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Pensioni 2016 | ||||
Le regole da rispettare per il personale della scuola |
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Con la circolare n. 40816/2015, il Ministero dell’Università e della Ricerca ha fornito indicazioni operative per l’applicazione del D.M. n. 939/2015, recante disposizioni per le cessazioni dal servizio del personale della scuola dal 1° settembre 2016. Per tutto il personale di ruolo della scuola, docente, educativo, amministrativo, tecnico e ausiliario, compresi gli insegnanti di religione e coloro che svolgono servizio all’estero, il termine ultimo fissato dal Decreto Ministeriale per la presentazione delle relative domande di pensione è il 22 gennaio 2016. L’eventuale collocamento a riposo avrà effetto dal 1° settembre 2016. | ||||
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Per tutti era Cataldi Vittorio, detto Accattone, l’incarnazione rabbiosa dei “ragazzi di vita” pasoliniani. E ribelle, selvaggio, vitale e inquieto Franco Citti sarebbe sempre rimasto, dal giorno della sua nascita (23 aprile 1935 a Roma), fino ad oggi (giovedì 14 gennaio 2016), sempre nel ventre scuro della sua città. Da anni era bloccato sulla sedia a rotelle in seguito a tre ictus ripetuti.
Morto a 80 anni – Citti faceva parte del gruppo scandaloso e felice che circondava Pier Paolo Pasolini tra i suoi esordi letterari e la scoperta del cinema. Lascia tre figli, una scia di ricordi e l’incessante passione per ridare onore al maestro, facendo luce sulla sua morte. Pasolini chiama Franco Citti per la sua prima regia nel 1961 e conferisce alla sua maschera tragica, già segnata e beffarda, la statura assoluta del protagonista in “Accattone”. Per molti è una rivelazione e il gioco del cinema appassiona il ragazzo che, l’anno dopo, riporta sullo schermo se stesso in “Una vita violenta” di Paolo Heusch e Brunello Rondi.
Attore autodidatta – L’impronta del maestro guida anche la recitazione di Franco Citti che, autodidatta assoluto, costruirà una carriera densa di incontri (alla fine saranno 55 i suoi ruoli per lo schermo) e uno stile interpretativo unico, fortemente radicato nella lingua vernacolare, istintivo nell’amore per la macchina da presa (un amore ricambiato sempre, con primi piani di rabbiosa intensità) e sempre diretto fino a fare della spontaneità il suo tratto distintivo. Per “Mamma Roma” del ’62 Pasolini lo richiama e così sarà per “Edipo Re”, “Porcile”, “Decameron” e gli altri due episodi della “Trilogia della vita”. Ha recitato anche in teatro con Carmelo Bene.
Fu diretto anche dal fratello Sergio – Ma il cinema dei Citti scrive anche una storia parallela, perché il fratello Sergio lo coinvolge nel suo film di debutto, “Ostia” (1970), e poi nei successivi “Storie scellerate (1973), “Casotto” (1977), “Il minestrone” (1981), “I magi randagi (1996) , fino a firmare a quattro mani quei “Cartoni animati” che nel 1997 chiudono idealmente l’arco dell’eredità pasoliniana sullo schermo. Intanto Franco Citti cammina anche da solo, ricercato per cinema di genere (“Requiescant” di Carlo Lizzani nel 1967), cinema d’impegno (“Seduto alla sua destra” di Valerio Zurlini, 1968), incursioni internazionali (“Il Padrino ” di Coppola nel 1972). Raccontava lo stesso Citti che, alla notizia, Pasolini gli raccomandò: “Vai e divertiti, ma non perdere la tua lingua, perché se perdi quella smarrirai te stesso”.
Ha recitato per i più grandi registi – E il romanesco, quello delle borgate, quello che non si piega al gergo generazionale e conserva la sua immediatezza oltre le mode, rimarrà sempre il modo espressivo dell’attore Citti, chiamato da Fellini per “Roma”, da Petri per “Todo modo”, da Ferreri per “Yerma”, da Bertolucci per “La luna”, da Maselli per “Il segreto”, fino all’ultima apparizione in “E insieme vivremo tutte le stagioni” di Gianni Minello nel 1999. Nel 1992, insieme a Claudio Valentini, si racconta in una sorta di autobiografia impressionista, “Vita di un ragazzo di vita” edito da SugarCo.
Franco Citti nell’interpretazione del Decameron di Pasolini (1971)
Per tutti era Cataldi Vittorio, detto Accattone, l’incarnazione rabbiosa dei «ragazzi di vita» pasoliniani. E ribelle, selvaggio, vitale e inquieto Franco Citti sarebbe sempre rimasto, dal giorno della sua nascita (23 aprile a Roma 1935), fino ad oggi, sempre nel ventre scuro della sua città. Da anni era bloccato sulla sedia a rotelle in seguito a tre ictus ripetuti, ma non voleva lasciare la vita, si attaccava al fuoco che sentiva dentro, solo velato dalla saggezza del tempo e dalla solitudine crescente per i tanti amici lasciati per strada: Pasolini, Betti, Cerami, suo fratello Sergio. Del gruppo scandaloso e felice che circondava Pier Paolo Pasolini tra i suoi esordi letterari e la scoperta del cinema resta ormai solo Ninetto Davoli, forse quello che meglio ha saputo prendere i cambiamenti del tempo per il loro verso.
LA “FAMIGLIA” PASOLINIANA
La sua strada incrociò quella del poeta-professore all’inizio degli anni ’50 quando Pasolini, lasciata Casarsa con la madre, insegnava a Roma in periferia e si circondava di un piccolo cenacolo di poeti di strada, alcuni allievi diligenti (come Cerami che del gruppo era il più piccolo), altri già avvezzi alla durezza della vita (il diciottenne Sergio Citti era appena uscito dal riformatorio), altri come Sergio in bilico tra l’adolescenza e la rabbia. Per tutti Pasolini diventa un punto di riferimento, scopre in Sergio un «maestro di vita e di lingua», si affeziona a Franco fino a trasfigurarlo nelle sue pagine da narratore. Con loro gioca a pallone, parla di letteratura e di umanità, si costruisce una sorta di famiglia fatta di calore, umanità, libertà, un guscio protettivo che lo accompagnerà sempre, dai giorni dello scandalo per i romanzi messi all’indice fino alle polemiche incessanti che ne scandiranno la carriera e la vita.
MEMORABILE «ACCATTONE»
«Di tutti i Citti è sempre stato l’anima più libera – dice oggi un amico e allievo come il regista David Grieco -, ha sempre vissuto a modo suo, senza compromessi e senza cedimenti». E da persona libera se ne è andato, lasciando tre figli, una scia di ricordi e l’incessante passione (come del resto Sergio) per ridare onore al maestro, facendo luce sulla sua morte. Pasolini chiama Franco Citti per la sua prima regia nel 1961 e conferisce alla sua maschera tragica, già segnata e beffarda, la statura assoluta del protagonista in «Accattone». Per molti è una rivelazione e il gioco del cinema appassiona il ragazzo che, l’anno dopo, riporta sullo schermo se stesso in «Una vita violenta» di Paolo Heusch e Brunello Rondi. L’impronta del maestro guida anche la recitazione di Franco Citti che, autodidatta assoluto, costruirà una carriera densa di incontri (alla fine saranno 55 i suoi ruoli per lo schermo) e uno stile interpretativo unico, fortemente radicato nella lingua vernacolare, istintivo nell’amore per la macchina da presa (un amore ricambiato sempre, con primi piani di rabbiosa intensità) e sempre diretto fino a fare della spontaneità il suo tratto distintivo.
FOTO – Pier Paolo Pasolini sul set di “Accattone’’ con l’attore Franco Citti
ROMANESCO DI BORGATA
Per «Mamma Roma» del ’62 Pasolini lo richiama e così sarà per «Edipo Re», «Porcile», «Decameron» e gli altri due episodi della «Trilogia della vita». Ma il cinema dei Citti scrive anche una storia parallela perché il fratello Sergio lo coinvolge nel suo film di debutto, «Ostia» (1970) e poi, insieme a Cerami, nei successivi «Storie scellerate (1973), «Casotto» (1977), «Il minestrone» (1981), «I magi randagi» (1996) , fino a firmare a quattro mani quei «Cartoni animati» che nel 1997 chiudono idealmente l’arco dell’eredità pasoliniana sullo schermo. Intanto Franco Citti cammina anche da solo, ricercato per cinema di genere («Requiescant» di Carlo Lizzani nel 1967), cinema d’impegno («Seduto alla sua destra» di Valerio Zurlini, 1968), incursioni internazionali («Il Padrino » di Coppola nel 1972). Raccontava lo stesso Citti che, alla notizia, Pasolini gli raccomandò: «Vai e divertiti, ma non perdere la tua lingua, perché se perdi quella smarrirai te stesso». E il romanesco, quello delle borgate, quello che non si piega al gergo generazionale e conserva la sua immediatezza oltre le mode, rimarrà sempre il modo espressivo dell’attore Citti, chiamato da Fellini per «Roma», da Petri per «Todo modo», da Ferreri per «Yerma», da Bertolucci per «La luna», da Maselli per «Il segreto», fino all’ultima apparizione, in «E insieme vivremo tutte le stagioni» di Gianni Minello nel 1999.
GLI ULTIMI ANNI
Nel 1992, insieme a Claudio Valentini, si racconta in una sorta di autobiografia impressionista, «Vita di un ragazzo di vita» edito da SugarCo. La bocca piegata in una smorfia amara che si illuminava nel sorriso, gli occhi lunghi, quasi arabeggianti, il ciuffo ribelle dei capelli che l’età aveva seminato di neve, il «baby» di whisky a portata di mano, la sigaretta divorata con apparente distacco: ecco come la sua immagine resta impressa nel ricordo. E in quello sguardo da poeta triste, da Rimbaud delle borgate, rivive oggi un’intera epoca. Forse la sua morte assomiglia al suo estremo gesto di libertà. Oggi Franco Citti si alza dalla sedia a rotelle e ricomincia a camminare
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del 15/01/2016 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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La leggenda ci presenta i due primi discepoli di San Benedetto, giovanissimi, nel momento in cui sono condotti al Patriarca dai loro stessi genitori.
Mauro apparteneva ad una famiglia senatoriale romana. Il nome del padre, Equizio, e quello della madre, Giulia, dicono chiaramente la loro nobiltà. A soli dodici anni, Mauro, nato a Roma nel 512, fu presentato a San Benedetto. Si legge infatti nei Dialoghi di San Gregorio Magno:
« Perseverando lo santissimo Benedetto nella solitudine e crescendo in fama e in virtù… cominciarono eziandio li nobili e onesti uomini di Roma a venire a lui e offrirgli li propri figlioli, acciò che li nutricasse nel servigio di Dio… Et allora, fra gli altri, gli furono offerti due giovani di buon aspetto », cioè Mauro e Placido.
San Benedetto accolse con gioia tanto Mauro quanto Placido, che furono, come si suol dire, le pupille dei suoi occhi. Docile come cera vergine, austero già nella sua fanciullezza e praticante la più assoluta astinenza, Mauro fu presto portato da San Benedetto come esempio agli altri monaci più indocili e anche ribelli al morso del grande riformatore. Specialmente la perfetta obbedienza era di consolazione al Patriarca e doveva essere d’esempio agli altri religiosi.
Per questo, nei Dialoghi, San Gregorio narra un episodio, del quale sono protagonisti proprio i due allievi prediletti di San Benedetto.
Un giorno, infatti, Placido, che era andato ad attinger acqua, cadde in un lago. San Benedetto chiamò San Mauro e gli disse di correre al salvamento del confratello, che l’onda allontanava dalla riva. San Mauro corse fino alla riva, e oltre ancora, sull’acqua. Raggiunse il compagno e lo trasse di pericolo. Solo quando furono a terra, « voltandosi a drieto dice San Gregorio conobbe che era andato sopra l’acqua ».
Lo qual miracolo, conclude San Gregorio = Santo Benedetto imputò non ai suoi meriti, ma all’ubbidienza di Mauro; e d’altra parte Mauro dicea che per solo comandamento e merito di Santo Benedetto era fatto, e non per suo ».
Soltanto una volta il giovane Mauro diede un dispiacere al suo maestro. San Benedetto era perseguitato da un pessimo prete di nome Fiorenzo, che lo vessava in mille maniere. L’indegno ministro di Dio morì, e Mauro, non sapendo fingere, corse a darne notizia a San Benedetto, con evidente sollievo e soddisfazione. Il Santo Io rimproverò di quella notizia con un’aspra penitenza, che Mauro accettò, riconoscendo d’aver peccato.
Mauro seguì San Benedetto a Montecassino, dove divenne priore e amministratore del monastero che doveva avere una storia tanto gloriosa. Egli veniva ormai considerato il successore di San Benedetto. In assenza del Patriarca, tutti si rivolgevano a lui, anche per ottenere guarigioni.
Un giorno venne condotto a Montecassino un bambino muto. Si voleva che lo benedicesse San Benedetto, ma l’Abate non c’era. Ed ecco Mauro che, per quanto Priore, torna dal lavoro dei campi, con la zappa sulle spalle. Presentano a lui il mutolino. Egli da prima si schermisce. Poi, cedendo alle preghiere, lo benedice e lo guarisce.
Tutti pensavano ch’egli avrebbe preso il posto di San Benedetto, a Montecassino quando dalla Francia fu richiesta una fondazione benedettina. San Benedetto affidò a Mauro quel delicato e impegnativo incarico. Lo munì della Regola, e lo inviò, con la sua benedizione, nel lontano paese.
E il suo prediletto fondò il primo monastero benedettino in terra francese, sulla riva della Loira, a Glanfeuil. Verso i 70 anni, rinunziò al pastorale d’Abate per prepararsi santamente alla morte, che lo colse improvvisa, ma non di sorpresa, il 15 gennaio del 584.