Scuola di dignità
27 novembre 2015
Nella sua ultima giornata a Nairobi il Papa ha portato il mondo a scuola di dignità, solidarietà e autenticità. Nella prima mattina di venerdì 27 novembre Francesco è andato a trovare gli abitanti della baraccopoli di Kangemi, una delle sette bidonville incastonate nel tessuto urbano di Nairobi. Vi sopravvivono circa novecentomila persone. Solo a Kangemi se ne contano oltre centomila.
Siamo a soli cinque chilometri dalla nunziatura e già semplicemente l’avvicinarsi è come un pugno nello stomaco: dalla strada, da lontano si vede un’immensa distesa di lamiere, stracci e tavole cadenti e, quando piove, un tappeto di fango.
Il Pontefice è arrivato con la papamobile, accompagnato da due ali di folla entusiasta. Lo sterrato della via principale è stato un po’ sistemato per l’occasione, alcune buche sono state riempite. Del resto, ogni casa, quando ha un ospite di riguardo cerca di essere più accogliente. Ma basta spostare lo sguardo di qualche metro e affiora tutta la durezza di questa vita: detriti, spazzatura, scoli, liquami, vecchi copertoni.
Al margine della strada, la tipica terra rossa che tanto affascina i turisti che vengono in Kenya, qui sembra ferita, rivoltata come fosse passato un aratro, quasi sanguinante di fronte a tanta miseria.
A Kangemi si vive di niente. Eppure, incrociando tanti sguardi, accanto alla stanchezza di una vita trascinata, s’incontra anche tanta dignità. Davanti a una baracca, circondata da immondizie e detriti, una ragazza pulisce la soglia con uno straccio. Mezzo metro quadrato. Ovunque intorno c’è terra e sporcizia, ma la ragazza, a modo suo, si prepara ad accogliere il Papa.
Ecco cosa significa quel Karibu Nyumbani (“Benvenuto a casa”) ripetuto a nome di tutti i presenti dall’arcivescovo Martin Musonda Kivuva, presidente della Caritas del Kenya. Benvenuto a casa: questa è la nostra vita, la dividiamo con te.
Kangemi è una periferia del mondo che sta cercando di riscattarsi, ed è proprio questo l’esempio per il mondo che Francesco ha voluto cercare nel visitare lo slum. Qui, grazie all’attività della parrocchia di San Giuseppe lavoratore, affidata al gesuita Pascal Mwaijage, si cerca di rendere le persone per quanto possibile protagoniste del proprio destino, non vittime passive di una società ingiusta. A poche centinaia di metri la parrocchia gestisce anche un centro di assistenza per malati di aids.
Incontrare il Papa è per la gente una gioia immensa. Francesco è arrivato in parrocchia alle 8.35. Tra gli altri, a riceverlo, oltre a monsignor Kivuva, c’erano padre Joseph Oduor Afulo, superiore generale dei gesuiti per l’Africa orientale, il vescovo Cornelius Arap Korir, incaricato della Caritas locale, e suor Mary Kleen, impegnata nel quartiere. In chiesa circa milleduecento persone: il loro canto e i loro applausi hanno riempito i minuti in cui il Pontefice si è fermato a salutare alcuni anziani e malati. A ognuno una carezza, una parola, un sorriso. Ha lasciato anche che un’anziana signora poggiasse la propria mano sulla sua testa, quasi a riceverne una benedizione. Poi è lui che l’ha ricambiata col medesimo gesto.
Dopo la firma del libro degli ospiti — sul quale Francesco ha scritto in inglese «La parrocchia di San Giuseppe lavoratore testimoni sempre la misericordia e l’amore del Padre per ogni persona» — e il saluto di un abitante della bidonville di Kibera e di suor Kleen, sono giunte le parole del Papa, colme di affetto per i presenti ma anche di severa chiarezza per chi è chiamato a garantire «una rispettosa integrazione urbana». Tra la gente, la piccola Anna, due anni, avvolta in un cappottino blu di panno e con le treccine impreziosite dalle perline di plastica. La mamma le ha messo il vestito più bello: «Il Papa è venuto a trovare proprio noi. Karibu Nyumbani».
A qualche chilometro di distanza, lo stadio Kasarani si era già riempito dell’entusiasmo dei giovani kenyani. Francesco è arrivato alle 10.20, ma già da ore ragazzi e ragazze ballavano e cantavano a squarciagola. Hanno coinvolto anche tutti i vescovi presenti, che si sono lasciati prendere dal ritmo e hanno finito col danzare anche loro. Si è poi aggiunto il presidente Uhuru Kenyatta, e con lui la first lady e tutto il seguito di autorità. Gli spalti ondeggiavano animati dalle “ola” delle decine di migliaia di presenti. Anche il sole, finalmente, ha accompagnato questo festoso saluto a Papa Francesco. Baba Tnakupenda Karibu Kenya (“Papa, ti vogliamo bene, benvenuto in Kenya”) il canto ripetuto all’infinito.
Il Pontefice è entrato, alle 10.35, a bordo della papamobile e dopo un mezzo giro di stadio si è fermato sotto un tendone ad ascoltare il coro universitario composto da studenti di vari atenei. Una ragazza non vedente ha letto un passo della lettera di san Paolo a Timoteo. Dopo il canto dell’Ave Maria di Gounod, il Pontefice ha ascoltato il saluto del vescovo incaricato della pastorale dei laici, monsignor Anthony Muheria, le testimonianze e le domande di due giovani. Prima di prendere la parola, Francesco ha ricevuto anche un rosario, simbolo della preghiera che per un mese e mezzo i giovani kenyani hanno fatto in preparazione alla sua visita.
Dopo il discorso pronunciato a braccio in spagnolo — durante il quale Francesco ha invitato tutti i presenti a stringersi le mani per testimoniare il no a ogni forma di tribalismo e divisione — il Papa ha chiesto a tutti di alzarsi e di recitare con lui in inglese il Padre Nostro. Poi ha impartito la benedizione e si è recato in una sala dello stadio per incontrare i vescovi del Paese. Quindi il trasferimento alla nunziatura apostolica e, successivamente, all’aeroporto per il congedo dal Kenya e la partenza alla volta dell’Uganda, dove è giunto poco dopo le 17 locali.
dal nostro inviato Maurizio Fontana
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