Questa voce è stata curata da Marco Biasi
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Scheda sintetica
Dal punto di vista del diritto del lavoro la malattia viene definita come uno stato patologico tale da determinare una condizione di incapacità al lavoro specifico svolto da quel lavoratore, costituendo un caso di impossibilità della prestazione lavorativa in grado di determinare la sospensione del rapporto di lavoro e non la sua risoluzione.
Il lavoratore che ritenga di essere affetto da malattia deve sottoporsi, in genere già dal primo giorno di malattia, ad un accertamento sanitario da parte del medico curante, incaricato di rilasciare un’apposita “certificazione”, e deve darne immediata comunicazione al datore di lavoro.
Il lavoratore deve fornire la prova dello stato di malattia mediante la certificazione sanitaria rilasciata dal medico curante, che deve essere trasmessa al datore di lavoro e, quando sussiste il diritto all’indennità economica previdenziale a suo carico, all’INPS, entro due giorni dall’inizio della malattia.
Allo scopo di rendere possibile il controllo dello stato di malattia, il lavoratore ha l’obbligo di essere reperibile presso l’indirizzo abituale o il domicilio occasionale durante tutta la durata della malattia, comprese le domeniche ed i giorni festivi, nell’ambito delle fasce di reperibilità stabilite dalla legge: l’ipotesi del ritardo nell’invio della certificazione al datore di lavoro comporta la considerazione dell’assenza come ingiustificata, mentre nel caso di ritardo nell’invio della certificazione all’INPS si verifica la perdita dell’indennità prevista a favore del lavoratore limitatamente ai giorni di ritardo, fatta salva la prova, a carico del lavoratore, di un serio ed apprezzabile motivo a giustificazione del ritardo.
Non è, tuttavia, precluso al datore di lavoro di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, quando non siano diretti ad attribuire all’indagine un carattere sanitario in senso tecnico.
L’art. 2110 del codice civile stabilisce che, in caso di malattia, se la legge o le norme contrattuali non prevedono forme equivalenti di previdenza o assistenza, è dovuta al lavoratore la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme contrattuali o secondo equità: in taluni casi l’onere della retribuzione è sostenuto totalmente dal datore di lavoro (malattia non indennizzata dall’INPS), mentre in altri l’INPS eroga l’indennità di malattia che può essere integrata o meno dal datore di lavoro.
La legge prevede che in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto di lavoro soltanto una volta decorso un certo periodo di tempo, stabilito dalla legge, dai Contratti Collettivi o, in mancanza, dagli usi, che prende il nome di “periodo di comporto”.
Per quanto riguarda le conseguenze del recesso del datore di lavoro prima della scadenza del periodo di comporto, secondo parte della giurisprudenza il recesso deve essere considerato temporaneamente inefficace e, pertanto, idoneo a produrre i suoi effetti solo al termine del periodo di malattia, mentre ad avviso di un’altra parte della giurisprudenza l’atto di recesso deve essere considerato nullo, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’onere di ripetere l’intimazione del licenziamento a guarigione avvenuta o al momento di superamento del periodo di comporto.
Qualora il datore di lavoro intimi il licenziamento durante il periodo di malattia (per motivi diversi), il provvedimento deve essere ritenuto inefficace sino a quando perduri la malattia (con decorso, in tale periodo, dell’obbligo retributivo), per poi riprendere effetto al termine della stessa, salvo il caso del licenziamento per giusta causa, che ha efficacia immediata pur in presenza di uno stato di malattia.
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Fonti normative
- Costituzione: artt. 32 e 38;
- Codice civile: art. 2110;
- Leggi: 300/1970; 223/1991; 133/2008; 604/1966; 638/1983; 833/1978; 33/1980;
- D.L. 663/1979;
- D.M. 15.7.1986;
- RDL 1825/1924;
- Circolari INPS: 134414/1984; 14/1981; 95-bis/2006; 29/1990; 1283/1998; 65/1989; 134368/1981; 152/1990;
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Cosa fare-tempi
Il lavoratore deve fornire la prova dello stato di malattia mediante la certificazione sanitaria rilasciata dal medico curante, che deve essere trasmessa al datore di lavoro e, quando sussiste il diritto all’indennità economica previdenziale a suo carico, all’INPS, entro due giorni dall’inizio della malattia.
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A chi rivolgersi
- Medico Curante;
- Ufficio vertenze sindacale;
- Studio legale esperto in diritto del lavoro;
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Documenti necessari
- Certificazione sanitaria
- Copia del contratto di lavoro
- Busta paga
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Scheda di approfondimento
L’art. 2110 del codice civile prevede alcune ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa dalle quali non deriva la risoluzione del contratto, ma una sospensione dello stesso.
Tra le ipotesi descritte, oltre all’infortunio, alla gravidanza e al puerperio, vi è anche quella di malattia del lavoratore, nella cui disciplina, al pari dell’infortunio (extra-lavorativo o sul lavoro), entrano in gioco esigenze di tutela della salute del lavoratore rientranti nella sfera di protezione offerta dall’art. 32 della Costituzione.
La disposizione, tuttavia, non offre alcuna definizione di malattia ai sensi del diritto del lavoro, né è possibile rinvenire tale definizione in altre norme di legge, sicché è necessario fare riferimento all’elaborazione di tale concetto operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Mentre secondo il linguaggio clinico è malattia qualsiasi alterazione, anche minima, dello stato di salute, dal punto di vista del diritto del lavoro “malattia è uno stato patologico tale da determinare una condizione di incapacità al lavoro specifico svolto da quel lavoratore” (R. Del Punta, Diritto del Lavoro, Giuffrè, Milano, 2008, 537).
Lo stato di malattia deve, pertanto, essere rapportato alle mansioni in concreto svolte dal lavoratore ed al contesto ambientale, nel senso che sarà inabile al lavoro colui che non sarà ragionevolmente in grado di svolgere le proprie mansioni senza un significativo disagio o sofferenza fisica, o senza il rischio di aggravamenti del suo stato.
Il concetto di malattia come infermità comportante incapacità lavorativa deve essere, dunque, subordinato a determinate condizioni: l’incapacità lavorativa deve essere, innanzitutto, concreta, cioè deve essere valutata rispetto al tipo di prestazione richiesta al lavoratore.
La malattia, inoltre deve essere attuale, ossia concretamente manifestatasi e non meramente potenziale, pur dovendosi riferire ad ogni fase del fenomeno morboso, dalla manifestazione iniziale alla cura dello stesso: rientra nel concetto di malattia ai fini della presente analisi, infatti, anche l’ipotesi della cura necessaria per prevenire una malattia che potrebbe anche non comportare un’incapacità lavorativa futura, come nei casi di ricovero ospedaliero per accertamenti diagnostici o per esami di laboratorio necessari per la cura di una patologia (Pret. Massa 14.4.1995, in Riv. It. Dir. lav., 1995, II, 881).
Si precisa, poi, che viene considerata malattia tutelabile ex art. 2110 c.c. anche quella determinata da colpa grave del lavoratore (Cass. 20 gennaio 1975, n. 232), tra cui quella derivante dalla prolungata assunzione di alcool o di sostanze stupefacenti (Cass. 13 febbraio 1997, n. 1314), o dal tentato suicidio (Circ. INPS 1.3.1984, n. 134414).
Dalla malattia va distinta, infine, la sopravvenuta infermità totale del lavoratore, in qualsiasi modo determinatasi, dal momento che la prima ha carattere temporaneo, implicando la totale impossibilità della prestazione per un determinato periodo, mentre la seconda ha carattere permanente, o quanto meno durata indeterminata o indeterminabile (Cass. 24.1.2005, n. 1373, in Riv. It. Dir. lav., 2006, 94): la sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore subordinato configura un caso di impossibilità assoluta per il venir meno della causa del contratto e, pertanto, non è riconducibile ai casi di sospensione legale di cui all’art. 2110 c.c., determinando, quindi, la risoluzione del rapporto senza che la parte interessata abbia necessità di manifestare l’assenza del suo interesse al mantenimento del vincolo giuridico attraverso il recesso (Cass. 20.11.2002, n. 16375).
In ultimo si osserva che, come accennato in precedenza, la disciplina dell’art. 2110 c.c. si applica, con poche varianti, anche in caso di infortunio, comune o sul lavoro: la differenza con la malattia è che l’infortunio deriva da una causa “violenta”, ossia traumatica, ma la conseguenza sullo stato del lavoratore – incapacità al lavoro – è la medesima.
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Gli effetti della malattia sul rapporto di lavoro
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Le conseguenze sugli istituti legali e contrattuali
Come detto, la malattia costituisce un caso di impossibilità della prestazione lavorativa in grado di determinare la sospensione del rapporto di lavoro e non la sua risoluzione.
Pertanto, durante il periodo di malattia l’assenza del lavoratore dal posto di lavoro è giustificata e tale periodo deve essere computato ai fini dell’anzianità di servizio (art. 2110, ultimo comma c.c.).
Inoltre, durante i periodi di aspettativa ex art. 31 Legge 300/1970 S.L. (permessi sindacali), l’interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti all’erogazione delle prestazioni medesime.
Durante i periodi di malattia, poi, il lavoratore non perde il diritto all’erogazione dell’assegno per il nucleo familiare, così come dell’indennità di maternità nel caso di astensione obbligatoria per maternità, mentre nel caso di astensione facoltativa il lavoratore ha diritto al pagamento dell’indennità di malattia.
Il lavoratore che si trovi in Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria ha diritto al pagamento dell’indennità di malattia; in caso di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria i lavoratori sospesi hanno diritto al pagamento dell’integrazione salariale, mentre quelli ad orario ridotto hanno diritto al pagamento dell’indennità di malattia.
I lavoratori in mobilità che si ammalino continuano ad avere diritto all’erogazione dell’indennità di mobilità (art. 7, comma 8 L. 223/91).
Qualora il lavoratore si ammali durante il periodo di prova lo stesso avrà diritto all’indennità di malattia e alla sospensione del periodo di prova.
Per quanto riguarda le ferie, la malattia ha effetto sospensivo sul decorso delle ferie stesse, ma solo ove ciò non vanifichi lo scopo di reintegrare l’energia del lavoratore durante il periodo destinato al riposo: l’effetto sospensivo sul periodo feriale, infatti, non ha valore assoluto, ma discende dall’incompatibilità del singolo stato morboso con l’essenziale funzione di riposo, recupero delle energie e di ricreazione propria delle ferie (Cass. 6 aprile 2006, n. 8016).
Secondo la giurisprudenza, inoltre, nell’ipotesi di sciopero, ossia in un caso “in cui il datore di lavoro si trovi nell’impossibilità di ricevere la prestazione per causa a lui non imputabile, il diritto alla retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia sospeso per malattia ai sensi dell’art. 2110 c.c.” (Cass. 9.4.1998, n. 3691, in D&L, 1998, 973).
Infine, nel caso di sospensione della prestazione di lavoro nel corso dell’anno per malattia, nella retribuzione utile ai fini del calcolo annuale del TFR viene computato l’equivalente della retribuzione alla quale il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di ordinario svolgimento del rapporto di lavoro (art. 2120, comma 3 c.c.).
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Le attività consentite
In linea di principio lo stato di malattia non permette lo svolgimento di alcuna attività lavorativa durante l’assenza.
Tuttavia, ad avviso della giurisprudenza, non sussiste a carico del lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di svolgere altra attività, a condizione che ciò non comporti la compromissione o il ritardo nella guarigione: ciò costituirebbe un caso di inosservanza dei doveri, tra cui quelli di fedeltà (Cass. 12.4.1985, n. 2434), e di diligenza nell’esecuzione delle proprie obbligazioni (Cass. 2.11.1995, n. 11355), nonché, in generale, dei principi di buona fede e correttezza vigenti in materia contrattuale (Cass. 6.10.2005, n. 19414, in Orient. Giur. Lav., 2005, 835).
Secondo consolidata giurisprudenza, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, non solo allorché tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia (dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione dello stato di malattia), ma anche nell’ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (Cass. 3 dicembre 2002, n. 17128).
Il dipendente assente per malattia che venga sorpreso a svolgere attività lavorativa presso terzi ha l’onere di provare la compatibilità dell’attività svolta con la malattia e, quindi, l’inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916): a tal fine sono considerati legittimi gli accertamenti investigativi effettuati dal datore di lavoro per verificare se il lavoratore ammalato svolga contemporaneamente altra attività, dal momento che tali controlli non violano il divieto legale di accertamenti sanitari di controlli sulle infermità del lavoratore posto dall’art. 5 S.L., riguardando “un fatto materiale che integra un illecito disciplinare e non uno stato di malattia” (Cass. 3.5.2001, n. 6236).
Inoltre, il lavoratore in malattia che intenda prestare attività lavorativa presso terzi è tenuto in precedenza ad offrire tale prestazione parziale al proprio datore di lavoro, il quale potrebbe assegnare temporaneamente il lavoratore a quelle mansioni (equivalenti a quelle originarie) per le quali sia stato ritenuto idoneo (Cass. 29 luglio 1998, n. 7467).
Infine va ricordato che nei casi di corresponsione dell’indennità di malattia da parte dell’INPS, l’Istituto interrompe la corresponsione di tale indennità qualora il lavoratore si dedichi ad altre attività retribuite.
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Gli obblighi a carico del datore di lavoro
Durante il periodo di malattia del lavoratore il datore di lavoro deve adempiere a obblighi di natura patrimoniale e non patrimoniale.
A proposito degli obblighi di natura non patrimoniale si osserva che l’art. 2087 c.c. prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ad avviso della giurisprudenza, tra le conseguenze di tale disposizione vi sarebbe anche il fatto che debba essere “soggetto a responsabilità risarcitoria per violazione dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad adibirlo a mansioni che, sebbene corrispondenti con la sua qualifica, siano suscettibili – per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) – di metterne in pericolo la salute”. Infatti, “l’esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla stregua dell’art. 2087 c.c. e la doverosità di un’interpretazione del contratto di lavoro alla luce dei principi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1375 c.c. inducono a ritenere che il datore di lavoro debba adibire il lavoratore affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta ad altre mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile dall’assetto organizzativo dell’impresa, che consenta un’agevole sostituzione con un altro dipendente nei compiti più usuranti” (Cass. 3.7.1997, n. 5961, in D&L, 1998, 463).
Deve ritenersi, dunque, pacifico in giurisprudenza che “il lavoratore ha diritto ad essere adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute” (Pret. Milano 16.11.1995, est. Porcelli, in D&L, 1996, 452) e che “il mancato adeguamento dell’organico che costringa il lavoratore ad un impegno eccessivo rispetto alle sue condizioni di salute costituisce una violazione dell’art. 2087 c.c., oltre che dell’art. 41, comma 2 Cost., con conseguente responsabilità contrattuale del datore di lavoro” (Cass. 1.9.1997, n. 8267, in D&L, 1998, 446).
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Gli adempimenti a carico del lavoratore
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Gli obblighi di comunicazione e di certificazione della malattia
La legge (D.L. 663/1979) e la contrattazione collettiva impongono al lavoratore malato precisi adempimenti nei confronti del datore di lavoro ed, eventualmente, dell’Inps, al fine di mettere questi ultimi nelle condizioni di poter verificare la fondatezza dell’assenza per malattia e giustificare quindi i trattamenti normativi ed economici spettanti al lavoratore.
Innanzitutto, il lavoratore che ritenga di essere affetto da malattia deve sottoporsi, preferibilmente già dal primo giorno di malattia, ad un accertamento sanitario da parte del medico curante, incaricato di rilasciare un’apposita “certificazione”.
Sul punto di precisa che, secondo l’INPS (Circ. INPS 28 gennaio 1981, n. 14), per medico curante si deve intendere sia il medico scelto dall’interessato a norma della Convenzione Nazionale Unica (ossia il c.d. “medico di famiglia”), sia i medici di accettazione ospedaliera sia i medici specialisti o universitari e, in caso di assunzione diretta per assoluta urgenza, anche i medici liberi professionisti.
Per i lavoratori pubblici, invece, è stato previsto dall’art. 71, comma 2 della legge 133/2008 che “nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare”, il lavoratore debba necessariamente presentare una certificazione sanitaria rilasciata da struttura sanitaria pubblica.
I contratti collettivi prevedono che il lavoratore debba comunicare tempestivamente al datore di lavoro la sopravvenienza della malattia: tale obbligo è distinto e, generalmente, precedente rispetto all’invio della certificazione sanitaria: la comunicazione, infatti, serve a giustificare l’assenza dal lavoro, mentre la certificazione è finalizzata a dimostrare l’esistenza della causa giustificativa.
In tal modo al datore di lavoro viene offerta la possibilità di avere, in un primo tempo, la conoscenza della malattia e, in un secondo tempo, la prova della stessa.
I contratti collettivi disciplinano il termine entro il quale va effettuata tale comunicazione e le conseguenze della mancata comunicazione o della mancanza della tempestività della stessa, che, ad avviso della giurisprudenza, devono essere in ogni caso valutate secondo i principi di correttezza e buona fede (Cass. 18.4.1985, n. 2572).
Come detto, il lavoratore deve fornire la prova dello stato di malattia mediante la certificazione sanitaria rilasciata dal medico curante, che deve essere trasmessa al datore di lavoro e, quando sussiste il diritto all’indennità economica previdenziale a suo carico, all’INPS (art. 2 D.L. 663/1979).
Tuttavia, anche nelle ipotesi in cui non è dovuto il trattamento previdenziale permane l’obbligo dell’invio della certificazione all’INPS, in vista di eventuali successive ricadute della malattia: il tal caso, però, il lavoratore può consegnare la certificazione medica al solo datore di lavoro, omettendo, quindi, di inviarla direttamente all’INPS (Circ. INPS 6 settembre 2006, n. 95-bis).
La documentazione medica che deve essere inviata è composta dall’attestato di malattia, diretto al datore di lavoro e contenente l’indicazione della data di inizio e di presunta fine della malattia (c.d. “prognosi”), e dal certificato di diagnosi, diretto all’INPS e contenente, oltre alla prognosi, anche l’indicazione della causa della malattia stessa.
Va sottolineato che mentre il lavoratore è tenuto per legge (art. 2 D.L. 663/1979) a recapitare o trasmettere (con raccomandata con avviso di ricevimento) al datore di lavoro la certificazione di malattia rilasciata dal medico curante entro due giorni dal relativo rilascio, spetta invece al medico curante trasmettere all’INPS, sempre entro il termine di due giorni dal relativo rilascio, il certificato di diagnosi, secondo le tecniche e le modalità procedurali stabilite da quest’ultima.
Il lavoratore, inoltre, è tenuto a comunicare all’INPS e al datore di lavoro il proprio effettivo domicilio durante la malattia, se non coincidente con quello abituale, per permettere l’accertamento dello stato morboso: a tali fine si ritiene sufficiente la compilazione del modulo contenente il certificato di diagnosi da trasmettere all’Istituto (Cass. 15.5.1993, n. 5544), previa verifica dell’esattezza di tale indicazione nel certificato (Cass. 26.7.1999, n. 8093).
L’inosservanza di tale onere impedisce al lavoratore di ottenere la corresponsione dell’indennità di malattia per l’intero periodo in cui l’INPS non sia stato in grado, usando l’ordinaria diligenza, di esercitare il potere-dovere di controllo sulla malattia (Circ. INPS 7.8.1998, n. 183).
Sul punto si osserva che, secondo la giurisprudenza, “ai fini del computo del termine per l’invio del certificato medico, rileva il giorno di spedizione, il quale non si computa nel termine” (Cass. 20.11.2007, n. 24132, in D&L, 2008, 298).
Va rilevato che le clausole di molti contratti collettivi stabiliscono termini più ampi per la consegna o l’invio del certificato di malattia al datore di lavoro, senza però poter derogare alla legge per quanto riguarda i tempi di comunicazione del certificato di malattia all’INPS, fissati, come detto, inderogabilmente in due giorni.
L’ipotesi del ritardo nell’invio della certificazione al datore di lavoro comporta generalmente, in base ai contratti collettivi, la considerazione dell’assenza come ingiustificata, mentre nel caso di ritardo nell’invio della certificazione all’INPS si verifica “la perdita dell’indennità prevista a favore del lavoratore limitatamente ai giorni di ritardo, salvo la prova, a carico del lavoratore, di un serio ed apprezzabile motivo di giustificazione del ritardo nell’invio del certificato medico” (Cass. 8.8.2005, n. 16627, in Orient. Giur. Lav., 2005, 717).
Infine va ricordato che il lavoratore è tenuto a comunicare e certificare anche la prosecuzione della malattia, nonché le eventuali variazioni della prognosi originaria, secondo le modalità ed i termini sopra descritti.
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L’obbligo di reperibilità ed i poteri di controllo del datore di lavoro e dell’INPS
Lo stato di malattia può essere controllato, su richiesta del datore di lavoro o dell’INPS, mediante l’utilizzo di apposite strutture sanitari pubbliche, nella specie le ASL (mediante i rispettivi Servizi medico-legali) e l’INPS (mediante personale medico inserito in liste speciali istituite presso ogni sede dell’Istituto): questo perché l’art. 5 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) prevede espressamente che “il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti”, e non, dunque, attraverso medici di fiducia del datore di lavoro.
Sul punto, peraltro, si osserva che “la previsione dell’art. 5 S.L. è applicabile solo nei confronti dei lavoratori già assunti, per cui non viola tale norma il datore di lavoro che fa sottoporre a test di gravidanza e di ricerca degli oppiacei, svolti da laboratori privati, lavoratori non ancora dipendenti” (Cass., sez. pen., 8.1.1998, in D&L, 1998, 481).
Allo scopo di rendere possibile il controllo dello stato di malattia, il lavoratore ha l’obbligo di essere reperibile presso l’indirizzo abituale o il domicilio occasionale durante tutta la durata della malattia, comprese le domeniche ed i giorni festivi nelle fasce orarie di reperibilità.
Qualora il lavoratore non venga rinvenuto in casa dal medico fiscale durante le fasce di reperibilità può essergli irrogata una sanzione disciplinare da parte del datore di lavoro, oltre a subire una decurtazione del trattamento di malattia corrisposto dall’INPS.
In particolare (v. C. Cost. 26.1.1988, n. 78; Circ. INPS 31.3.1989, n. 65), in caso di assenza in occasione della prima visita di controllo, ciò comporta la perdita totale di qualsiasi trattamento economico per i primi dieci giorni di malattia, in caso di assenza in occasione della seconda visita, ciò determina, oltre alla precedente sanzione, la riduzione del 50% del trattamento per il successivo periodo; nel caso di una terza assenza, l’indennità economica previdenziale a carico dell’INPS viene interrotta da quel momento e fino al termine del periodo di malattia.
Come detto, l’assenza del lavoratore configura, dunque, in ogni caso un’inadempienza, non solo verso l’Istituto previdenziale, ma anche nei confronti del datore di lavoro, sussistendo l’interesse di quest’ultimo a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e perciò a controllare l’effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione (Cass. 21.5.1998, n. 5090).
Sul punto si osserva, peraltro, che “ai sensi dell’art. 5 della L. 638/1983 l’obbligo di reperibilità nelle fasce orarie sussiste solo per il lavoratore assente per malattia, e non anche per chi è assente a seguito di infortunio; pertanto, in tale ipotesi è illegittima la sanzione comminata dal datore di lavoro per assenza nelle fasce orarie” (Cass. 30.1.2002, n. 1247, in D&L, 2002, 400).
Quanto detto, tuttavia, vale a condizione che l’assenza del lavoratore al momento della visita di controllo non avvenga per giustificato motivo: a tal fine l’INPS (Circ. INPS 8.8.1984, n. 134421) precisa che il giustificato motivo ricade nelle ipotesi di forza maggiore o di situazioni che abbiano reso imprescindibile ed indifferibile la presenza personale del lavoratore altrove, oltre ai casi di visite, prestazioni o accertamenti sanitari indifferibili.
A tal proposito, la giurisprudenza ritiene “non sanzionabile con la perdita dell’indennità di malattia l’assenza del dipendente alla visita di controllo determinata dalla presenza di un giustificato motivo” (Cass. 6.4.2006, n. 8012, in Lav. nella giur., 2006, 769), pur incombendo sul lavoratore l’onere di provare che “la causa del suo allontanamento dal domicilio durante le fasce orarie previste, pur senza la necessità di integrare una causa di forza maggiore, costituisca, ai fini della tutela del diritto alla salute, una necessità determinata da situazioni comportanti adempimenti non effettuabili in ore diverse da quelle di reperibilità” (App. Milano 17.3.2006, in Lav. nella Giur., 2006, 1137; analogamente in Trib. Caltanissetta 23.5.2006, in Lav. nella giur., 2007, 207): in definitiva si può ritenere che “il giustificato motivo di esonero del lavoratore dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, rende plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza peraltro potersi ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza o opportunità” (Cass. 2.8.2004, n. 14375, in Lav. nella giur., 2005, 176).
Per quanto riguarda il caso di contrasto tra il certificato del medico curante e quello del medico di controllo, secondo la giurisprudenza “spetta al giudice di merito la valutazione comparativa delle certificazioni contrastanti onde stabilire quale delle due sia maggiormente attendibile” (Trib. Parma 14.1.2000, in D&L, 2000, 409): a tal fine il giudice si potrà avvalere dei poteri istruttori conferitigli dalla legge, esprimendo un giudizio da ritenersi insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. 5.9.1998, n. 5027).
Ad avviso della giurisprudenza, infatti, il certificato medico rilasciato dal medico di controllo fa fede, fino a querela di falso, soltanto sui fatti riportati e non del giudizio relativo alla diagnosi della malattia (Cass. 5.11.1987, n. 8124).
Peraltro, l’insussistenza della malattia può essere desunta anche da circostanze diverse da un accertamento sanitario, quali quelle tenute dal lavoratore nel corso della presunta malattia, la cui conoscenza può essere acquisita dal datore di lavoro anche “mediante indagini svolte da lui stesso o da persone da lui incaricate, nel rispetto dei limiti cui è assoggettata qualsiasi indagine privata sulla vita o sui comportamenti altrui” (Trib. Perugia 17.9.2005, in Riv. It. Dir. Lav., 2006, 101).
Infine va ricordato che le disposizioni dell’art. 5 S.L. non precludono al datore di lavoro di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di “circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, quando non siano diretti ad attribuire all’indagine un carattere sanitario in senso tecnico, comportando dunque la sola osservazione del comportamento esteriore nella vita di tutti i giorni e non determinando una differenziazione dal punto di vista concettuale e qualitativo da ogni altro accertamento relativo allo svolgimento da parte del lavoratore assente per malattia di attività potenzialmente e apparentemente incompatibili con lo stato di malattia” (Cass. 3.5.2001, in Lav. nella giur., 2001, 1156).
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Il trattamento economico per il periodo di malattia
Durante la malattia comportante incapacità lavorativa il lavoratore ha diritto di beneficiare di mezzi di sostentamento adeguati alle sue esigenze vita: dispone, infatti, l’art. 38 della Costituzione, che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
L’art. 2110 del codice civile stabilisce che, in caso di malattia, se la legge o le norme contrattuali non prevedono forme equivalenti di previdenza o assistenza, è dovuta al lavoratore la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme contrattuali o secondo equità.
In taluni casi l’onere della retribuzione è sostenuto totalmente dal datore di lavoro (malattia non indennizzata dall’INPS), mentre in altri l’INPS eroga l’indennità di malattia che può essere integrata o meno dal datore di lavoro.
In particolare, la legge (art. 6, comma 5 RDL 1825/1924) determina il trattamento retributivo a carico del datore di lavoro per i soli lavoratori aventi la qualifica di impiegato: per questi ultimi è previsto il pagamento dell’intera retribuzione per il primo mese e della metà per i successivi due mesi, se l’anzianità di servizio non supera i due anni, ed il pagamento dell’intera retribuzione per i primi due mesi e della metà per i successivi, se l’anzianità di servizio è superiore a dieci anni.
Tale disposizione, tuttavia, può essere derogata in senso favorevole al lavoratore da parte della contrattazione collettiva.
Per i lavoratori con qualifica operaia, oltre che per altre categorie, diverse a seconda del settore di lavoro, il trattamento retributivo per il periodo di malattia è a carico dell’INPS.
La maggior parte dei contratti collettivi, però, stabilisce che agli operai spetti un’integrazione di quanto percepito dall’INPS, talvolta fino al raggiungimento del normale trattamento economico: tale integrazione è normalmente a carico del datore di lavoro, tuttavia, in alcuni settori è posto a carico di altri soggetti (ad esempio delle Casse edili nel settore dell’edilizia).
Infine, per quanto riguarda i lavoratori pubblici, va ricordato che l’art. 71 L. 133/2008 ha previsto un regime retributivo teso a scoraggiare le assenze per malattia o infortunio non lavorativo, prevedendo che per i primi 10 giorni di assenza a tali titoli venga corrisposto al lavoratore solo il trattamento economico fondamentale, con esclusione di qualsiasi indennità di natura accessoria.
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L’indennità a carico dell’INPS
I criteri amministrativi relativi alla gestione dell’erogazione, a seguito dell’espressa delega contenuta nell’art. 74 della legge 833/1978, sono stati dettati dall’INPS (Circ. INPS 28.1.1981, n. 134368), partendo dal presupposto del diritto all’indennità: in generale si può, infatti, affermare che l’INPS eroga le prestazioni economiche di malattia a favore di tutti i lavoratori i cui datori di lavoro siano tenuti al versamento dei contributi di malattia.
Oltre alle qualifiche operaie, di cui si è già detto, tra le categorie più rilevanti di lavoratori beneficiari del diritto alla corresponsione del trattamento economico di malattia da parte dell’INPS si possono ricordare:
- i soci di società ed enti cooperativi che, anche di fatto, prestino attività lavorativa per conto di questi ultimi;
- i lavoratori sospesi (sia per casi di sospensione dell’attività aziendale, quali eventi meteorologici o situazioni di mercato, sia per eventi da ricollegare alla situazione del lavoratore, come permessi non retribuiti o sospensioni disciplinari);
- i lavoratori assunti con contratti di inserimento e con contratto di lavoro intermittente;
- gli ex apprendisti che abbiano ottenuto la qualifica;
- i lavoratori dello spettacolo;
- gli addetti ai pubblici servizi di trasporto.
Sul punto è importante sottolineare che i lavoratori domestici restano esclusi dal trattamento economico a carico dell’INPS.
Come detto, il lavoratore ha diritto al trattamento economico da parte dell’INPS in presenza di infermità comportante incapacità lavorativa, tempestivamente comunicata al datore di lavoro e certificata nei termini di legge o di contratto al datore di lavoro e/o all’INPS.
L’indennità economica previdenziale viene erogata a partire dal quarto giorno di malattia: i primi tre giorni di malattia, infatti, indicati con il termine “carenza”, non sono indennizzati dall’INPS. A ciò ha ovviato la contrattazione collettiva, che prevede per la quasi totalità dei casi che sia il datore di lavoro a corrispondere la retribuzione al lavoratori per tali giorni, corrispondendo il normale trattamento economico o parte di esso.
L’INPS ha poi fissato i limiti massimi entro cui è obbligato al pagamento dell’indennità di malattia, distinguendo tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato: per i primi l’indennità è dovuta per le giornate “indennizzabili” comprese in un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare, calcolando la somma di tutte le giornate di malattia dell’anno solare (dall’1 gennaio al 31 dicembre), comprese quelle per le quali non è stata corrisposta l’indennità (ad esempio per omessa o ritardata certificazione).
Sono esclusi da tale calcolo i periodi di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità, quelli di malattia connessi con lo stato di gravidanza, i periodi di incapacità lavorativa dipendenti da infortunio sul lavoro e da malattia professionale.
Per i lavoratori a tempo determinato i trattamenti economici di malattia sono corrisposti per un periodo non superiore a quello dell’attività lavorativa svolta nei dodici mesi precedenti l’evento morboso, fermo restando il limite massimo di 180 giorni nell’anno solare.
Nel caso il lavoratore a tempo determinato non possa far valere periodi lavorativi superiori a 30 giorni, il trattamento economico di malattia è concesso per un periodo massimo di 30 giorni nell’anno solare.
Nel caso l’evento morboso inizi nel corso di un anno e si protragga, senza interruzione, nell’anno successivo, trova applicazione il principio secondo cui le giornate di malattia sono attribuite, ai fini del computo del periodo massimo indennizzabile, ai rispettivi anni solari e la malattia va considerata come unico episodio morboso.
Inoltre, in presenza di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il diritto all’indennità economica previdenziale continua per un periodo di 60 giorni dopo la cessazione o la sospensione del rapporto stesso, con l’esclusione dei lavoratori che abbiano risolto il rapporto di lavoro a tempo indeterminato aventi titolo a ricevere le prestazioni pensionistiche dirette.
L’indennità di malattia erogata dall’INPS è pari ad una quota percentuale della retribuzione media giornaliera (RMG) moltiplicata per il numero delle giornate indennizzabili comprese nel periodo di malattia.
La Retribuzione media giornaliera è quella percepita nel mese precedente l’inizio della malattia; qualora il lavoratore non abbia prestato lavoro per l’intero mese precedente si considera il periodo lavorato o quello più recente per il quale ha ricevuto la retribuzione.
Se nel periodo di riferimento il lavoratore è stato assente per sospensione dell’attività aziendale o per riduzione dell’orario con intervento della Cassa Integrazione (ordinaria o straordinaria) si deve tenere conto della retribuzione che il lavoratore avrebbe percepito in caso di presenza al lavoro (Circ. INPS 7.7.1990, n. 152).
Va rilevato che nel concetto di retribuzione utile ai fini del calcolo della prestazione rientrano non solo gli elementi che costituiscono la vera e propria retribuzione e che sono collegati all’effettiva prestazione lavorativa (paga base, contingenza, straordinario ecc.), ma anche tutti gli elementi accessori, quali ferie, festività non godute, premi di produzione ecc.
I criteri per il calcolo della retribuzione giornaliera variano a seconda della categoria, ad esempio per gli impiegati si considera la retribuzione lorda del mese precedente a quello di inizio della malattia, si aggiungono i ratei delle mensilità aggiuntive e le altre voci della retribuzione non comprese nella retribuzione mensile (ad es. i premi), e, dividendo tale somma per 30, si ottiene la retribuzione media giornaliera; per gli operai, invece, si divide la retribuzione lorda del mese precedente per il numero di giornate lavorate, e, in caso di settimana corta di 5 giorni di lavoro si moltiplica tale numero per 1,2, sempre con l’aggiunta dei ratei delle mensilità aggiuntive.
La quota percentuale di retribuzione media giornaliera varia poi a sua volta a seconda della qualifica contrattuale, del settore di appartenenza, della circostanza che il lavoratore sia o meno sospeso dal lavoro o disoccupato e infine dall’eventuale ricovero giornaliero.
Per gli operai l’indennità di malattia copre tutte le giornate comprese nel periodo di malattia, con l’esclusione delle domeniche e delle festività nazionali e infrasettimanali; per gli impiegati spetta per tutte le giornate comprese nel periodo, con esclusione delle festività nazionali ed infrasettimanali cadenti di domenica.
Per i lavoratori disoccupati o sospesi dal lavoro, qualora agli stessi non competa alcun trattamento per le festività nazionali ed infrasettimanali, l’indennità di malattia è dovuta per tali giornate.
Costituiscono causa di esclusione dal diritto all’indennità di malattia: la fruizione per legge o per contratto collettivo di un trattamento di malattia, non integrativo, a carico del datore di lavoro, in misura pari o superiore a quello erogato dall’INPS, nonché la provocazione dolosa dello stato di malattia.
Inoltre fanno venire meno il diritto all’indennità di malattia: la mancanza di idonea certificazione; il ritardo ingiustificato dell’invio del certificato (salvo il caso di ritardo giustificato, che comunque va provato da parte del lavoratore – v. Cass. 8.2.1995, n. 129); l’inesatta o incompleta indicazione dell’indirizzo del lavoratore sul certificato tale da non consentire l’effettuazione della visita di controllo, a meno che l’indicazione non possa essere rilevata altrove (Circ. INPS 6.6.1990, n. 29); l’assenza ingiustificata alle visite di controllo, qualora non sia determinata da forza maggiore o non sia riconducibile a cause giustificative.
Infine, secondo la prassi INPS viene disposta la sospensione del trattamento economico di malattia qualora il lavoratore si dedichi ad altre attività non retribuite, sia in stato di detenzione o trasgredisca al divieto del medico di uscire dall’abitazione, salvo giustificato motivo.
La legge (L. 33/1980) prevede un duplice sistema di corresponsione dell’indennità di malattia: di norma l’erogazione avviene a cura del datore di lavoro che, poi, è autorizzato a compensare i trattamenti anticipati con i contributi e le altre somme dovute all’INPS.
Per talune categorie di lavoratori, diversamente, l’erogazione avviene direttamente da parte dell’INPS: si tratta dei lavoratori agricoli (esclusi dirigenti e impiegati), i lavoratori assunti a tempo determinato per attività stagionali, altri lavoratori a tempo determinato quando l’indennità non può essere anticipata dal datore di lavoro, i lavoratori disoccupati o sospesi che non usufruiscano del sistema di Cassa Integrazione Guadagni, e, infine, nei casi di fallimento dell’impresa, quando il datore di lavoro non è in grado di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori.
Quando viene corrisposta da parte del datore di lavoro, l’indennità di malattia viene erogata all’atto della corresponsione della retribuzione per il periodo di paga durante il quale il lavoratore ha ripreso servizio, fermo restando l’obbligo di corrispondere anticipazioni a norma dei contratti collettivi e, in ogni caso, non inferiori al 50% della retribuzione del mese precedente, salvo conguaglio.
Infine, va ricordato che l’indennità di malattia si prescrive in un anno dal giorno in cui essa è dovuta (Cass. 8.2.2001, n. 1806), con decorrenza dal giorno successivo a quello del pagamento della retribuzione per il periodo successivo alla malattia, oppure, in caso di anticipazioni, dal giorno successivo a quello per cui il lavoratore ha diritto a pretendere la corresponsione dell’anticipazione.
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L’indennità a carico del datore di lavoro
Durante i periodi di malattia l’onere della retribuzione rimane a carico esclusivo del datore di lavoro nei seguenti casi:
- per le categorie di lavoratori escluse dall’indennità INPS;
- per i primi giorni di malattia (normalmente 3) stabiliti nei contratti collettivi;
- per tutte le festività del periodo di malattia per gli operai e per le festività cadenti di domenica per gli impiegati del Terziario.
Tuttavia, anche quando l’indennità di malattia è erogata dall’INPS, generalmente i contratti collettivi stabiliscono a carico del datore di lavoro un’integrazione dell’indennità, durante il periodo di conservazione del posto, fino ad un determinato ammontare, che può arrivare al 100% della retribuzione.
Infine, va ricordato che, dal momento che l’indennità corrisposta da parte dell’INPS non è soggetta a contributi, al fine di evitare che tale importo sommato all’integrazione a carico del datore di lavoro determini una retribuzione lorda superiore a quella normale, si utilizza il sistema della c.d. “lordizzazione”: l’indennità INPS viene aumentata figurativamente considerando l’incidenza sulla retribuzione e l’integrazione a carico del datore di lavoro viene determinata per differenza tra la retribuzione lorda e l’indennità INPS così “lordizzata”.
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Malattia e licenziamento
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Il periodo di comporto
In base al secondo comma dell’art. 2110 del codice civile in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto di lavoro decorso il periodo stabilito dalla legge, dai Contratti Collettivi o, in mancanza, dagli usi.
Tale periodo di tolleranza per l’assenza per malattia prende il nome di “periodo di comporto” e viene determinato dalle fonti cui l’art. 2110 c.c. fa rinvio: nello specifico la fonte più importante è quella del contratto collettivo (in genere quello nazionale di categoria), dal momento che la legge si limita a fissare la durata del periodo di comporto soltanto per la categoria degli impiegati (3 mesi quando l’anzianità di servizio non supera i dieci anni e 6 mesi quando l’anzianità di servizio supera i dieci anni – v. art. 6, comma 5 RDL 1825/24) e per categorie particolari, come per i lavoratori ammalati di tubercolosi (L. 1088/1970).
In particolare, nei contratti collettivi è previsto, di norma, un periodo di comporto c.d. “secco” ed uno “per sommatoria”: in base al primo il lavoratore ha diritto di assentarsi per malattia per un certo numero di giorni consecutivi stabiliti dal contratto collettivo e non oltre. Il comporto per sommatoria, invece, viene calcolato tenendo conto di tutte le assenze che il lavoratore compie in un determinato arco di tempo, normalmente tre anni, che, sommate, non devono superare il periodo di tempo stabilito nel contratto collettivo.
Qualora il contratto collettivo non preveda un comporto per sommatoria esso deve essere determinato dal giudice, eventualmente adito dal lavoratore mediante l’impugnazione del licenziamento e chiamato a decidere secondo il criterio dell’equità richiamato dall’art. 2110 c.c. (v. App. Milano 20.1.2006, in Lav. nella Giur., 2006, 1029): a tal fine la giurisprudenza normalmente utilizza un doppio termine di riferimento, ossia un termine “interno”, pari alla durata prevista dal contratto collettivo per il comporto secco, ed un termine “esterno”, costituito dalla durata del contratto collettivo e che funge da periodo di riferimento generale entro il quale più episodi di malattia possono essere considerati unitariamente, nel limite massimo del periodo di comporto secco previsto dal contratto (Cass. 19.4.1985, n. 2599).
Sul punto si precisa che nel determinare il periodo di comporto si contano anche i giorni festivi o comunque non lavorativi che precedono o seguono immediatamente quelli indicati sul certificato medico (Cass. 19.10.2004, n. 20458; Cass. 15.12.2008, n. 29317, in Lav. nella giur., 2009, 407) e pure quelli non lavorati per sciopero (Cass. 12.8.1994., n. 7405).
Inoltre va ricordato che la malattia e l’infortunio sul lavoro, comportanti entrambi l’impossibilità della prestazione per causa riferibile – ma non addebitabile – al lavoratore, sono oggetto della medesima tutela legale (art. 2110 c.c.), anche per quanto riguarda il potere demandato all’autonomia collettiva di determinare la durata ed i criteri di calcolo del periodo di comporto: in mancanza di diverse disposizioni della contrattazione collettiva, infatti, ai fini della determinazione del periodo di comporto per sommatoria l’infortunio sul lavoro deve essere equiparato alla malattia (Cass. 16.6.1998, n. 6001).
Il periodo di comporto è suscettibile di interruzione per effetto della richiesta del lavoratore di fruire delle ferie già maturate (Cass. 17.4.2000, n. 1774): la richiesta, che deve riportare il momento dal quale si intende convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie (Cass. 11.5.2000, n. 6043), deve essere espressa (Cass. 27.2.2003, n. 3028) e tempestivamente presentata al datore di lavoro prima che il periodo di comporto sia definitivamente scaduto.
Secondo la giurisprudenza il datore di lavoro può rifiutarsi di concedere le ferie, purché dimostri di aver tenuto conto del fondamentale diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro (Cass. 27.2.2003, n. 3028, in Lav. nella giur., 2003, 680 e Cass. 26.10.1999, n. 12031, in Mass. Giur. Lav., 2000, 61) e di aver, tuttavia, considerato come prevalenti gli interessi dell’organizzazione e dell’impresa (Cass. 28.1.1997, n. 873).
Ad avviso della giurisprudenza più recente, inoltre, non è configurabile un obbligo del datore di lavoro di concedere al dipendente malato la fruizione delle ferie per evitare il superamento del periodo di comporto, dal momento che la fissazione del periodo feriale è collegata ad una scelta dell’imprenditore in relazione alle esigenze dell’impresa (Cass. 2.11.1999, n. 12219).
Nell’ordinamento italiano, infatti, non esiste un principio generale di convertibilità delle cause di assenza dal lavoro, né una regola di automatico prolungamento del periodo di comporto per un tempo corrispondente ai giorni di ferie non goduti (Cass. 4.6.1999, n. 5528; v. anche Pret. Nola 12.10.1996, in D&L, 1997, 638): diversamente, parte della giurisprudenza in passato riteneva che “la richiesta del godimento delle ferie in costanza di malattia sospende il periodo di comporto fino all’esaurimento dei giorni di ferie spettanti al lavoratore, e ciò indipendentemente dalla previsione del contratto collettivo che ne escluda la fruibilità in caso di malattia” (Pret. Milano 22.4.1998, in D&L, 1998, 1040).
Un altro caso di prolungamento del periodo di comporto è previsto in genere dalla contrattazione collettiva a favore dei lavoratori afflitti da malattie di lunga durata, i quali possono usufruire di un periodo di aspettativa non retribuita da aggiungersi al periodo di comporto previsto in via ordinaria.
Ad esempio, l’art. 2 CCNL Metalmeccanici Industria prevede che “superati i limiti di conservazione del posto, il lavoratore potrà usufruire, previa richiesta scritta, di un periodo di aspettativa della durata di mesi 4, durante il quale non decorrerà retribuzione, né si avrà decorrenza di anzianità per nessun istituto…a fronte del protrarsi dell’assenza a causa di malattia grave e continuativa, periodicamente documentata, il lavoratore potrà usufruire, previa richiesta scritta, di un ulteriore periodo di aspettativa fino alla guarigione clinica, debitamente comprovata che consenta al lavoratore di assolvere alle precedenti mansioni e comunque di durata non superiore a complessivi 24 mesi continuativi”.
In base all’art. 173 CCNL Terziario, invece, “nei confronti dei lavoratori ammalati la conservazione del posto, fissata nel periodo massimo di giorni 180 dall’art. 167 del presente contratto, sarà prolungata, a richiesta del lavoratore, per un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita e non superiore a 120 giorni alla condizione che siano esibiti dal lavoratore regolari certificati medici…i lavoratori che intendano beneficiare del periodo di aspettativa di cui al precedente comma dovranno presentare richiesta a mezzo raccomandata A.R. prima della scadenza del 180° giorno di assenza per malattia e firmare espressa accettazione della suddetta condizione”.
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Il licenziamento per malattia
Alla scadenza del periodo di comporto il datore di lavoro può recedere dal contratto nel rispetto delle procedure previste per il licenziamento individuale.
Secondo la giurisprudenza “il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare, ma ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pertanto solo impropriamente si può parlare di contestazione delle assenze, trattandosi di un evento, l’assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta” (Cass. 26.5.2005, n. 11092, in Dir. prat. lav., 2006, 300; Cass. 20.12.2002, n. 18199).
Dal licenziamento per superamento del periodo di comporto va tenuto distinto, pur producendo gli stessi effetti nei confronti del prestatore di lavoro, il licenziamento per c.d. “eccessiva morbilità”, disposto dal datore di lavoro nell’ipotesi di un succedersi di malattie a carattere intermittente e reiterato, frequenti e discontinue, che rendano la prestazione non più utile al datore di lavoro: in tal caso, infatti, “stante la prevalenza dell’art. 2110 c.c. (disposizione speciale) sulla disciplina generale della risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso solo dopo il periodo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva, ovvero, in difetto, determinato secondo equità” (Cass. 22.7.2005, n. 15508, in Lav. e Prev. Oggi, 2005, 1839).
Il recesso del datore di lavoro deve essere tempestivo, non dovendo, quindi trascorrere un prolungato lasso di tempo tra la riammissione in servizio al termine della malattia ed il recesso medesimo (Cass. 17.6.1998, n. 6057).
Tuttavia, “il criterio della tempestività, in tema di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, prevede che la valutazione del tempo decorso tra la data di detto superamento e quella del licenziamento vada condotta con criteri di minor rigore, che tengano conto di tutte le circostanze significative, così da contemplare da un lato l’esigenza del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale e dell’altro quella del datore di lavoro al vaglio della gravità del comportamento con riferimento alla compatibilità o meno con la continuazione del rapporto” (Cass. 23.1.2008, n. 1438, in Lav. nella giur., 2008, 523; analogamente v. Cass. 3.10.1998, n. 9831; Trib. Novara, 2.12.2008, in Lav. nella giur., 2009, 423).
Inoltre, per valutare la tempestività il giudice di merito deve avere riguardo non solo al mero dato temporale, ma anche “a tutte quelle circostanze che possono apparire significative di un’eventuale rinuncia implicita del datore di lavoro, per fatti concludenti, al recesso” (Cass. 29.7.1999, n. 8235, in D&L, 1999, 907): del pari la mera accettazione del datore di lavoro della prestazione del lavoratore anche successivamente alla scadenza del periodo di comporto “non equivale di per sé a rinuncia al diritto di recedere dal rapporto, ferma peraltro restando la necessità della sussistenza di un nesso causale tra l’intimazione del licenziamento ed il fatto (superamento del periodo di comporto) addotto a sua giustificazione” (Cass. 6.7.2000, n. 9032, in Argom. Dir. Lav., 2001, 361).
L’art. 2 della L. 604/1966 trova applicazione anche in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto: secondo la giurisprudenza maggioritaria (Cass. 20.12.2002, n. 18199, in D&L, 2003, 151; Trib. Milano, 22.1.2007, in Lav. nella giur., 2007, 1150) il datore di lavoro ha l’obbligo di indicare specificatamente i giorni di assenza per malattia e i criteri di computo del calcolo solo a fronte della tempestiva richiesta da parte del lavoratore, e non già nella lettera di licenziamento, mentre secondo un altro orientamento (Cass. 13.12.1999, n. 13992, in Riv. It. Dir. lav., 2000, 688) “nella comunicazione scritta il datore di lavoro deve indicare in modo analitico, specifico e completo i motivi del recesso, non potendosi pertanto tener conto delle assenze dal lavoro non contestate nella lettera di licenziamento”.
Anche nell’ipotesi di recesso per superamento del periodo di comporto, inoltre, il datore di lavoro deve rispettare la regola generale dell’immutabilità delle ragioni comunicate come motivo di licenziamento (Cass. 22.3.2005, n. 6143, in Lav. nella giur., 2005, 688): pertanto, “nel caso in cui la società, nell’intimare al lavoratore il licenziamento per superamento del periodo di comporto, faccia riferimento alla norma del contratto collettivo che disciplina il comporto secco, ritenere che sia stato, invece, superato il termine del comporto per sommatoria integra un inammissibile mutamento del motivo di licenziamento e viola il diritto di difesa del lavoratore” (App. Napoli, 1.6.2007, in Lav. nella giur., 2008, 321).
Si ritiene, inoltre, che non esista alcun obbligo, da parte del datore di lavoro, di preannunciare al lavoratore malato la propria intenzione di recedere al termine del periodo di comporto e di preavvisarlo dell’imminente scadenza dello stesso (Cass. 21.5.1998, n. 5091), anche se parte della giurisprudenza ritiene che sia “illegittimo, per violazione degli obblighi di buona fede e di correttezza, il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, allorquando il datore di lavoro non abbia provveduto con congruo anticipo a comunicare l’imminenza del superamento di tale limite al lavoratore” (Trib. Milano 23.5.2005, in Orient. Giur. Lav., 2005, 692; Trib. Milano, 8.5.1999, in Lav. e Prev. Oggi, 1999, 871).
Va poi sottolineato che “la malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l’infermità abbia avuto causa, in tutto o in parte, nella nocività insita nelle modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminare l’incidenza, incombendo peraltro nel lavoratore la prova del collegamento fra la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate” (Cass. 14.4.2000, n. 5066, in Lav. nella giur., 2000, 985).
Per quanto riguarda le conseguenze del recesso del datore di lavoro prima della scadenza del periodo di comporto, secondo parte della giurisprudenza il recesso deve essere considerato temporaneamente inefficace e, pertanto, idoneo a produrre i suoi effetti solo al termine del periodo di malattia (Cass. 26.2.1990, n. 1459; Cass. 10.2.1993, n. 1657; Cass. ).
Ad avviso di un’altra parte della giurisprudenza, diversamente, “in caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, anteriormente alla scadenza di questo, l’atto di recesso è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c.c., che vieta il licenziamento in costanza di malattia, e non già inefficace” (Cass. 29.10.1999, n. 12031, in Mass. Giur. Lav., 2000, 61), con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’onere di ripetere l’intimazione del licenziamento a guarigione avvenuta o al momento di superamento del periodo di comporto.
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Il licenziamento in costanza di malattia
Qualora il datore di lavoro intimi il licenziamento durante il periodo di comporto per motivi diversi dalla malattia, il provvedimento deve essere ritenuto inefficace sino a quando perduri la malattia (con decorso, in tale periodo, dell’obbligo retributivo), per poi riprendere effetto al termine della stessa, e ciò a prescindere dal controllo sull’idoneità del motivo dedotto a costituire giustificato motivo di licenziamento ai sensi della legge 604/1966.
L’unica ipotesi in cui il recesso è legittimo durante il periodo di comporto è quella del licenziamento per giusta causa, che ha efficacia immediata a dispetto dell’esistenza di uno stato di malattia (Cass. 1.6.2005, n. 11674, in Lav. nella giur., 2006, 94), dal momento che si tratta di una causa che non consente la prosecuzione, neppure in via temporanea, del rapporto di lavoro (Cass. 20.10.2000, n. 13903; Cass. 1.6.2005, n. 11674).
Tra le ipotesi di giusta causa rientrano, secondo la giurisprudenza, i casi in cui il lavoratore in malattia abbia violato in maniera significativa il dovere di non compromettere il recupero del proprio stato di salute (Cass. 19.2.1991, n. 1747) ed anche il caso in cui sia stato assente durante le fasce di reperibilità, in occasione della visita di controllo, senza un giustificato motivo (Cass. 21.5.1998, n. 5090; Cass. 27.4.1996, n. 3915).
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Casistica di decisioni della Magistratura in tema di malattia
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In genere
- Ai fini del computo del termine per l’invio al datore di lavoro del certificato medico, rileva il giorno di spedizione, il quale non si computa nel termine. (Cass. 20/11/2007 n. 24132, Pres. Sciarelli Est. Mammone, in D&L 2008, con nota di Enrico U.M. Cafiero, “Termini e modalità di giustificazione della malattia”, 298)
- E’ scarsamente attendibile un certificato con il quale il medico curante giustifichi un’astensione dal lavoro, a ridosso di due giorni di festa, con la diagnosi di tachicardia e ipertensione, prescrivendo un tranquillamente e non un farmaco ipotensivo. (Corte app. Milano 27/9/2007, Pres. Ruiz Est. De Angelis, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Ichino, “Quando la presunzione di simulazione della malattia può fondarsi sul comportamento scorretto del lavoratore: un caso di alterazione del certificato medico e un caso di ingegneria certificatizia”, 130)
- Lo svolgimento da parte del dipendente di altra attività lavorativa durante il periodo di malattia è vietato, integrando un inadempimento degli obblighi ricadenti sul prestatore (particolarmente del dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. e in generale dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza), in tutti i casi in cui evidenzi la simulazione delle infermità ovvero ne ritardi o comprometta la guarigione per inosservanza del dovere di porre in essere tutte le cautele necessarie a un rapido recupero delle energie lavorative. In caso contrario deve essere ritenuto ammissibile e deve, pertanto, ritenersi illegittimo il provvedimento di licenziamento o la diversa sanzione disciplinare adottati in conseguenza dello stesso. (Cass. 6/10/2005 n. 19414, Pres. Mattone Est. Filadoro, in orient. Giur. Lav. 2005, con nota di Pasquale Picciariello, “assenza per malattia e svolgimento di altra attività”, 835)
- Il diritto del lavoratore all’indennità di malattia è condizionato all’adempimento dell’onere gravante sull’assicurato di rinvio all’Inps (a mezzo raccomandata con certificato di ritorno) del certificato medico entro il termine perentorio di due giorni dal suo rilascio e l’omesso o ritardato invio dà luogo a perdita dell’indennità in tutto o limitatamente ai giorni di ritardo, salvo la prova, a carico del lavoratore, di un serio e apprezzabile motivo di giustificazione del ritardo nell’invio del certificato medico. (Cass. 8/8/2005 n. 16627, Pres. Mileo Est. Figurelli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 717)
- La malattia del lavoratore e la sua inidoneità al lavoro sono cause di impossibilità della prestazione lavorativa che hanno natura e disciplina giuridica diverse: la prima ha carattere temporaneo, implica la totale impossibilità della prestazione e determina la legittimità del licenziamento quando essa abbia causato l’astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto; la seconda ha carattere permanente, o quanto meno durata indeterminata o indeterminabile, e non implica necessariamente l’impossibilità totale della prestazione. (Cass. 24/1/2005 n. 1373, Pres. Mercurio Est. de Matteis, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Maddalena Rosano, “Malattia e impossibilità della prestazione: distinzione econseguenze pratiche”, 94)
- L’obbligo del lavoratore di trasmettere il certificato medico ai sensi dell’art. 41 Ccnl gomma e plastica è correttamente adempiuto con l’affidamento dell’attestazione al servizio postale nel termine contrattuale di tre giorni dall’inizio dell’assenza. (Trib. Milano 6/2/2003, Est. Negri della Torre, in D&L 2003, 336)
- Il datore di lavoro che intenda sindacare l’attendibilità della certificazione medica esibita dal lavoratore non è tenuto a esperire preventivamente la procedura di controllo prevista dall’art. 5 Stat. Lav. (Trib. Roma 2/6/00, pres. ed est. Mariani, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 695, con nota di Covi, “Prognosi retrospettiva” e sindacabilità del certificato medico)
- Per quanto riguarda la diagnosi, i certificati medici costituiscono elementi di convincimento liberamente valutabili. Opera correttamente il giudice che, ai fini della valutazione della credibilità dei certificati del medico curante del lavoratore, pone a confronto il loro contenuto diagnostico con le prognosi ivi formulate, nonché con gli esami diagnostici prescritti od omessi e con le terapie prescritte ed effettivamente praticate dal lavoratore (nella fattispecie, è stata ritenuta corretta la motivazione del giudice di merito che, pur non avendo messo in dubbio la veridicità della diagnosi contenuta nei certificati medici esibiti dal lavoratore, aveva tuttavia ritenuto, sulla base del comportamento tenuto dal lavoratore, delle terapie effettivamente praticate e di altre circostanze, che il disturbo certificato non fosse di entità tale da poter costituire impedimento totale al lavoro rilevante per un periodo relativamente lungo (Cass. 5/5/00 n. 5622, pres. De Musis, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 695)
- Gli addetti a videoterminali che non vi siano adibiti per almeno quattro ore al giorno consecutive non devono essere sottoposti a visita medica preventiva a norma del combinato disposto degli artt. 51 e 55 del d.lgs. n. 626/94 (Decreto Pres. Giunta Regione Piemonte 3/3/00, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 711, con nota di Burragato, Sulla natura dell’atto di prescrizione della ASL in materia di igiene e sicurezza del lavoro)
- Nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico sanitario di controllo, spetta al giudice di merito la valutazione comparativa delle certificazioni contrastanti onde stabilire quale delle due sia maggiormente attendibile (Trib. Parma 14 gennaio 2000, est. Vezzosi, in D&L 2000, 409)
- Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si trovi nell’impossibilità di ricevere la prestazione per causa a lui non imputabile, il diritto alla retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia sospeso per malattia ai sensi dell’art. 2110 c.c. (Cass. 9/4/98 n. 3691, pres. Volpe, est. Mattone, in D&L 1998, 973, nota Scorcelli, Lavoratore assente per malattia e diritto alla retribuzione in caso di sciopero)
- La previsione del terzo comma dell’art. 5 SL è applicabile solo nei confronti di lavoratori già assunti, per cui non viola tale norma il datore di lavoro che fa sottoporre a test di gravidanza e di ricerca degli oppiacei, svolti da laboratori privati, lavoratori non ancora dipendenti (Cass., sez. III penale, 8/1/98, pres. Papadia, est. Morgigni, in D&L 1998, 481, n. DI LECCE, In tema di accertamenti sanitari preassuntivi)
- Il mancato adeguamento dell’organico che costringa il lavoratore a un impegno di lavoro eccessivo, così come il mancato impedimento di un superlavoro eccedente i limiti della normale tollerabilità, costituiscono, ove ne consegua un danno per la salute del lavoratore, violazione dell’art. 2087 c.c., oltre che dell’art. 41, 2° comma, Cost., con conseguente responsabilità contrattuale del datore di lavoro, in relazione alla quale l’eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha efficacia esimente (Cass. 1/9/97 n. 8267, pres. Panzarani, est. Guglielmucci, in D&L 1998, 446)
- È soggetto a responsabilità risarcitoria per violazione dell’art.2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad adibirlo a mansioni che sebbene corrispondenti alla sua qualifica siano suscettibili – per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) – di metterne in pericolo la salute. L’esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla stregua dell’art. 2087 c.c. e la doverosità di un’interpretazione del contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede, di cui all’art.1375 c.c. – che funge da parametro di valutazione comparativa degli interessi sostanziali delle parti contrattuali – inducono a ritenere che il datore di lavoro debba adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile dall’assetto organizzativo dell’impresa, che consenta un’agevole sostituzione con altro dipendente nei compiti più usuranti (Cass. 3/7/97 n. 5961, pres. Lanni, est. Vidiri, in D&L 1998, 463, n. MEUCCI, Non licenziamento ma assegnazione a mansioni diverse in caso di sopravvenuta inidoneità psico – fisica parziale del lavoratore)
- Il lavoratore ha diritto ad essere adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute (Pret. Milano 16/11/95, est. Porcelli, in D&L 1996, 452)
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Visita domiciliare di controllo
- In tema di assenza dal lavoro per malattia e di conseguente decadenza del lavoratore dal diritto al relativo trattamento economico per l’intero periodo dei primi dieci giorni di assenza per ingiustificata sottrazione alla visita di controllo domiciliare, ai sensi dell’art. 5, comma quattordicesimo, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463 convertito in L. 11 novembre 1983, n. 638 (norma dichiarata parzialmente illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 78 del 1988), l’effettuazione da parte del lavoratore di una successiva visita ambulatoriale confermativa dello stato di malattia, ancorché avvenuta prima della scadenza di tale periodo, non vale a escludere la perdita del diritto al trattamento economico ma ha la sola funzione di impedire la protrazione degli effetti della sanzione della decadenza per il periodo successivo ai suddetti primi dieci giorni, atteso che l’osservanza dell’onere posto a carico del lavoratore di rendersi reperibile presso la propria abitazione non ammette forme equivalenti di controllo; ne consegue che l’impossibilità per il lavoratore di effettuare tale visita (nella specie il giorno successivo a quello della sottrazione alla visita di controllo), a causa della chiusura dell’ambulatorio della ASL, non impedisce la perdita del trattamento economico derivante dal mancato assolvimento di quell’onere. (Cass. 28/1/2008 n. 1809, Pres. Senese Est. Lamorgese, in Lav. nella giur. 2008, 528)
- E’ legittima la sanzione disciplinare irrogata al lavoratore assente per malattia irripetibile alla visita medica fiscale. Grava sullo stesso la prova della sussistenza di un impedimento oggettivo. (Trib. Caltanisetta 23/5/2006, Est. Catalano, in Lav. nella giur. 2007, 207)
- Non è sanzionabile con la perdita dell’indennità di malattia l’assenza del dipendente alla visita di controllo effettuata nelle c.d. fasce di reperibilità allorquando tale assenza sia stata determinata non dall’intenzione di sottrarsi al controllo ma dalla presenza di un giustificato motivo (esso, nella specie, è stato individuato nella coincidenza temporale di un ciclo di cure mediche praticate al di fuori dell’abitazione del dipendente). (Cass. 6/4/2006 n. 8012, Pres. Senese, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Giorgio Mannacio, 769)
- Il lavoratore assente per malattia, ove deduca come giustificato motivo della non reperibilità alla visita domiciliare di controllo di avere nell’occasione effettuato una visita presso il medico di fiducia, deve provare che la causa del suo allontanamento dal domicilio durante le previste fasce orarie, pur senza la necessità di integrare una causa di forza maggiore, costituisca, al fine della tutela della salute, una necessità determinata da situazioni comportanti adempimenti non effettuabili in ore diverse da quelle di reperibilità. (Corte app. Milano 17/3/2006, Pres. Salmeri Est. De Angelis, in Lav. nella giur. 2006, 1137)
- Ai sensi dell’art. 5, quattordicesimo comma, legge n. 638 del 1983, il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza od opportunità, dovendo pur sempre consistere in un’improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di responsabilità. (In applicazione del suindicato principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice del merito secondo cui la lavoratrice non aveva provato con certificato medico la indifferibilità e necessità del trattamento fisioterapico durante il periodo della fascia oraria di reperibilità. (Cass. 2/8/2004 n. 14735, Pres. Mattone Re. Capitanio, in Dir. e prat. lav. 2005, 79)
- La decadenza dal trattamento economico di malattia e la rilevanza disciplinare dell’assenza dal domicilio alla visita di controllo durante le fasce orarie di reperibilità non operano in presenza di un giustificato motivo, il quale non si identifica con lo stato di necessità o con la forza maggiore, ma ricorre anche in presenza di un impegno serio ed apprezzabile ovvero di un ragionevole impedimento, incompatibile, per ragioni di orario, con il rispetto delle fasce orarie. (Trib. Milano 10/12/2004, Est. Salmeri, in Lav. nella giur. 2005, 800)
- Ai sensi dell’art. 5, quattordicesimo comma, L. n. 638/1983, il giustificato motivo di esonero del lavoratore in stato di malattia dall’obbligo di reperibilità a visita domiciliare di controllo non ricorre solo nelle ipotesi di forza maggiore, ma corrisponde ad ogni fatto che, alla stregua del giudizio medio e della comune esperienza, può rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, senza potersi peraltro ravvisare in qualsiasi motivo di convenienza o opportunità, dovendo pur sempre consistere in un’improvvisa e cogente situazione di necessità che renda indifferibile la presenza del lavoratore in luogo diverso dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità. (In applicazione del suindicato principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice del merito secondo cui la lavoratrice non aveva provato con certificato medico la indifferibilità e necessità del trattamento fisioterapico durante il periodo della fascia oraria di reperibilità). (Cass. 2/8/2004 n. 14735, Pres. Mattone Rel. Capitanio, in Lav. nella giur. 2005, 176)
- Ai sensi dell’art. 5, 14° comma DL 12/9/83 convertito in L. 11/11/83 n. 638, l’obbligo di reperibilità nelle fasce orarie sussiste solo per il lavoratore assente per malattia e non anche per chi è assente dal lavoro a seguito di infortunio; pertanto, in tale seconda ipotesi, è illegittima la sanzione comminata dal datore di lavoro per assenza nelle fasce orarie. (Cass. 30/1/2002, n. 1247, Pres. Sciarelli Est. Amoroso, in D&L 2002, 400)
- L’assenza ingiustificata alla visita medica di controllo del lavoratore assente per malattia rileva, oltre che ai fini dell’applicazione dell’art. 5, d.l. n. 463/83 (convertito con modificazioni nella l. n. 638/83), anche sotto il profilo della violazione dell’obbligo – sussistente nei confronti del datore di lavoro – di sottoporsi al controllo e la relativa sanzione inflitta dal datore di lavoro non presuppone necessariamente l’esistenza di una specifica previsione di tale mancanza nel codice disciplinare applicabile (Trib. Roma 15/12/00, est. Bellini, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 113)
- La clausola del contratto collettivo che, relativamente all’obbligo del lavoratore assente per malattia di trovarsi al suo domicilio, fa salve le eventuali documentate necessità di assentarsi dal domicilio per cause inerenti alla malattia stessa, va interpretata nel senso che l’obbligo della reperibilità viene ad essere limitato solo allorquando quelle “ragioni” siano urgenti e improcrastinabili e risulti comunque l’impossibilità di rispettare le fasce orarie di reperibilità (Trib. Roma 15/12/00, est. Bellini, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 113)
- Qualora il ragionevole impedimento che giustifica l’esonero del lavoratore dall’obbligo di reperibilità sia individuato dal medesimo nell’esigenza di ricorrere al proprio medico curante, l’assicurato ha l’onere di provare sia la necessità di tale ricorso sia l’impossibilità di recarsi dal sanitario in orari diversi da quello di reperibilità senza subire pregiudizio alla salute, e tale prova dev’essere offerta fin dal ricorso di primo grado, ai sensi dell’art. 414 c.p.c., salva la possibilità di produrre successivamente prove precostituite (Trib. Pistoia 4/3/99, pres. ed est. Amato, in D&L 1999, 597, n. Conte, L’onere probatorio del lavoratore malato assente al controllo domiciliare e le conseguenze dell’assenza ingiustificata)
- Il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità – che esclude la decadenza dal diritto al trattamento economico di malattia, ai sensi dell’art. 5, u.c., L. 11/11/83 n. 638 – può anche consistere nell’essersi il lavoratore dovuto recare presso il proprio medico curante per la verifica dell’andamento della malattia o da altro medico per altre ragioni, a condizione che il lavoratore dimostri la necessità e l’indifferibilità di tale visita, allo scopo di evitare un pregiudizio alla propria salute (nella fattispecie, è stata ritenuta giustificata l’assenza del lavoratore recatosi dal medico curante perché afflitto da un forte mal di denti) (Cass. 10/12/98 n. 12458, pres. De Tommaso, est. Eula, in D&L 1999, 363)
- L’obbligo di reperibilità ai fini della visita domiciliare di controllo, nella previsione di cui all’art. 5, DL 12/9/83 n. 463 convertito nella L. 11/11/83 n. 638, resta escluso in presenza di un giustificato motivo di esonero del lavoratore dal rispetto dello stesso che prevale, pertanto, sull’interesse pubblico al controllo dello stato patologico da cui è affetto il soggetto. Il concetto di giustificato motivo richiamato dalla citata disposizione, non si identifica con lo stato di necessità o con la forza maggiore, ma è integrato, anche in presenza di un impegno serio e apprezzabile, da soddisfare con tempestività, e incompatibile con il rispetto delle fasce orarie (Trib. Napoli 18/3/97, pres. Nobile, est. Lorito, in D&L 1997, 811)
- Il giustificato motivo di assenza del lavoratore ammalato dal proprio domicilio durante le fasce orarie di reperibilità, che esclude la decadenza del diritto al trattamento economico di malattia ai sensi dell’art. 5 u.c. L. 638/83, può anche consistere nella necessità del lavoratore di recarsi dal proprio medico curante purché risulti rigorosamente accertato che la visita era necessaria e indifferibile in relazione allo stato di salute del lavoratore (Pret. Monza 4/10/95, est. Padalino, in D&L 1996, 137)
- L’assenza ingiustificata comporta la decadenza dal trattamento di malattia per dieci giorni e tale sanzione non è riducibile ai soli giorni antecedenti la visita ambulatoriale (Trib. Pistoia 4/3/99, pres. ed est. Amato, in D&L 1999, 597, n. Conte, L’onere probatorio del lavoratore malato assente al controllo domiciliare e le conseguenze dell’assenza ingiustificata)
- Sebbene l’art. 6 del DM 15/7/86 stabilisca che il lavoratore che non accetta l’esito della visita di controllo è tenuto a eccepirlo, seduta stante, al medico sanitario, il lavoratore che non abbia sollevato tale eccezione può sempre agire giudizialmente per contestare le risultanze della visita medica di controllo (Trib. Parma 14 gennaio 2000, est. Vezzosi, in D&L 2000, 409 e in Riv. It. dir. lav. 2001, 70)
- Qualora il lavoratore abbia esattamente indicato al datore di lavoro l’indirizzo della propria abitazione, non può farsi discendere l’irreperibilità alla visita medica di controllo dalla sola mancanza del suo nominativo sulla pulsantiera del citofono – per aver ignoti asportato la relativa etichetta adesiva all’insaputa del lavoratore – e pertanto deve ritenersi illegittima la sospensione del trattamento di malattia disposta dall’Inps (Pret. Milano 15/10/94, est. Sala, in D&L 1995, 382)
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Controlli sullo stato della malattia
- Rientra nel potere discrezionale del Giudice disattendere le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio senza dover disporre un’ulteriore perizia, purché egli disponga di elemtni istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza sufficienti a dar conto della decisione adottata, la quale può essere censurata in sede di legittimità solo ove la soluzione scelta non risulti sufficientemente motivata (nella fattispecie, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che non sia incorso in vizio di motiva zione il Giudice di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, abbia riconosciuto credibilità a una diagnosi di malattia effettuata in sede di controllo ispettivo dell’INPS a breve distanza dall’episodio morboso, piuttosto che a una c.t.u. eseguita a tre anni dallo stesso, con riferimento a una patologia di difficile accertamento a distanza). (Cass. 5/3/2007 n. 5032, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Sabrina Bellumat, “Il rapporto tra consulenza tecnica e attività di giudizio nella motivazione della sentenza”, 980)
- Qualora il datore di lavoro richieda un accertamento tecnico preventivo sulla persona del lavoratore assente per malattia, la mancata preventiva richiesta di controlli fiscali, la proposizione del riposo cautelare dopo alcuni mesi dall’inizio della malattia e il previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione costituiscono elementi a escludere la sussistenza del requisito del periculum in mora. In caso di accertamento tecnico preventivo richiesto dal datore di lavoro sulla persona del lavoratore assente per malattia, alla luce del testo novellato dell’art. 696 c.p.c., il consenso del lavoratore è necessario e il suo diniego comporta l’inammissibilità dell’accertamento; tale diniego potrà tuttavia costituire argomento di prova nel giudizio di merito. (Trib. Milano 7/10/2006, ord., Est. Martello, in D&L 2007, con nota di Sara Huge, “Accertamento tecnico preventivo sulla persona del lavoratore assente per malattia: il rifiuto del consenso alla luce del nuovo testo dell’art. 696 c.p.c.”, 156)
- L’insussistenza della malattia può essere desunta anche da circostanze diverse da un accertamento sanitario, quali quelle relative al comportamento tenuto dal lavoratore durante il periodo della pretesa malattia, la cui conoscenza può essere acquisita dal datore di lavoro, mediante indagini svolte direttamente dal lui stesso o da persone da lui incaricate, nel rispetto dei limiti cui è assoggettata qualsiasi indagine privata sulla vita e sui comportamenti altrui. (Nel caso di specie, un lavoratore, assentatosi dal lavoro esibendo un certificato medico recante una diagnosi di “sindrome influenzale”, veniva licenziato sulla base degli accertamenti compiuti da un’agenzia investigativa che il datore, insospettito da episodi pregressi, aveva ingaggiato). (Trib. Perugia 17/9/2005, ord., Giud. Angeleri, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Elisa Benedetti, “Accertamenti non sanitari sulla malattia del lavoratore ed efficacia probatoria del certificao medico”, 101)
- Le disposizioni di cui agli artt. 2, lettera d), 16 e 17 D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626 non hanno abrogato l’art. 5 St. Lav. (Cass. sez. III pen. 12/4/2005 n. 13161, Pres. Svignano Est. Grillo, in Dir. e prat. lav. 2005, 1293)
- Le disposizioni di cui agli artt. 2, lettera d), 16 e 17 D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626 non hanno abrogato l’art. 5 St. Lav.Il consenso dei lavoratori non ha efficacia scriminante della fattispecie penale prevista dall’art. 5 e punita dall’art. 38 St. Lav., e, quindi, il lavoratore dipendente non ha la disponibilità del diritto a veder controllata la sua assenza per infermità solo da medici del servizio sanitario pubblico. Il reato previsto dagli artt. 5 e 38 St. lav. ha natura formale, perfezionandosi con la condotta del datore di lavoro che acquisisce accertamenti sanitari sull’infermità del dipendente assente dal lavoro attraverso medici di sua personale fiducia, anziché per mezzo di medici del servizio pubblico, e, pertanto, sicchè sussiste anche se il referto clinico dell’esame viene consegnato al datore di lavoro tramite il lavoratore stesso. Il reato previsto dagli artt. 5 e 38 St. Lav. sussiste ogniqualvolta i controlli sull’assenza per infermità del lavoratore siano eseguiti da un medico scelto autonomamente dal datore di lavoro, e, quindi, a prescindere dal fatto che tale medico sia legato al primo da un rapporto di lavoro continuativo, oppure un libero professionista. Il reato previsto dagli artt. 5 e 38 St. Lav. non richiede che si verifichi il danno concreto di uso parziale e tendenzioso dell’accertamento sanitario, e, quindi, sussiste, a prescindere dall’esattezza o meno dell’accertamento sanitario acquisito, e, pertanto, anche quando il referto medico fiduciario sia scientificamente indiscutibile ed insuscettibile di una utilizzazione strumentale e tendenziosa da parte del datore di lavoro. (Cass. sez. III pen. 21/1/2005 n. 1728, Pres. Zumbo Est. Onorato, in Dir. e prat. lav. 2005, 1293)
- La richiesta di accertamento tecnico preventivo di cui all’art. 696 c.p.c. deve contenere l’indicazione, oltre che delle ragioni giustificanti l’urgenza, della domanda di merito cui l’atto è finalizzato; in difetto, l’istanza è da ritenersi inammissibile. È inammissibile un accertamento tecnico preventivo richiesto dal datore di lavoro sulla persona del lavoratore, in assenza di preventiva autorizzazione dello stesso; la mancata autorizzazione non costituisce argomento di prova (nella fattispecie il datore di lavoro aveva richiesto un accertamento sulle reali condizioni di malattia del dipendente). (Trib. Milano 26/2/2003, ord., Est. Salmeri, in D&L 2003, 461, con nota di Matteo Paulli, “Aspetti processuali e sostanziali della domanda di accertamento tecnico preventivo”)