Archivi giornalieri: 7 aprile 2010

CNEL – Il lavoro in fabbrica perde attrattività

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I risultati dell’indagine predisposta dall’IPSOS per il Cnel sulla percezione dell’industria manifatturiera

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L’industria italiana è la seconda in Europa dopo la Germania, ma il Paese non se ne rende conto e soprattutto lo ignorano i giovani per i quali la fabbrica ha perso la capacità di attrazione di un tempo.
A rilevarlo è il Rapporto elaborato dal Cnel intitolato “La scomparsa della fabbrica” e realizzato sulla base di una ricerca elaborata dall’Ipsos, la prima di una serie di indagini sul riposizionamento delle aziende italiane dopo la crisi.
La ricerca indaga vari aspetti dell’attività manifatturiera per cogliere la percezione dell’opinione pubblica sulla struttura economica del paese, per capire come si pongono i giovani di fronte al lavoro, per sondare le ragioni della perdita di attrattività dell’industria ma soprattutto della fabbrica come luogo di produzione di lavoro e ricchezza.

L’industria
Il primo dato che sembra emergere è la scarsa percezione del ruolo dell’industria nazionale manifatturiera come motore dell’innovazione e della crescita del paese, nonostante costituisca la metà del valore aggiunto prodotto.
La maggioranza degli intervistati infatti pensa che il settore più importante per l’Italia sia il turismo (alberghi, agenzie di viaggio ecc) senza grande distinzione tra laureati e non, seguito dalla piccola industria e l’artigianato.

Il lavoro in fabbrica
La prima conseguenza di questa realtà è la fine della fabbrica come luogo ambito nel quale lavorare, o come luogo nel quale vivere esperienze di impegno. Anzi, per i giovani del terzo millennio la fabbrica sembra essere un luogo vecchio, ottocentesco, superato, secondo la ricerca “la parte sommersa e buia dell’industria”; e fare l’operaio sembra essere – secondo i rilevatori – un mestiere senza scelte, senza studi, senza qualifiche professionali, ripetitivo, faticoso, senza prospettive di miglioramento, ultimo gradino della scala sociale rispetto al quale è quasi meglio la precarietà di un call center perché – è detto nelle rilevazioni qualitative della ricerca – “almeno è temporaneo e si è a contatto con la gente”. Appare invece migliore l’idea della fabbrica come luogo di lavoro nel quale c’è più tecnologia, più automazione, maggiori diritti e sicurezza per i lavoratori.

I giovani
Un altro dato rilevante della Ricerca riguarda l’approccio dei giovani al mondo del lavoro. Il dato di partenza, presente diffusamente sia tra i laureati che tra i non laureati, è una certa sfiducia nella possibilità di trovare lavoro: per l’84% dei giovani le opportunità di trovare un’occupazione sono limitate o scarse e per il 15% sono molte o sufficienti. Se il titolo di studio sembra migliorare le prospettive (tra i laureati, i pessimisti che dichiarano poche o scarse opportunità scendono al 75%), per tutti i giovani intervistati, indipendentemente dal grado di istruzione, le maggiori occasioni di lavoro si trovano all’estero (per l’86% dei laureati e per il 67% dei non laureati) con qualche differenza sulle destinazioni: i laureati confidano più nelle opportunità offerte dagli Stati Uniti mentre i non laureati in quelle presenti in Gran Bretagna
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Vaccinazioni e poliemelite – Risarcimento danno ad entrambi i genitori

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Una sentenza tutela i diritti del minore e dei suoi genitori

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L’ultima newsletter dell’Inca (n. 13) si occupa di una recente sentenza (5190/10) della Cassazione Terza Sezione Civile che ha stabilito che quando, in seguito alla vaccinazione, il bambino contrae la poliomielite ha diritto al risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale. Ma anche i genitori devono essere indennizzati singolarmente, in rapporto alla vita di relazione e al dovere di assistenza continua e solidale al minore per il resto della sua vita.

La Cassazione è intervenuta a giudicare un caso in cui la somministrazione del vaccino non venne effettuata, come richiesto, da un medico previa effettuazione di accertamenti sulle condizioni di salute ma anche di riscontri anamnestici ma, bensì, da personale non abilitato e sopratutto in maniera affrettata.

La Corte di appello aveva condannato la Regione a rifondere al minore 900.000 euro ed a ciascuno dei genitori circa 70.000 euro. L’Ente territoriale ha impugnato la sentenza sostenendo che la liquidazione dei danni era avvenuta applicando, sopratutto per il minore, il criterio equitativo puro, senza dar conto di parametri obiettivi medico-legali o tabellari e dunque sosteneva la Regione si era trattato di “una valutazione del tutto arbitraria.

La Cassazione nel respingere il ricorso ha invece ritenuto, sulla base della sentenza 26972/08 delle Sezioni Unite (sentenza con cui le Sezioni Unite hanno ridisegnato il perimetro del pregiudizio non patrimoniale),  che i giudici di appello abbiano considerato espressamente le componenti del danno: biologico (pari all’80% di invalidità del minorenne), morale e patrimoniale (in relazione alla perdita della capacità lavorativa generica del minore).
Naturalmente per pervenire a tale decisione la Corte di Merito ha escluso che nel caso in specie si fosse trattato di tragica fatalità ma che invece fossero accertate una serie di condotte negligenti ed imprudenti del personale della struttura pubblici.
Infatti, secondo i giudici la somministrazione del vaccino non venne effettuata, come richiesto, da un medico dopo avere eseguito accertamenti sulle condizioni di salute e anamnestiche del bambino ma è stata compiuta in maniera affrettata ed illegittima da personale non abilitato. L’evento non si sarebbe verificato qualora, per le condizioni fisiche del bimbo, la vaccinazione fosse stata sospesa o rinviata in relazione a più accurati approfondimenti.
L’Ente sanitario, ricorda la Cassazione, non solo risponde ai sensi dell’articolo 2043 Cc per colpa grave da negligenza ed imprudenza, ma anche in relazione alla qualificazione del rapporto di assistenza come contatto sociale di protezione (Cassazione 589/99).

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Amianto – Salvi i processi per le navi-killer

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Confermata la tutela per i lavoratori esposti all’amianto

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Il giochino è semplice: si cambia la legge con una “interpretazione autentica” e così si esclude ogni responsabilità dei vertici della Marina per l’esposizione all’amianto a bordo delle navi militari. È quanto prevede, in sostanza, l’articolo 20 del collegato lavoro che, tramite una “interpretazione” della legge delega n. 51 del 1955, esclude – appunto – le navi di Stato dall’applicazione delle norme sulla salute e sicurezza, di fatto bloccando i processi in corso a carico di alti ufficiali della Marina.

L’interpretazione avrebbe stoppato due inchieste già iniziate: una a Torino (dove la procura indaga sulla morte di 142 uomini della Marina per esposizione all’amianto) e l’altra a Padova (per altre due vittime della stessa malattia). Eventualità che non è sfuggita al capo dello Stato Giorgio Napolitano che, nel motivare il rinvio alle Camere del ddl lavoro, oltre a segnalare i pericoli sull’arbitrato per i licenziamenti, ha menzionato anche l’articolo 20, in cui resta solo il diritto del lavoratore al risarcimento del danno eventualmente subito. Articolo che a questo punto molto probabilmente sarà soppresso, come ha assicurato il presidente della commissione Lavoro alla Camera, Silvano Moffa.

L’uso dell’amianto sulle navi da guerra per isolarne porte, motori e impianti, è ormai accertato. Ancora oggi proseguono le operazioni di bonifica su imbarcazioni imbottite della sostanza che per cinquant’anni ha contaminato i polmoni dei marinai a Monfalcone, La Spezia e Taranto. Secondo le stime sono almeno 500 le vittime di mesotelioma, il tumore provocato dalle fibre d’asbesto. “Bisogna mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica su una strage che non accenna a finire, dato che la lana di salamandra continuerà a bruciare polmoni ancora per anni e il picco delle malattie è atteso tra nel 2020”, denunciava in una lettera pubblicata un anno fa da rassegna Giuseppe Buonpensero, responsabile per la salute e sicurezza dei lavoratori all’Arsenale di Taranto.

“I lavoratori esposti a rischio amianto devono essere tutelati ovunque questa esposizione si verifichi. E’ assurdo che all’interno di un provvedimento che si sarebbe dovuto occupare di sicurezza sul lavoro, siano state inserite norme – ha dichiarato, alla notizia del rinvio, la vicepresidente dei deputati Pd, Rosa Villecco Calipari – che hanno determinato un vuoto legislativo, per chi opera a bordo del naviglio di Stato o è imbarcato sulle nostre navi militari”. “Riconoscere l’esistenza di un rischio amianto a bordo delle navi militari con riferimento alle attività svolte dal personale – ha ricordato la vicepresidente Pd – è una condizione necessaria per accedere in via amministrativa, cioè in modo semplice e diretto, alle misure risarcitorie stabilendo nel contempo il diritto-dovere alla prevenzione e adottando tutte le precauzioni previste”.

Da Rassegna sindacale