Archivi giornalieri: 24 marzo 2020

I giovani di Ollolai

I giovani di Ollolai

Titolo: I giovani di Ollolai
Autore: Gamna Vincenzo
Editore: RAI
Data di trasmissione: 1967
Conduttore: Gamna Vincenzo
Raccolta: Archivio Rai
Descrizione: Dibattito, condotto dall’autore, che coinvolge la comunità di Ollolai, riunita in un auditorium, cui è stata sottoposta la visione dell’intervista a tre giovani pastori circa un fatto di sangue recentemente avvenuto nelle campagne del paese. Dal confronto tra i presenti (tutti giovani) emerge la consapevolezza che le azioni delittuose sono frutto di una serie di fenomeni (indigenza, disoccupazione, analfabetismo, isolamento culturale e materiale) ormai strutturali nella società agropastorale barbaricina.

Coronavirus, Provenzano: «Dovremo aiutare anche chi lavora in nero»

 
 
Federico Fubini
 
 

Peppe Provenzano sa che il suo portafoglio come ministro, il Sud e la Coesione sociale, sono la prossima emergenza dell’epidemia. Nel Mezzogiorno sta iniziando a crescere a tassi a doppia cifra più rapidi che a Nord. E la tenuta del tessuto di dipendenti di piccole imprese, autonomi, lavoratori del sommerso, oggi è minacciata più che mai.

 


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Ministro, quanto la allarmano tassi di diffusione di Covid-19 al Sud che in alcune regioni superano il 20%? «È presto per una valutazione completa. Si inizia a vedere una flessione del tasso di aumento, ma il contagio ancora cresce. Al Sud abbiamo due settimane di tempo in più, perché il virus si è diffuso dopo. Non dobbiamo sprecarle: il distanziamento va applicato con la massima cura e intanto dobbiamo ampliare la disponibilità di letti in terapia intensiva. A Sud partivamo da quasi 1.700 posti, ora siamo a 2.400 e dobbiamo arrivare al più presto almeno a 3.500».

Da Sud la migrazione sanitaria verso il Nord è sempre stata fortissima. Il sistema meridionale può reggere un onda d’urto di Covid-19? «Se l’epidemia fosse scoppiata al Sud sarebbe stata un’ecatombe. Non lo dico con sollievo, ma con rabbia. È il frutto del disinvestimento nella sanità pubblica, di alcune degenerazioni regionali, della scelta di puntare sul privato. Ma mi lasci ricordare che i malati di Bergamo oggi sono accolti negli ospedali in Sicilia o in Puglia e che dei quasi ottomila medici che si sono fatti avanti per dare una mano in Lombardia, moltissimi sono del Sud. Tutto il Paese sta dando una prova di responsabilità». Ma i reparti nelle regioni del Sud sono pronti? «Stiamo lavorando giorno e notte perché lo siano. Questa settimana dovrebbe entrare a regime l’approvvigionamento di macchinari e andranno distribuiti su tutto il territorio nazionale. Domenico Arcuri, il commissario straordinario, conosce bene le criticità del Sud. Lui rappresenta una garanzia».

Molti a Sud lavoravano in nero e oggi stanno perdendo il loro reddito. Come si aiutano? «Inutile nasconderselo, l’economia meridionale ha una vasta zona grigia di sommerso che ha riflessi anche sull’economia legale. E le misure che il governo ha messo in campo fin qui hanno privilegiato l’emerso, com’era inevitabile. Ma se la crisi si prolunga dobbiamo prendere misure universalistiche per raggiungere anche le fasce sociali più vulnerabili: le famiglie numerose, oltre a chi lavorava in nero. Non basta la cassa integrazione in deroga per gli artigiani». 

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A che strumenti pensa? «Va fatto di più sulle infrastrutture sociali e per ridurre i divari. Per la verità, lo avevamo messo in cantiere nel piano Sud 2030. Tragedie come questa uniscono un Paese, ma ne mettono anche in risalto le linee di faglia. Ad esempio, fra chi può lavorare in smart working e chi subisce un divario digitale».

Non c’è un progetto di una società a partecipazione pubblica come Open Fiber per portare la banda larga in tutt’Italia? «Per le reti internet si sono fatte gare al massimo ribasso, con il risultato che l’azienda vincitrice non ha fatto gli investimenti necessari per andare avanti nei tempi previsti. Anche perché il costo di quegli investimenti era più alto delle penali per i ritardi. Ma così si crea il divario digitale e un modello di sviluppo concentrato in alcune aree urbane ad alta densità. Lo vediamo che svantaggio è per gli abitanti delle zone sfavorite, le aree interne, il non avere un’infrastruttura digitale moderna. Vale per il Sud, come per il Centro-Nord».

Ursula von der Leyen dice al «Corriere» che ci sono 11 miliardi di fondi europei che l’Italia non potrebbe più usare, ma ce li lascia. Per cosa? «La frase della presidente della Commissione era un po’ imprecisa. Quelle risorse non erano perse ed eravamo già impegnati a spenderle. Ma abbiamo bisogno di mobilitare tutte le risorse disponibili, per questo è fondamentale usare per l’emergenza anche quei fondi: acquisto di attrezzature medicali, sostegno al reddito dei lavoratori e misure di inclusione, sostegno alla liquidità delle imprese, anche sul circolante. Ma l’Unione europea non pensi di cavarsela solo con le poche risorse della politica di coesione o l’allentamento sugli aiuti di Stato, pur necessario».

Cos’altro può fare l’Europa? «L’Italia non può finanziare illimitatamente a debito questa crisi. Per uscirne abbiamo bisogno di un piano europeo di investimenti coordinato. Ecco perché gli eurobond o un uso del fondo salvataggi Mes depurato da ogni condizionalità».

La Germania accetterà queste idee? «Non siamo più nella logica del 2011. Il Patto di stabilità è sospeso, oggi l’Europa come vincolo non esiste più. Si è aperta una partita politica nuova e Germania e Italia si trovavano già entrambe in difficoltà prima della pandemia, ma ora una risposta europea coesa diventa davvero essenziale. Fuori dal tempo mi sembrano semmai i sovranisti: gli stessi che non volevano l’Europa, ora protestano perché non ce n’è abbastanza»».

il manifesto

Uomo sventola bandiera greca davanti a un convoglio militare. Frontiera greco-turca di Kastanies, 01/03/2020 (foto di Giannis Papanikos)

Uomo sventola bandiera greca davanti a un convoglio militare. Frontiera greco-turca di Kastanies, 01/03/2020 (foto di Giannis Papanikos)
Uomo sventola bandiera greca davanti a un convoglio militare. Frontiera greco-turca di Kastanies, 01/03/2020 (foto di Giannis Papanikos)

Il termine «invasione» è spesso usato per riferirsi ai flussi migratori diretti in Europa e serve a legittimare le politiche di respingimento. Sulla frontiera greco-turca ha una sua specificità?

Negli ultimi anni in Grecia le analisi che presentano i migranti come una forza d’invasione e leggono i flussi sotto la lente della «sostituzione etnica» non sono state promosse solo dall’estrema destra, ma anche dalla destra di governo. Ciò è avvenuto attraverso quotidiani e case editrici, periodici che trattano di difesa, esercito e tutto ciò che riguarda l’ambito militare. La scorsa settimana parlavo con persone che vivono vicino al confine, soprattutto sull’isola di Chios, e mi dicevano che ormai si è radicata la convinzione che sia in atto una sorta di colonizzazione. Se i flussi migratori sono affrontati in una cornice interpretativa realistica ci si può confrontare su quale sia il metodo migliore per gestire un ingente numero di rifugiati, per esempio se è meglio eliminare gli hot spot e favorire una più fisiologica integrazione dei rifugiati. Ma quando la cornice è la colonizzazione o la sostituzione etnica pianificata dalla Turchia è impossibile. Nel discorso nazionalista greco è auto evidente che la pianificazione di ciò che sta accadendo sia in mano ai turchi. Psicologicamente la «minaccia turca» fa molta presa.


Tassos Kostopoulos

La politica del governo di Nea Dimokratìa di Kyriakos Mitsotakis ha l’obiettivo di bloccare le persone migranti sulle isole e terrorizzarle. È una strategia che anche il governo di Antonis Samaras aveva adottato per rendere il territorio greco una destinazione inospitale per i profughi, affinché comunichino in patria le loro disperate condizioni e scongiurino nuovi arrivi. Per questo le persone dentro l’hotspot di Lesbo sono improvvisamente passate da 6 mila a 20 mila. Ciò ha contribuito a formare nell’opinione pubblica una forte contrarietà vero i rifugiati. Questa è stata una scelta politica centrale da parte del governo che continua sino ad ora. Avrebbero potuto distribuirli nel territorio nazionale affinché diventassero parte della popolazione greca, invece li hanno concentrati tutti in due o tre isole. La scelta di un’accoglienza così massiccia e periferica rispetto al territorio dell’Unione Europea, che dovrebbe essere parte di questa gestione, è estremamente pericolosa. È a causa di queste strategie che nel senso comune greco si è prodotto un rapido slittamento: prima una mamma con dei figli erano considerati persone bisognose di protezione umanitaria, ora sono percepiti come il futuro nemico all’interno della nazione. E questo conduce a una fascistizzazione dell’opinione pubblica molto più diffusa di quando l’estrema destra come Alba Dorata sia mai riuscita a fare.

I media greci definiscono i rifugiati «minaccia asimmetrica». Che significa?

L’espressione è stata coniata dopo l’11 settembre per indicare un tipo di conflitto o una minaccia che non ha le caratteristiche di una classica azione di guerra. Appartiene al campo degli studi strategici. In questo caso legittima l’applicazione di uno stato d’eccezione. Questa definizione è estremamente calzante rispetto a ciò che sta succedendo al confine. Lo slittamento concettuale di cui parlavo funziona anche come dispositivo di negazione di uno dei capi saldi su cui si basava precedentemente la percezione dei profughi. Nella società greca circa un terzo della popolazione è stato un profugo o ha avuto parenti che lo erano. Fino a poco tempo fa l’immaginario del «profugo» era quasi sacro. I racconti e gli articoli che narrano lo sbarco a Lesbo o in altre isole di parenti arrivati dall’Asia Minore con i barconi sono tanti, persino in questi giorni. Se però dovesse affermarsi la teoria della sostituzione etnica, come pare stia accadendo, qualsiasi sentimento di solidarietà spontanea finirà, perché l’altro sarà vissuto come un nemico. Dal piano sociale passiamo a quello etnico-razziale. Ciò è estremamente pericoloso e permette all’idea della «minaccia asimmetrica» di insinuarsi.


Militari greci controllano la ferrovia sul confine greco-turco di Kastanies, 08/03/2020 (AP Photo/Giannis Papanikos)

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha definito il confine greco-turco «scudo dell’europa». Non a caso ha usato la parola greca «aspida» (ασπίδα). È una forma di convergenza tra la linea del governo greco e quella delle istituzioni europee?

Fino a oggi la Grecia aveva il ruolo di arginare il flusso di migranti verso i paesi del nord Europa. Ora sta assumendo una funzione diversa, in parte in controtendenza con quella precedente. Sta diventando un enorme campo di confinamento, una zona di «acriti», le guardie di frontiera dell’impero bizantino. Questo, insieme al denaro che arriva dall’Europa, preannuncia un drastico mutamento sociale in Grecia. In alcune zone si dovrà instaurare una specie di società militare. Se un abitante di Lesbo o Chios domani dovesse lavorare come guardia del centro di detenzione, per sopravvivere dovrà assumere psicologicamente che queste persone sono subumani. Non è come per un poliziotto che dà la caccia ai criminali. Per giustificare a te stesso che bambini, disabili, donne, famiglie sono recluse devi considerarli esseri inferiori. In Grecia c’è un precedente: tra le due guerre la destra aveva una posizione simile nei confronti dei profughi greci che arrivavano dall’Asia Minore. La stampa anti-rifugiati del ’35-’36 sosteneva che per gestire la situazione ci volesse una dittatura. La situazione dei profughi era davvero fuori controllo e la dittatura arrivò. Adesso la situazione è diversa e anche gli esiti lo saranno. Ma è possibile che si arrivi a uno «stato di emergenza» che tolga molte libertà anche ai locali, pian piano. Già circola l’idea, attraverso allusioni neanche troppo implicite, che i democratici e la sinistra siano agenti di Erdogan o che involontariamente facciano il suo gioco. Da qui a politiche molto repressive il passo può essere breve.

Come è visto Erdogan in Grecia?

Finora l’estrema destra diceva che erano i turchi a mandare i profughi in Grecia, ma era possibile controbattere a simili affermazioni. Ora che il presidente turco li strumentalizza, li porta al confine, li fa proteggere dalla sua polizia e fa sparare i lacrimogeni verso il territorio greco è molto più difficile. Tutto questo costruisce un sentimento di aggressione. Ma nessuno si chiede: «Perché Erdogan può strumentalizzare questa cosa?». Il discorso mainstream è che lo fa per mandare musulmani in Europa. Ma la verità è un’altra: i paesi europei temono l’arrivo dei rifugiati per i risvolti elettorali. Così Erdogan può ricattarli. L’aumento dei flussi che si è verificato dopo l’estate non è eccessivo. Ha a che fare con la situazione a Idlib, ma anche con il fatto che il governo Mitsotakis è più vulnerabile del precedente rispetto a questo genere di pressione. Vedono arrivare 10 mila profughi e vanno nel panico. Nessun governo potrebbe restare calmo davanti a mezzo milione di rifugiati, ma un esecutivo che avesse basato meno le sue fondamenta sul discorso razzista potrebbe trovare un modo più efficace per gestire numeri tutto sommato contenuti. Nea Dimokratìa, invece, sa che l’arrivo dei rifugiati mina da subito la sua base elettorale. Quindi è più ricattabile. È la paura che permette a Erdogan di strumentalizzare i rifugiati e usarli, tra molte virgolette, come «un’arma» contro i governi europei.


Un ragazzo tira un sasso contro la polizia greca sulla frontiera greco-turca. Kastanies, 01/03/2020 (AP Photo/Giannis Papanikos)

Che effetto fa l’immaginario del «nemico turco»?

Questo discorso nasce da una narrazione collettiva, nazionale e nazionalista, condivisa dalla stragrande maggioranza della società greca. Con Erdogan ha assunto una modalità espressiva diversa, più populista e aggressiva. Tale percezione si è molto rafforzata. Un ruolo è giocato anche dai nuovi mezzi di informazione, come i social network. C’è un riciclo dei nazionalismi. Uno scrive delle stupidaggini in Turchia e queste sono tradotte e diffuse in Grecia. Così la gente si arrabbia. E viceversa. C’è poi un sentimento di aggressione più antico che riguarda le dimensioni dello Stato turco e la questione di Cipro. O meglio, il modo in cui in Grecia è stata letta la storia di Cipro, che non tiene conto dei conflitti precedenti e del ruolo del nazionalismo greco. Senza questi elementi la questione viene vista solo come un attacco unilaterale. C’è poi tutta la narrazione sui 400 anni di dominio turco e la strumentalizzazione del nazionalismo greco dell’assedio di Costantinopoli. Infine esiste un substrato di «nazionalismo dei luoghi comuni» che non riguarda solo i nazionalisti. Per questo insieme di fattori quando Erdogan dice «vi farò questo o quell’altro» diventa subito un caso. È una questione molto annosa perché da un lato silenzia gran parte dell’opinione pubblica democratica e dall’altro fascistizza la destra. Alimenta un clima simile a quello degli anni ’40 contro gli italiani. Già allora si diceva: «andiamo a difendere i nostri confini», «evviva il nostro confine» o «non faremo passare nessun attacco». È una situazione molto pericolosa.

Chi sono i militanti di estrema destra impegnati a respingere i profughi e che relazioni hanno con la polizia greca?

La violenza della polizia sulle isole di Lesbo e Chio arriva a seguito di una sconfitta del governo di fronte a una mobilitazione popolare molto ampia. L’antisommossa è stata mandata per proteggere la costruzione dei centri di detenzione per migranti. Sembrava una forza di invasione dell’isola, che marciava in falangi. È stata una dimostrazione di forza, ma è fallita. I residenti hanno cacciato i celerini. A parte questo, credo che servizi ed esercito stiano reclutando l’estrema destra, quello che qui chiamiamo il «parastato». Si vede nel tentativo di mobilitazione delle associazioni dei riservisti, una sorta di appendice non ufficiale dell’esercito, che fa il lavoro sporco per i militari. L’appello per coinvolgerli è stato diramato dai canali web ufficiali dell’esercito. Già prima lungo la frontiera giravano molte armi, ora sono state riattivate queste reti «nere», cresciute contro il nemico interno e adesso in prima linea contro i profughi. Il problema è molto serio perché così si crea un clima di mobilitazione nazionalista e militarista attorno alle frontiere. L’attivazione di tutte queste strutture parastatali è estremamente rischiosa. Fa paura.