cambiato 3 volte.
Respingere i migranti con la forza per l’Italia è più complesso che per l’Ungheria, perché significherebbe condannarli a morte certa, in quanto la maggioranza degli approdi è via mare. Ciò nonostante si sono verificati casi in passato in cui si è cercato di impedire lo sbarco a navi che trasportavano rifugiati. Questo è stato possibile per via dei decreti sicurezza, voluti dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, che prevedevano la chiusura dei porti per le imbarcazioni delle Ong che soccorrevano i migranti in mare. Il caso più eclatante è stato quello che ha coinvolto la nave Sea Watch nel 2019, quando la comandante Carola Rackete ha fatto sbarcare sulle coste italiane una nave che trasportava 53 migranti, nonostante le fosse stato negato il permesso.
L’Italia, così come altri paesi del sud Europa, ha richiesto diverse volte una revisione del trattato di Dublino, secondo il quale la responsabilità di esaminare le domande di asilo ricade nel paese europeo dove entra il richiedente. È tuttavia importante evidenziare come alcune proposte di riforma del trattato, arrivate nel parlamento europeo negli anni della “crisi dei migranti”, siano state bocciate dagli stessi partiti italiani anti-immigrazione.
Anche nel caso italiano gli anni della svolta sono quelli della “crisi europea dei migranti”. Nel 2015, infatti, arrivarono sulle coste italiane oltre 153mila persone, l’anno successivo 181mila e nel 2017 quasi 120mila.
In Italia le politiche repressive anti-migranti sono state avviate con il decreto Minniti-Orlando.
Si tratta delle cifre maggiori mai registrate, cui ha fatto seguito un calo vistoso negli anni seguenti. Anche a causa dell’approvazione del decreto Minniti-Orlando, voluto da un governo di centrosinistra, che prevede regole più severe sulle migrazioni, tra cui l’apertura di una ventina di centri di espulsione sul territorio.
Sempre nel 2017 venne firmato il memorandum Italia – Libia, a oggi in vigore perché rinnovato nel 2020 dal governo, anche in quel caso di centrosinistra. L’accordo prevede un importante finanziamento della guardia costiera libica volto ad arginare le partenze dal paese nordafricano, e la detenzione arbitraria dei migranti in carceri all’interno delle quali vengono violati sistematicamente i diritti umani, come hanno evidenziato numerose inchieste indipendenti.
Queste leggi repressive hanno ottenuto come risultato un calo degli arrivi, successivamente diminuiti anche per effetto delle restrizioni dovute alla pandemia. Nel 2021, infatti, sono sbarcate circa 67mila persone. Mentre nei primi 7 mesi del 2022 erano 41mila, il che rappresenta un aumento rispetto allo stesso periodo dei 3 anni precedenti. Comunque si tratta di un numero di molto inferiore agli anni della crisi dei rifugiati.
41.170 persone sbarcate sulle coste italiane, dal 1 gennaio al 31 luglio 2022.
Per chi riesce a sopravvivere in Libia e arriva sulle coste italiane, invece, il destino è un percorso nei vari passaggi del sistema di accoglienza. È importante ribadire come la maggioranza delle persone accolte (nel 2021 quasi 7 su 10) siano da anni ospitate nei “centri di accoglienza straordinari”, che indicano già dal nome un approccio emergenziale a un fenomeno, quello migratorio, che al contrario si verifica da un decennio in modo tutto sommato ordinario.
Se infatti in Ungheria il problema è l’assenza di qualsiasi forma di assistenza al richiedente asilo – tanto che nel 2020 il governo ha varato leggi che puniscono severamente chi monitora i confini con scopi solidali o agisce in reti di supporto all’immigrazione o persino chi produce volantini informativi – le criticità italiane sembrano essere centrate piuttosto sul percorso di inclusione sociale dei richiedenti asilo (e anche di chi ottenendolo acquista lo status di rifugiato) nel paese. L
L’ideologia dell’emergenza di cui è segnato il sistema dell’accoglienza, infatti, non permette una pianificazione ordinata, organica e sistemica di un percorso che possa migliorare la vita di chi decide di stabilirsi in Italia, avvantaggiando talvolta chi specula economicamente sui regimi emergenziali, come hanno dimostrato negli anni alcune inchieste giudiziarie.
In questo senso dal 2018 il governo giallo-verde – nato dall’alleanza tra Movimento 5 stelle e Lega, e guidato da Giuseppe Conte – ha riformato il sistema dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati attraverso i “decreti sicurezza” voluti dal ministro dell’interno Matteo Salvini, tra i politici italiani con posizioni più nette contro l’immigrazione. Tra le novità introdotte dal decreto sicurezza la principale è l’abolizione della “protezione umanitaria”, una tutela nazionale per chi chiede l’asilo, che era stata istituita nel Paese nel 1998.
Ma questa stretta sull’accoglienza ha impattato gravemente anche sui centri di seconda accoglienza, quelli dove sono di più e migliori i servizi di integrazione, come l’inserimento lavorativo, l’insegnamento dell’italiano e l’inclusione nel tessuto sociale delle comunità. Se prima era data la possibilità di accedervi sia ai richiedenti asilo che a chi l’asilo l’aveva già ottenuto, con i decreti sicurezza l’accesso a questi centri è stato limitato solo ai secondi.
Alla fine del 2020, con il cambio del governo – sempre guidato da Conte ma con una maggioranza formata da Movimento 5 Stelle e partito democratico – il sistema è stato nuovamente riformato.
Oggi ha caratteristiche più simili a quelle che aveva fino al 2018, prima dell’approvazione delle leggi volute dalla Lega. Se il prossimo 25 settembre le destre usciranno vincitrici dalle urne, lo stesso Salvini ha promesso di tornare indietro di due anni, nuovamente ai decreti sicurezza. Mentre Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, il partito nazionalista favorito dai sondaggi, non ha mai nascosto di guardare con favore proprio al modello Orbán.
Se analizziamo i dati, notiamo come i due anni in cui sono stati in vigore i decreti sicurezza abbiano inciso anche sugli esiti delle richieste di asilo, a causa dell’eliminazione della protezione umanitaria. Nel 2017 e nel 2018 le domande rifiutate su quelle esaminate erano rispettivamente il 58% e il 67% e nel biennio successivo queste percentuali sono salite all’81% nel 2019 e al 76% nel 2020, per poi tornare al 58% (circa 30mila dinieghi su 52mila domande esaminate) nel 2021, quando i decreti sicurezza erano stati superati.
Nei primi mesi del 2022, invece, la situazione è del tutto diversa a causa della guerra in Ucraina. Sono state esaminate più di 38mila richieste, molte di più rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. Basti pensare che nel primo trimestre del 2021 le istanze prese in esame erano meno di diecimila.
Anche gli esiti sono in forte controtendenza quest’anno, considerando che da gennaio a marzo quasi 32mila istanze sono state accettate, rispetto a 6mila rifiuti. Negli anni xfprecedenti, solo nel primo trimestre del 2015 le domande accettate superavano quelle rifiutate. Sulle tendenze di quest’anno hanno influito innegabilmente le tante domande di protezione temporanea inoltrate nel mese di marzo, e arrivate a quota 148mila a inizio agosto.
Questo progetto è stato sostenuto dal Collaborative and Investigative Journalism Initiative (Ciji). Sono stati supportati dieci reportage in tutta Europa, nell’ambito del grant sulle “cross-border stories”, con l’obiettivo di raccontare storie transfrontaliere che vedessero la collaborazione tra team di diversi paesi europei. Hanno contribuito alla realizzazione di questo reportage i giornalisti freelance Irene Pepe e Aron Coceancig.
Foto: centro di accoglienza per rifugiati ucraini di Bok a Budapest – Andrea Mancini / Openpolis