Archivi giornalieri: 2 marzo 2012

Welfare – I lavori della Conferenza “Cresce il welfare, cresce l’Italia”

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E’ iniziata ieri  la conferenza nazionale “Cresce il welfare, cresce l’Italia”. Cinquanta organizzazioni sociali del nostro Paese si sono ritrovate a Roma, al Centro congressi Frentani, per un convegno dedicato al legame tra sviluppo economico e rilancio dello stato sociale.

Alle  relazioni che si sono svolte in plenaria nella mattinata sono seguite poi, nel pomeriggio, i  lavori di approfondimento nelle sette sessioni a cui partecipano analisti, economisti e specialisti di scienze sociali, che hanno l’obiettivo di sviluppare una riflessione su quelle tematiche considerate determinanti alla crescita del Paese e al sistema di welfare, quali: “Universalismo e diritti di cittadinanza”;”Profili di una nuova governance territoriale”; “Integrazione e coordinamento delle politiche dell’assistenza e della sanita”; “Tra lavoro, nuova domanda sociale e responsabilità familiari”; “Le risorse per il welfare”; “Politiche per lo sviluppo e terzo settore”; “Welfare d’iniziativa e di inclusione”.

Nicoletta Tedosi, a nome del Comitato promotore, nell’introdurre i lavori della Conferenza nazionale ha sottolineato che “Gli obiettivi del Comitato sono chiari e sono stati esplicitati nel “Manifesto per un welfare del XXI secolo” al quale hanno aderito le organizzazioni promotrici di questa iniziativa. Così come sono chiare anche le possibili soluzioni. E’ a fronte di ciò che si propone una sede di confronto permanente tra Regioni, enti locali, organizzazioni sociali, Terzo settore, che parta dall’esperienza dell’Osservatorio per la legge n. 328″. 

“Ciò che sta accadendo in questi mesi – ha proseguito la Teodosi  – sta mostrando tutta la fragilità del sistema Europa, visto invece da importanti studiosi come l’utopia possibile proprio perchè le sue diversità e debolezze sono le componenti essenziali della sua forza. Per noi, tra i punti di forza vanno inseriti i diritti di cittadinanza di cui tutti gli europei possono godere, un pò meno i non europei”.

 
“Il welfare è un’evoluzione culturale, un investimento sociale e produttivo – ha sottolineato Teodosi – di cui beneficiano il mercato, il settore pubblico e privato, profit e non profit, le persone di ogni età, di ogni condizione, di origine culturale senza distinzione alcuna. Ridurlo a spesa sociale è sbagliato, è piuttosto l’investimento sociale per eccellenza. E’ la garanzia di un’occupazione di qualità’, per l’accesso ai servizi sociali e sanitari per tutti coloro che ne fanno richiesta, anche contribuendo secondo le proprie possibilità; è la garanzia per l’accesso a una istruzione e formazione inclusive, servizi pubblici efficienti più rispondenti ai bisogni che non ai limiti dell’offerta”.

“Così oggi non è, per questo vogliamo dire – ha ribadito ancora la Teodosi – che il modello di Stato sociale che conosciamo non va più bene, che siamo disposti a lavorare per costruirne uno nuovo, a patto che si riveda anche il modello di sviluppo, che non può essere basato solo sulla crescita, la competitività, il rigore. Noi siamo qui proprio per ripensare a un nuovo modello sociale, in una visione allargata e integrata”.

“Quello che chiediamo di conoscere, o almeno vorremmo capire, è quali sono gli obiettivi del governo e del Parlamento – ha concluso – sui questi temi, quali le misure per favorire e garantire una vita dignitosa alle persone più vulnerabili o a rischio di esclusione sociale”.

Marina Boni, dell’area previdenza dell’Inca nazionale, intervenuta nella quarta Commissione “Tra lavoro, nuova domanda sociale e responsabilità familiari” ha sottolineato che “Il mancato rapporto egualitario tra uomini e donne, la scomparsa della solidarietà sociale collettiva nel paese in cui vogliamo vivere, sono due elementi sui quali riflettere per costruire delle alternative valide, utili per dare slancio a uno sviluppo bilanciato e ben distribuito e avviare un percorso virtuoso indispensabile, al quale ciascuno, uomo o donna che sia, possa dare il proprio apporto, rispettando le diversità'”.

“Il patronato e, in particolare, l’Inca, come osservatorio sociale attento e ramificato nel territorio, ha monitorato nel tempo – ha continuato Boni – l’effettiva rispondenza alla domanda individuale e collettiva, saggiando “in vivo” e testando il divario tra teoria e prassi, aspirazione normativa e realizzazione nella realtà quotidiana”.

“Molti diritti sono rimasti sulla carta – ha proseguito – e conquiste che parevano consolidate e indiscutibili sono state negate o rese inesigibili da resistenze burocratiche e volontà coercitive inimmaginabili, complice la crisi economica e il ricatto occupazionale. Si è assistito a una profonda dicotomia tra una devastante crisi economico-sociale e l’elaborazione di diritti e tutele ideate per tempi migliori”.

“A oltre dieci anni dal Testo unico per la tutela della maternità e paternità –  per Boni – sono stati conseguiti “risultati apprezzabili, armonizzando, incorporando e razionalizzando l’intera normativa precedente, prefigurando inoltre ipotesi di alternanza lavoro-figli degne di nota e ricche di suggestioni”. “A questo impianto originario, sufficientemente ben strutturato, si è via via aggiunta e solidificata  una produzione giurisprudenziale di grande valore e di ampio respiro, anche costituzionale”.

Nel Testo unico si rileva tuttavia –  fa notare la Boni – “un profondo divario per quanto riguarda il lavoro subordinato rispetto a tutte le altre molteplici tipologie lavorative, precarie e discontinue, per tutte quelle parvenze di lavoro labili e sfuggenti, in cui la tanto invocata flessibilità è esercitata da parte dei datori di lavoro, a senso unico, ed è da impedimento di ogni progetto di vita e ancor di più di procreazione”. “Quando la crisi economica morde – prosegue – e mina le stesse basi dell’esistenza, pur di avere una possibilità di sopravvivenza, si finisce per rinunciare alla conciliazione tra lavoro e famiglia”.

“Secondo numerose teorie -ricorda ancora la Boni – la famiglia viene considerata l’unico ammortizzatore sociale funzionante, a scapito non solo di un welfare avanzato, ma di quello traballante già esistente, con un ritorno individuale alla tipica arte italiana di arrangiarsi”.

L’economista Paolo Leon ha sottolineato che nel welfare, “il Terzo settore in fondo è una cosiddetta liberalizzazione, senza che vi sia però un reale controllo da parte degli enti locali che non hanno più neanche il fiato per sorreggere un’azione strategica nei confronti soprattutto delle politiche sociali di natura individuale”.

“Di welfare -spiega ancora Leon – ce n’è almeno due. Uno generale universale, che dovrebbe essere gratuito per tutti e ha il significato di liberare i cittadini dal bisogno, in modo che possono esprimere liberamente lo sviluppo della propria personalità’. Ma tutto questo non c’è più’. Il degrado del nostro stato sociale nasce ancora prima che esso fosse stato creato in Italia. Nel compromesso fiscale del passato, il deficit originato dallo stato sociale veniva finanziato dalla banca centrale con l’emissione di moneta, lo stato quindi non si indebitava nei confronti del mercato. Ora non è più così, se c’è un deficit finanziario deve essere finanziato; se non si possono aumentare le tasse, aumenta il debito. In questa stretta, il welfare perde le sue caratteristiche, diventa welfare per i poveri, viene sostituito anche dalla benevolenza privata”.

“Abbiamo dalla parte della resistenza nei confronti di questa situazione, la presenza di grandi e piccole organizzazioni di Terzo settore -ha proseguito Leon- che non sono pietistiche e non sono nemmeno un sostituto dell’azione pubblica. Sono uno strumento dell’azione pubblica per riuscire a rendere meno burocratica, più vicina ai singoli, bisognosi dell’intervento pubblico, l’azione dello Stato. E’ un compito difficile da realizzare e con risorse sempre minori, però, è anche una situazione che rinforza la possibilità di uscire da questo dilemma”.

 “Monti, come del resto Tremonti, tutti i conservatori sono uguali, ritengono – ha detto Leon- che lo stato sociale sia un lusso e che deve essere sostituito dall’intervento privato, vuoi di beneficenza vuoi a pagamento. Ma penso che non ci riusciranno perchè dopo tanti anni la gente è molto attaccata ad alcuni elementi importantissimi dello stato sociale, come  l’assistenza ai disabili e agli anziani, ma anche l’istruzione e la sanità, che sono cardini della nostra società che possono essere forse gradualmente rovinati, ma non possono essere facilmente distrutti”.

“Il welfare -sottolinea Leon – ha anche un significato economico fortissimo: fa risparmiare moltissimo i cittadini rispetto alla sua controparte privata, perchè si provvedono servizi senza che ci siano profitti; questo risparmio rileva sul reddito dei singoli cittadini, che non si rendono però’ conto di questo perchè non c’è un corrispettivo di mercato di questo risparmio. Nel mercato c’è un Pil che comprende la spesa pubblica solo come costo, non come profitto e rendita, come avverrebbe nel settore privato”.

“Inotre, lo stato sociale – conclude Leon – provvede una forma di assicurazione automatica che riduce l’avversione al rischio degli individui, che possono essere così più imprenditivi di quanto lo sarebbero se non ci fosse, e questo è una base della nostra competitività’. Infine, c’è una questione economica molto importante: nelle grandi dimensioni del welfare ci sono economie di dimensione che non si producono nello stesso modo se il welfare fosse privato; nel Terzo settore questa caratteristica di economia di dimensione non c’è, e su questo occorrerebbe ricercare”.

 “E’ necessario ripensare il welfare non solo perchè abbiamo meno risorse, ma anche perchè non era un welfare equo – ha spiegato Chiara Saraceno – e dall’altro, dobbiamo ripensarlo in corsa, in una situazione di risorse scarse e anche di delegittimazione culturale. E’ come se la crisi da cui veniamo fosse colpa del welfare: non è proprio così. Non vorrei che tornassimo a un welfare della carità, perchè la carità è bene che ci sia ma non garantisce cittadinanza. Occorre ripensare l’assetto dei diritti e delle responsabilità. Ripensare un patto tra diversi tipi di lavoratori, tra le generazioni e tra le classi sociali”.

“Le persone -ha sottolineato la Saraceno – chiedono un minimo di protezione sociale adeguata. E nel nostro paese non c’è stata. Non veniamo dall’epoca dell’oro in cui c’era un welfare meraviglioso e ora ce lo tagliano. Veniamo da un’epoca in cui avevamo un welfare molto frammentato, sbrodolato, che offriva forti protezioni per qualche rischio sociale e per qualche soggetto sociale, ma nulla ad altri. Un welfare che, comparativamente rispetto ad altri paesi europei, non aveva e non ha una rete di protezione per i poveri e che ha anche politiche di sostegno alle responsabilità familiari molto carenti”.

“In questo quadro di grave carenza è arrivata la crisi economica – ha concluso la saraceno  – che sta comportando l’aumento della vulnerabilità sul mercato del lavoro in una situazione in cui non tutti sono ugualmente protetti e anche i cosiddetti “protetti”, chi ha un lavoro a tempo indeterminato, sono sempre più vulnerabili”.

“E’ aumentata la vulnerabilità  e si sono ridotte le risorse, soprattutto con quello che è avvenuto per il taglio ai trasferimenti agli enti locali, destinate ai servizi alle persone e al sostegno ai poveri, nei pochi comuni in cui qualche politica in questo senso avveniva”.

Attraverso una  rilettura di quegli articoli della Costituzione (1, 3, 32, 36, 41, 46) che rappresentano i principi fondanti su cui si poggia la dignità della persona, Stefano Rodotà  è intervenuto, sottolineando che è, appunto, partendo da ciò che bisogna riaffermare l’importanza del welfare.

“Il lavoro nella Costituzione – ha sottolineato – non è l’indicazione di una parzialità di una categoria ma è l’elemento unificante, imprescindibile quando si parla di diritto di cittadinanza. Nel lavoro, così come viene trattato negli articoli della Costituzione, si abbandona l’idea di un soggetto astratto e si passa alla persona, e la centralità della persona è  infatti il punto da cui si deve partire quando si parla di cittadinanza”.

“Il nuovo welfare ha bisogno  della Costituzione – ha ribadito Rodotà -, non per essere attardati su posizioni culturalmente e politicamente arretrate, ma perché abbiamo delle fondazioni costituzionali che non sono affatto figlie di una cultura sorpassata  ma guardano alla persona e al cittadino nella loro pienezza, attraverso  il diritto di costruire liberamente   la personalità,    il principio di eguaglianza  el a dignità della persona. Il welfare ha dunque bisogno di una nuova consapevolezza costituzionale affinché non si arretri su quelli che sono i diritti imprescindibili della persona”.