Archivi giornalieri: 15 giugno 2010

Servizio civile e assistenza ai disabili

In favore dei più deboli

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Un disegno di legge che persegue l’obiettivo di riservare una quota del 20%o dei posti previsti nei bandi ai progetti di servizio civile volontario all’assistenza di persone gravemente disabili per condizioni fisiche, psichiche e sensoriali. E’ attualmente in corso di esame in commissione Affari costituzionali del Senato, porta la prima firma di Enzo Bianco del Pd ed è stato sottoscritto dai rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari in Commissione.

La proposta inserisce un nuovo comma 2-bis all’articolo 7 della legge istitutiva del servizio civile nazionale, in base al quale l’Ufficio nazionale per il servizio civile cura l’organizzazione, l’attuazione e lo svolgimento del servizio, attraverso l’approvazione dei progetti di impiego presentati dalle amministrazioni statali, regionali, locali e da altri enti in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge, assicurandone la coerenza con le finalità della legge e con la programmazione nazionale.

Il nuovo comma 2-bis fissa la percentuale del 20% da riservare ai progetti volti a garantire assistenza a quei soggetti che soffrono gravi e diverse tipologie di disabilità nella selezione annuale dei progetti presentati da parte dell’Ufficio nazionale. Nella seduta del 25 maggio il disegno di legge è stato accorpato ad altre tre proposte in materia e quindi adottato quale nuovo testo base per il seguito dell’esame congiunto.

Congedo di paternità

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Per concetto di parità sostanziale

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”In una situazione di forte cambiamento bisogna anche cambiare la mentalità: avere, oltre ad un congedo di maternità, anche un congedo di paternità obbligatorio può essere un’ottima soluzione, un principio di innovazione nel rapporto tra generi che va nella direzione della parità delle condizioni”.

Così Cesare Damiano, capogruppo del Pd in Commissione lavoro ha  commentato la proposta di Alessia Mosca del Pd e Barbara Saltamartini del Pdl di istituire il congedo di paternità obbligatorio.  

”Il concetto di parità – prosegue Damiano – deve essere sostanziale e non formale e riguardare tutti gli aspetti di vita e di lavoro. Infatti non apprezziamo il modo sbrigativo con il quale il governo interpreta la parita’ richiesta dalla Ue con il solo innalzamento dell’età pensionistica a 65 anni”.

Sindacati e infortuni sul lavoro

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Costituzione in giudizio dei sindacati

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La Corte di cassazione nella sentenza 22558 /2010 ha affermato che le associazioni a difesa dei lavoratori possono costituirsi parte civile contro le aziende per gli infortuni sul lavoro, anche se la vittima non era iscritta al sindacato.

La Suprema Corte, ha concluso per l’ammissibilità della costituzione in giudizio, in qualità di parti civili, delle associazioni sindacali.

La giurisprudenza della Suprema Corte, sottolineano i giudici citando molti precedenti, si è infatti evoluta in questo senso. “Il mutato quadro di riferimento” si legge nella sentenza “porta a ritenere ammissibile, senza il predetto limite della iscrizione, la costituzione di parte civile dei sindacati nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commesse con violazione della normativa antinfortunistica, dovendosi ritenere che l’inosservanza di tale normativa nell’ambito dell’ambiente di lavoro possa cagionare un autonomo e diretto danno, patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità all’azione dagli stessi svolta”.

Eternit – I 570 casi di Bagnoli

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Quando si muore di lavoro

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Si è parlato oggi per la prima  volta dello stabilimento di Bagnoli (Napoli) al maxiprocesso Eternit.

Nella filiale partenopea della multinazionale dell’amianto, attiva a partire dalla fine degli anni Trenta, si sono verificati, secondo i dati raccolti dalla polizia giudiziaria, non meno di 573 casi di operai colpiti da malattie provocata dal contatto con il minerale nocivo; di questi i morti sono ormai più di 430 e il loro numero è destinato a salire.

Flai-Cgil – Sconfiggere caporalato e sommerso

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Per una nuova stagione dei diritti

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“L’indagine conosctivina dell’XI Commissione Lavoro, presentato oggi alla Camera, sui fenomeni distorsivi del mercato del lavoro recepisce gran parte delle proposte da tempo elaborate da Fai-Flai-Uila per contrastare il caporalato e lo sfruttamento della manodopera in agricoltura”.

E’ quanto sostiene in una nota il segretario generale della Flai-Cgil Stefania Crogi. In particolare, spiega il sindacato della Cgil, in merito all’ “allungamento del periodo del permesso di soggiorno, il sistema di incentivi per le aziende virtuose e le penalizzazioni per quelle che si servono del lavoro nero, una maggiore e migliore attivita’ ispettiva e le aggravanti penali per il reato di caporalato”.

”Solo uno Stato presente sul territorio ed intransigente nei confronti dell’illegalita’ diffusa – ha continuato Crogi – può sconfiggere lo sfruttamento della manodopera in agricoltura ed è per questo che al documento va ora data una continuità attraverso l’attivazione di specifici interventi legislativi che siano in grado di recepirne i contenuti”.

”Tutte le forze politiche, sociali ed economiche del paese – ha concluso il segretario generale della Flai-Cgil – devono concorrere al raggiungimento del comune scopo di stroncare l’illegalità e di dare l’avvio ad una nuova stagione dei diritti basata sul rispetto delle regole e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori occupati nel settore agricolo”.

L’Ue obbliga la pensione a 65 anni? Falso

> 14-06-2010

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Una questione di parità

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Non è assolutamente vero che l’Europa impone che le donne italiane vadano in pensione a 65 anni, come invece viene motivato in modo infondato non solo dal governo, ma dalla più parte dei media. Com’è che invece l’informazione non solleva alcun dubbio?

I pronunciamenti di Commissione e Parlamento europeo non riguardano l’innalzamento dell’età, ma sono fondati sull’esigenza di non discriminare il lavoro femminile, giacché tutte le ricerche denunciano retribuzioni e pensioni inferiori a quelle maschili. Con la direttiva 79/1978, l’Europa salva infatti la possibilità per gli stati di stabilire età di pensione differenti tra uomini e donne; e comunque l’Unione non può intervenire sull’età stabilita dai paesi membri. Può, invece, chiedere conto di atti discriminanti, come «obbligare» le donne ad andare in pensione prima: perché, in presenza di un regime legato ai contributi, porta a un rendimento ridotto.

Esiste dunque una questione di parità, ma non riguarda l’età. Nella «Piattaforma di Pechino» i governi si erano piuttosto impegnati a esplicitare l’impatto delle politiche economiche in termini di lavoro pagato e non pagato e di accessi al reddito delle donne. E il Consiglio Europeo di Lisbona, nel marzo 2000, fissava l’obiettivo del pieno impiego attraverso un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e il diritto fondamentale al lavoro di uomini e donne. Nel diritto comunitario, del resto, la tutela antidiscriminatoria è da sempre un architrave, che col Trattato di Amsterdam del 1998 è divenuto un principio fondamentale.

I dati ufficiali mostrano invece che siamo ben lontane da una parità retributiva, quindi economica, sociale e politica. Questo il quadro: fino a 20.000 euro, 48% donne e 52% uomini; da 20.000 a 40.000, 27% donne e 73% uomini; da 40.000 a 60.000, 20% donne 80% uomini; da 60.000 a 80.000, 15% donne 85% uomini; da 80.000 a 100.000, 12% donne 88% uomini; oltre 100.000, 10% donne 90% uomini.

Il differenziale retributivo uomo/donna si attesta su una media del 23%. Il gap per le retribuzioni nette annue delle donne va da 3.800 euro per i dipendenti a tempo indeterminato agli oltre 10 mila degli autonomi. Gli uomini hanno in media redditi superiori in tutte le forme contrattuali: 23% nel lavoro dipendente, 40% in quello autonomo, 24% per le collaborazioni.

Il lavoro delle donne nei 14 paesi più avanzati per un terzo è lavoro pagato e per due terzi è lavoro non pagato. Mentre tre quarti del lavoro degli uomini è pagato ed un quarto no. Quindi, è il peso dell’ineguaglianza di genere nella distribuzione del lavoro non pagato che determina le condizioni materiali delle donne nel lavoro produttivo a tutti i livelli. Ciò mentre rimane un carico di lavoro famigliare non retribuito: all’Italia appartiene infatti il primato del tempo dedicato dalle donne al lavoro familiare. Lisbona auspica il raggiungimento nel 2010 di un tasso di occupazione femminile del 60% in tutti i paesi. I nostri tassi di occupazione femminile risultano inferiori a quelli medi dell’Ue per ogni classe d’età e non solo rispetto all’Europa a 15, ma anche rispetto alle recenti adesioni. L’Italia infatti è, dopo Malta, il paese con i più bassi livelli di occupazione femminile di tutta l’Ue.

Quanto poi alle anziane e pensionate, due dati sono confermati in tutte le aree del paese e in tutti gli enti previdenziali: il 76% dei trattamenti integrati al minimo (cioè sotto i 500 euro mensili) riguarda le donne (2,6 milioni) e le donne mono-pensionate sono il 64,8% del totale, con un importo medio annuo di circa 7.300 euro. Si aggiunga che solo l’1,2% delle donne arriva ad avere 40 anni di contributi, il 9% arriva a una contribuzione fra i 35 e i 40 anni e ben il 52% è al di sotto dei vent’anni. Il che la dice lunga su ogni ipotesi di elevamento dell’età pensionabile per le donne, che attualmente in Italia avrebbe solo l’effetto di peggiorare le condizioni per quelle poche che riescono ad andare in pensione con una vita lavorativa consistente alle spalle.
Prima di omologarsi ad una stramba idea di parità, ci piacerebbe che almeno il sistema dell’informazione desse conto di questa condizione in modo documentato. E forse scopriremmo che quella della disparità tra differenti è l’unica uguaglianza e una battaglia politica che val la pena di fare. (Rosa Rinaldi)

da Il Manifesto

Dati Istat su pensioni

News > 14-06-2010

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Pensioni: il 70% è sotto i mille euro

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Oltre il 70 per cento delle pensioni non supera i mille euro. E’ quanto emerge dal rapporto su “trattamenti pensionistici e beneficiari” elaborato dall’Istat in collaborazione con l’Inps. Un dato, questo, che si riferisce al 2008, ma che arriva nel pieno della discussione sulla manovra varata dal governo che blocca le finestre di uscita per i lavoratori italiani.

Il quadro fornito  dall’Istat vede il 71,9 per cento dei pensionati non superare i 1.000 euro mensili. Tra l’altro, secondo l’Istituto di statistica, il 45,9 per cento delle pensioni ha importi mensili addirittura inferiori a 500 euro, mentre il 26 per cento ha importi mensili compresi tra 500 e mille euro.

Ma c’è di più. Più dei due terzi dei pensionati italiani (67,6 per cento) godono di una sola pensione. Il 32,4 per cento dei pensionati, invece, nel 2008 aveva più di una pensione. In particolare, secondo l’Istat, il 24,6 per cento era titolare di due pensioni, mentre il 7,8 per cento almeno di tre.

Complessivamente, la spesa per le pensioni ha raggiunto nel 2008 quota 241,1 miliardi di euro, con un aumento del 3,5 per cento rispetto al 2007. Lo comunica l’Istat, precisando che la spesa ha raggiunto il 15,38 per cento del Pil.

L’Istat spiega che “il maggiore incremento della spesa complessiva annua si registra per le pensioni di invalidità civile (+6,5 per cento), e che “tale crescita è dovuta all’aumento del numero delle prestazioni più che alla variazione del loro importo medio”.

Le pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti sono 18,6 milioni, con una spesa complessiva di 217,216 miliardi di euro ed un importo medio annuo di 11.662 euro. Il 50,5 per cento dei trattamenti pensionistici è rappresentato da pensioni di vecchiaia o anzianità, per una spesa pari a 168,897 miliardi di euro ed un importo medio annuo di 14.063 euro.

Il numero di pensionati è di quasi 16,8 milioni, dato pressoché invariato rispetto al 2007 (+0,04 per cento), con un numero di pensioni procapite pari a 1,4. “Sebbene la quota di donne sia pari al 53 per cento, gli uomini percepiscono il 56 per cento dei redditi pensionistici, a causa del maggiore importo medio dei trattamenti percepiti (17.137 euro rispetto agli 11.906 euro medi delle donne)”, aggiunge l’Istat.

Per quanto riguarda la spesa per pensioni di vecchiaia l’incremento è pari al 4,2 per cento. Più contenuto appare l’aumento della spesa per le pensioni e assegni sociali (+4,3 per cento), per le prestazioni indennitarie (+4 per cento) e per le pensioni ai superstiti (+2 per cento). Risulta in diminuzione, invece, la spesa per pensioni di invalidità e assegni ordinari di invalidità (-3,8 per cento) e per pensioni di guerra (-1 per cento). “In questi casi il calo di spesa è dovuto alla riduzione del numero delle prestazioni che ha più che controbilanciato la variazione positiva degli importi medi”, aggiunge l’Istat.

da Rassegna.it