Archivi giornalieri: 24 ottobre 2011

ULTIME SENTENZE DI CASSAZIONE INSERITE

ULTIME SENTENZE DI CASSAZIONE INSERITE

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Rispetto delle regole di correttezza e buona fede in caso di licenziamento

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L’insulto sul luogo di lavoro è reato

     sentenza n. 37380 del 17 ottobre 2011

 

Dolo generico per il reato di omesso o intempestivo versamento delle ritenute

     sentenza n. 35895 del 4 ottobre 2011

Truffa aggravata per il dirigente che protegge l’assenteista

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Azione esecutiva sulla cifra lorda in caso di stipendi non pagati

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     sentenza n. 32934 del 31 agosto 2011

Matrimonio e divieto di licenziamento

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Piccolo furto e licenziamento per giusta causa

     sentenza n. 17739 del 29 agosto 2011

Periodo di comporto e lavoratore invalido

     sentenza n. 17720 del 29 agosto 2011

 

Permessi studio anche per i lavoratori a tempo determinato 

     sentenza n. 17401 del 19 agosto 2011

 

 

Cass. Pen. Sez. V Sent. 37380 del 17.10.2011

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REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE

 

Composta da:

Dott. RENATO LUIGI CALABRESE                                                      – Presidente –

Dott. ALFONSO AMATO                                                                   – Consigliere –

Dott. GIAN GIACOMO SANDRELLI                                           – Consigliere –

Dott. MARIA VESSICHELLI                                                                 – Consigliere –

Dott. CARLO ZAZA                                                                       – Consigliere rel. –      

ha pronunciato la seguente

 SENTENZA

 sul ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Caltanissetta avverso la sentenza di quest’ultima Corte in data 3.2.2011 nei confronti di Xxxx, nato a Regalbuto il —-

 visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza;

udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Enrico Delehaye, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata; uditi i difensori della parte civile Avv.—— che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, e dell’imputato Avv. ———

che ha concluso per il rigetto del ricorso;

 RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata, in riforma della sentenza del Tribunale di Enna in data 21.6.2007, veniva assolto per insussistenza del fatto dall’imputazione del reato di cui all’art.594 cod. pen., contestato come commesso l’11.6.2002 nel corso di una riunione del consiglio di istituto della scuola professionale di Piazza —— della quale l’imputato era preside, rivolgendo al docente Speciale Yyyy la frase <lei dice solo stronzate > >.

Le conclusione assolutoria era assunta osservando che l’avverbio «solo» anteposto alla parola volgare non compariva nel verbale nella riunione e dello stesso racconto della persona offesa, e che di conseguenza la frase ne risultava indirizzata non al modo di essere di quest’ultima ma a quanto la stessa aveva argomentato nella specifica circostanza.

Il ricorrente deduce violazione di legge e contraddittorietà o illogicità della motivazione osservando che il termine stronzate, pur se privo dell’avverbio peraltro non escluso dallo stesso imputato, mantiene un significato offensivo soprattutto in quanto pronunciato in un consesso di educatori, e in quanto rivolto in presenza dei colleghi si riverbera necessariamente sul pensiero e quindi sul modo di essere della parte offesa, rivelando l’intenzione di umiliarla.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è fondato.

Pur non considerando l’avverbio la cui formulazione veniva ritenuta non provata dalla Corte territoriale, non è invero possibile valutare la portata offensiva del termine oggetto dell’imputazione, sotto il profilo della sua incidenza sulla persona del soggetto passivo piuttosto che sulla sola validità dell’opinione dallo stesso manifestata, in una prospettiva avulsa dal contesto nel quale l’espressione è pronunciata. 

Dei beni che costituiscono l’oggetto giuridico del reato in discussione, l’onore attiene alle qualità che concorrono a determinare il valore di un individuo, mentre il decoro concerne il rispetto o il riguardo di cui ciascun essere umano è comunque degno (Sez. 5, n.34599 del 4.7.2008, imp. Camozzi, Rv.241346); il giudizio sulla lesione effettiva di detti beni non può pertanto prescindere dal considerare se, rispetto all’ambiente nel quale una determinata espressione è profferita, la stessa si limiti alla pur aspra critica di un’opinione non condivisa ovvero trasmodi nello squalificare la persona destinataria rispetto ai profili appena indicati. 

Nel caso in esame, la collocazione dell’episodio in una riunione di docenti di un istituto scolastico, lo svolgimento dello stesso in presenza di colleghi quotidianamente impegnati in un’attività professionale comune a quella del soggetto passivo e la provenienza dell’espressione contestata da un immediato superiore di quest’ultimo sono elementi sicuramente rilevanti nel definire l’incidenza lesiva della condotta, e la cui portata doveva pertanto essere esaminata ai fini di un compiuto giudizio sull’esistenza o meno di un pregiudizio per l’onore e il decoro della parte offesa nel proprio ambiente lavorativo ed umano. 

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Caltanissetta per un nuovo esame che tenga conto degli aspetti motivazionali appena indicati.

 P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Caltanissetta.

Così deciso in Roma il 13.7.2011

 

Il Presidente

Il Consigliere estensore

 

Depositato in cancelleria il 17/10/201

Permessi studio – Fruibili anche dal dipendente con rapporto di lavoro a tempo determinato

Corte di Cassazione Sez. Lavoro – Sent. del 19.08.2011, n. 17401

Svolgimento del processo

Con ordinanza del 2911.2005 emessa ex art. 700 c.p.c il Tribunale del lavoro di Trento su ricorso di (…) ordinava al Ministero della giustizia di dare disposizioni affinché (…) fosse riammesso nella graduatoria predisposta dalla Procura generale presso la Corte di appello di Trento in modo da poter usufruire entro il 31.12.2005 dei permessi retribuiti per motivi di studio nella misura di 150 ore individuali.
Il (…) con ricorso deI 6.12.2005 adiva il Tribunale del lavoro di Trento chiedendo la conferma del provvedimento emesso in via di urgenza. Si costituiva il Ministero chiedendo la revoca del provvedimento. Il Tribunale con sentenza del 16.6.2006 confermava l’ordinanza impugnata condannando il convenuto a riammettere il (…) nella graduatoria prima citata, con condanna alla rifusione delle spese del giudizio. Avverso tale sentenza interponeva appello il Ministero della Giustizia chiedendo la sospensione del giudizio con la rimessione degli atti all’Aran ex art. 64 decreto_legislativo_165_2001 e nel merito la riforma dell’impugnata sentenza. La Corte di appello, circa la richiesta di rimessione degli atti all’Aran, rilevava che la richiesta era stata tardivamente proposta e che non poteva essere avanzata in relazione a contratti integrativi collettivi. Inoltre doveva, nel merito, applicarsi il principio di cui all’art. 6 D. Lgs. 165/2001 che aveva trasfuso nella nuova normativa quanto già stabilito dalI’art. 5 della legge_230_1962 che vietava ogni trattamento discriminatorio nei confronti dei lavoratori a termine da intendersi non limitato agli aspetti retributivi. La revoca dell’accesso ai permessi dal 2005, sempre concessi a lavoratori a termine di cui all’accordo sindacale del 28.72003 e già riconosciuto nell’accordo del 28.11.2002, è in contraddizione con il principio di non discriminazione posto nel D.lgs del 2001 e in forma più generale nella direttiva_70_1999. Il parere dell’Aran del 2005 circa l’impossibilità di estendere ai lavoratori a termine il beneficio previsto all’art. 13 CCNL 16.5.2001, vista la delimitazione in favore dei soli lavoratori a tempo indeterminato, non solo non considerava che sino al 2005 tale beneficio era stato nei fatti attribuito, ma che tale limitazione era contraria al divieto di discriminazione di cui all’art. 6 decreto_legislativo_368_2001che espressamente riguarda anche un diritto come quello alle ferie pacificamente non a carattere retributivo.
Ricorre con quattro motivi il Ministero della giustizia.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 64 D. lgvo 165/2001: la disposizione controversa non è contenuta, come affermato dalla Corte territoriale in un contratto integrativo ex art. 40 terzo comma D. lgs 165/2001, ma in un contratto collettivo nazionale stipulato con la partecipazione dell’Aran. Il motivo è inammissibile, avendo la Corte territoriale respinto, in primo luogo, la richiesta di rimessione degli atti all’Aran, per essere la stessa stata avanzata tardivamente : sul punto non vi è alcuna impugnazione.
Con il secondo motivo (nel quale si sono accorpate tre doglianze concernenti pretese violazioni o di legge o di contratti) si allega la violazione dell’art. 13 CCNL 16.5.2001, che esclude esplicitamente i lavoratori a tempo determinato dall’accesso ai permessi di cui è causa; tale disposizione non viola l’art. 6 del D. Lgs. 368/2001, perché la norma si riferisce agli istituti di ordine retributivo, non sussistendo l’interesse del datore di lavoro a consentire un miglioramento culturale in favore di un lavoratore non dipendente in via definitiva, miglioramento del quale il datore di lavoro non potrebbe in concreto beneficiare. Il riconoscimento successivo dei permessi anche ai lavoratori a termine è stato apportato dalla contrattazione collettiva decentrata in violazione del contratto nazionale in quanto la materia non è devoluta alla contrattazione integrativa, con violazione dell’art. 40 D.lvo 165/2001 e dell’art. 6 del D. Lgs. 368/2001.
Il complesso motivo non appare fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’intervenuta revoca del beneficio di accesso ai permessi- studio concessi anche ai lavoratori a termine di cui all’accordo del 28.7.2003 sia contrario al principio di parità di trattamento ed abbia, comunque, carattere discriminatorio, in violazione dell’art. 6 D.lgs 368/2001 (art. 6) e della clausola della direttiva Ce/70/1999.
Il Ministero ricorrente richiama sul punto l’art. 13 del CCCNL del 16.5.2001(integrativo di quello di comparto Ministeri del 16.2.1999) che stabilisce che “ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato sono concessi speciali permessi retributivi”. Pertanto, osserva parte ricorrente, la norma “a monte” della contrattazione collettiva escludeva i lavoratori a termine e la disposizione non violava le norme di legge sulla parità di trattamento che si riferiscono ai soli aspetti retributivi. La contrattazione integrativa non poteva intervenire, come detto, nella materia in quanto non autorizzata dal primo livello di contrattazione. Il quesito di diritto ( cfr. pag. 13 del ricorso) sintetizza il punto chiedendo se l’art. 13 CCNL prima citato sia applicabile anche i lavoratori a termine. Ora sul punto va richiamato l’orientamento già espresso da questa Corte che si ritiene del tutto condivisibile : in base a un’interpretazione coerente con il principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato, sancito dall’art. 6 del d. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, in attuazione della direttiva comunitaria 70/1999 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES deve ritenersi che l’art. 13 deI c.c.n.l. del 16 maggio 2001, relativo al comparto ministeri e integrativo del precedente ccnl del 16 febbraio 1999, nel prevedere la fruibilità di permessi retribuiti per motivi di studio, nella misura di 150 ore, da parte dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non esclude che i medesimi permessi debbano essere concessi a dipendenti assunti a tempo determinato, sempre che non vi sia un’obiettiva incompatibilità in relazione alla natura del singolo contratto a termine; né l’esclusione del beneficio potrebbe giustificarsi, in ragione della mera apposizione del termine di durata contrattuale, per l’assenza di uno specifico interesse della P.A. alla elevazione culturale dei dipendenti, giacché la fruizione dei permessi di studio prescinde dalla sussistenza di un tale interesse in capo al datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile a diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione (art. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (art. 2 Protocollo addizionale CEDU), e tutelati dalla legge in relazione ai diritti dei lavoratori studenti (art. 10 della legge n. 300 del 1970)”( Cass. n. 3871/2011). Ora la Corte ha espressamente esaminato la ratio ed il contenuto dell’art. 6 del D. lgs n. 368/2001. La premessa dell’intero decreto è, infatti, l’approvazione della direttiva 1999/70 Ce del Consiglio del 28.6.1999 che ha recepito, dandovi attuazione, l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.3.1999 fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (Unione delle confederazioni della Comunità europea-Unice, Centro europeo dell’impresa a partecipazione pubblica- Ceep Confederazione europea dei sindacati Ces).
Al considerando n. 14 della Direttiva (che ripropone poi direttamente il contenuto dell’accordo sottoscritto dalle tra le parti sociali ) si legge che “le parti contraenti hanno voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che stabilisce i principi generali e i requisiti minimi per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato : hanno espresso l’intenzione di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione, nonché di creare un quadro per prevenzione degli abusi; nel Preambolo del vero e proprio accordo quadro (terzo capoverso) si legge “il presente accordo stabilisce i principi generali ed i requisiti minimi relativi al Iavoro a tempo determinato. Esso indica Ia volontà delle parti sociali di ristabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni “. Ciò premesso nella clausola ad hoc, la n. 4, sul principio di non discriminazione per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto a tempo determinato”. Ora l’art. 6 D. Lgs. n. 368/2001 è contenuto in un provvedimento che si autodefinisce come di “attuazione della direttiva 1999/70″ e pertanto, ai di là di quanto sia riproduttivo o meno di precedenti disposizioni antidiscriminatorie contenute nella normativa del 1962, si tratta di una norma che recepisce la clausola n. 4 della direttiva, punto centrale e determinante dell’intervento regolativo sovra-nazionale come emerge da quanto concordemente asserito dalla istituzioni dell’Unione e dalle parti sociali. L’art 6, ha già osservato la Suprema Corte nella sentenza sovracitata, si affianca ad altre disposizioni come l’art. 7 e l’art. 10 che a loro volta recepiscono altri punti specifici della direttiva.
Resta così da esaminare l’esatto contenuto della norma che recita” al prestatore di lavoro con contratto a tempo indeterminato spettano le ferie e la gratifica natalizia e la 13° mensilità, il TFR ed ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili”. Questa Corte ha già osservato “che il principio è esteso ad ogni trattamento sia economico che normativo, come indica il chiaro riferimento ad “ogni altro trattamento in atto nell’impresa”, oltre che la espressa menzione, fra i diritti oggetto di applicazione della norma dettata dall’art. 6 dell’istituto delle ferie, che solo indirettamente è legato alla retribuzione ed è connesso, in via diretta, al diritto al riposo del prestatore di lavoro. In secondo luogo la previsione di eccezioni al principio di non discriminazione si riferisce ad oggettive incompatibilità di determinati trattamenti previsti per gli altri lavoratori con la natura del singolo contratto a termine: la incompatibilità, quindi, deve essere obiettiva e, in particolare, deve riguardare non già la mera esistenza del termine di durata del rapporto, bensì la natura dello specifico rapporto, con la conseguenza che l’ostacolo che impedisce il riconoscimento di un determinato diritto, non solo deve rivelarsi non eliminabile con frazionamenti temporali del trattamento mediante il criterio del pro rata temporis ma deve, altresì, essere valutato in concreto, in relazione alle specifiche modalità di svolgimento del rapporto e alle obiettive esigenze e finalità su cui si fonda la legittima apposizione del termine di durata del contratto”( Cass. n. 3871/2001 pag7).
Si impone peraltro una “interpretazione conforme” della norma di cui all’art. 6 posto che si tratta di una disposizione contenuta, come detto, nell’atto legislativo interno di ricezione della direttiva del 99, essendo del tutto evidente la volontà del legislatore sovranazionale di evitare ogni forma di discriminazione nelle” condizioni di impiego” ai danni dei lavoratori a termine che non sia sorretta da “ragioni oggettive”, e quindi non riferibile ai soli aspetti retributivi.
La dottrina ha da tempo osservato che quanto alla non discriminazione, rispetto ai lavoratori pieno iure comparabili, costituisce un” principio generale” della disciplina sopranazionale in materia di contratti ” atipici”, posto che anche la direttiva 97/81 sul part-time (anch’essa frutto del dialogo sociale) prevede una clausola antidiscriminatoria molto simile a quella prima esaminata, così come una norma sulla parità di trattamento ( art. 5) figura nella direttiva sui lavoratori dipendenti delle agenzie di lavoro interinale (2008/104). lI principio del divieto di “qualsiasi forma di discriminazione” è oggi scolpito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (più nota come Carta di Nizza) ed affermato tendenzialmente in chiave generale, in quanto la norma del Bili of rights europeo, dopo aver posto il divieto in astratto, specifica alcune particolari forme di discriminazione (sulle quali in genere l’Unione ha dettato e varato regolamentazioni ad hoc) che però non esauriscono l’intera sfera di applicazione, certamente a livello orientativo ed interpretativo, della norma che, nel campo della disciplina del lavoro “atipico”, ha comunque già da tempo trovato una sua razionale ed efficace regolamentazione. Pertanto le ipotesi di deroga alla
clausola n. 4 della direttiva del 99 vanno ricostruite in modo rigoroso e non estensivo. Deve, alla luce di questi criteri ermeneutici escludersi che l’art. 13 del CCNL abbia a fondamento un’oggettiva
incompatibilità riferita alla natura del rapporto a termine intercorso tra le parti per la concessione dei permessi studio. Come già osservato da questa Corte tale incompatibilità non può essere
ravvisata, come sostiene l’ammininistrazione ricorrente, nella limitata durata del rapporto che impedirebbe alla stessa di avvalersi della elevazione conseguente alla fruizione dei permessi di studio: “ed infatti il riconoscimento di determinati benefici, quali quelli in esame prescinde da un siffatto interesse del datore di lavoro, pubblico o privato, essendo diretto alla concreta attuazione di fondamentali garanzie costituzionale, riconosciute nell’ordinamento internazionale e recepite altresì dal legislatore nella definizione dei diritti spettanti ai lavoratori studenti (art. 2 e 3 cost. art. 2 Protocollo Cedu, art. 10 L.n. 300/70) le quali devono trovare una concreta ed effettiva attuazione nell’ambito di un equo bilanciamento con gli interessi, pure essi tutelati, alla libera organizzazione dell’impresa e all’efficienza della pubblica amministrazione ( art. 41 e 97 Cost.)” ( Cass. n. 03871/2011 pag. 7). Peraltro va sottolineato come quello all’istruzione sia oggi sancito come un diritto fondamentale di matrice europea anche dall’art. 14 della Carta dì Nizza che, accanto alle norme costituzionali interne ed a quelle internazionali (Cedu), non può che orientare la scelta legislativa e contrattuale di facilitare il lavoratore nell’accesso alla cultura, nel prioritario interesse del soggetto-lavoratore. In punto di fatto peraltro emerge ex actis che in ogni caso il contratto del resistente è stato prorogato più volte, sicché l’amministrazione non può in concreto neppure ragionevolmente dolersi di non potere utilizzare gli studi condotti dal (…) che è stato più volte riconfermato nel suo “precario” posto di lavoro.
Da ultimo va osservato che l’argomento proposto da parte ricorrente per cui i permessi di studio non potrebbero essere facilmente frazionati appare generico ed inconferente. La ratio dei permessi in parola è, come detto, quella di consentire l’effettività del diritto allo studio nonostante sia in atto un rapporto di lavoro e tale difficoltà di conciliazione tra tempi di lavoro e studio non si pone ovviamente nei periodi in cui il soggetto non è occupato. Pertanto i permessi appaiono facilmente frazionabili in relazione alla durata in cui il rapporto ha avuto concretamente corso e non appare sussistere alcuna difficoltà logica o anche pragmatica per questa semplice operazione di frazionamento del monte ore a disposizione, fermo restando che questo non è il caso del ricorrente in primo grado che ha richiesto i permessi in relazione e per anni in cui il lavoro non ha subito interruzioni di sorta.
In conclusione come già ritenuto da questa Corte in fattispecie identica l’art. 13 del CCNL va interpretato nel senso che pur, prevedendo esplicitamente la fruibilità dei permessi per motivi di studio solo per il personale assunti a tempo indeterminato, non esclude il personale a tempo determinato, come ritenuto dalla sentenza impugnata. Sarebbe indubbiamente paradossale e contrario all’attuale sistema di integrazione tra fonti a livello europeo se fosse consentito ad una contrattazione collettiva di un comparto pubblico (in cui certamente il datore di lavoro è destinatario diretto dei precetti della normativa dell’Unione) porre nel nulla i “principi cardine” di una disciplina come quella in esame definiti proprio dalle parti sociali in sede sovra-nazionale e recepiti dal legislatore europeo in una direttiva.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso; nulla per le spese.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Nulla per le spese

 

Depositata in Cancelleria il 19.08.2011

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