Cecilia Romero

Quel diploma mai consegnato

 

 A colloquio con Cecilia, una delle nipoti di monsignor Óscar Romero ·

 

 

 

Monsignor Óscar Romero fu ucciso mentre stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza a San Salvador, il 24 marzo 1980. Colpito alla testa, cadde immediatamente. Secondo la registrazione audio, il colpo venne sparato durante la consacrazione eucaristica, mentre Romero alzava il calice verso l’alto. Per anni aveva denunciato le ingiustizie in Salvador e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Nel 1983, in visita in Salvador, Papa Wojtyła si recò a pregare sulla tomba del vescovo. La causa di beatificazione è iniziata nel 1997 ma si era poi bloccata, fino alla decisione di Papa Francesco. E così il 23 maggio scorso Romero è stato proclamato beato.

Cecilia Romero è una delle nipoti di Romero e ha partecipato alla messa a San Salvador. Emozionata ci racconta quel giorno. A San Salvador alla messa di beatificazione hanno partecipato 260 mila fedeli. Romero diventa il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei. Quanto è stato importante il ruolo di Bergoglio nell’accelerare il processo di beatificazione? «Senza alcun dubbio, molto. Per noi è un grande segnale di riconciliazione e speranza. Era inspiegabile che un sacerdote ucciso sull’altare mentre celebrava la messa non fosse riconosciuto martire. In questo modo la Chiesa oggi afferma ufficialmente che monsignor Romero non ha sbagliato in ciò che ha detto e fatto, così come alcuni hanno continuato a sostenere per anni. Credo che ci volesse il primo Papa latinoamericano per beatificare il difensore del popolo del Salvador! Mancavo dal mio Paese da undici anni e ho condiviso a San Salvador insieme ai suoi due fratelli ultraottantenni, Tiberio e Gaspar, questa gioia immensa».

Cecilia Romero ha 53 anni, è figlia di José Romero, cugino di primo grado dell’arcivescovo salvadoregno. È nata a San Salvador e vive in Italia da quindici anni. Ha sposato nel suo Paese un italiano che lavorava per l’Unione europea, vivono a Tuscania, in provincia di Viterbo, con i due figli, Lucia ed Edoardo, di 16 e 15 anni. È molto legata a Tiberio e Gaspar Romero, i due fratelli ultraottantenni rimasti in vita di monsignor Romero. Fa parte della Commissione per la verità e della giustizia dei desaparecidos latinoamericani che il 28 maggio 2014 ha incontrato Papa Bergoglio. Sigan adelante, “andate avanti” ha detto Francesco alla delegazione di familiari dei desaparecidos di Argentina, Cile e Uruguay. Secondo Cecilia è nell’ultima omelia, celebrata il 23 marzo 198o, che bisogna cercare il vero testamento cristiano di Romero: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme — disse solo poche ore prima di essere ucciso — Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere».

Resterà per sempre l’immagine del suo corpo insanguinato circondato dai fedeli. Il momento della morte: cosa ha significato per lei quello scatto? «Ha reso ancor più eterna la sua figura di vescovo che era dalla parte degli ultimi. Fu il segno indelebile di un atto atroce che ha colpito almeno tre generazioni di salvadoregni. Un colpo solo, terribile. Romero sapeva bene che prima o poi l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Tutti noi abbiamo sentito in famiglia il peso del cognome Romero, e per anni siamo stati costretti a fingere di non avere legami con lui. Da un certo punto in poi i contatti della mia famiglia con Romero si interruppero. Solo mio padre li mantenne, ma in segreto. Durante il 1979 un gruppo di militari sfondò la porta ed entrò in casa mia, subito chiesero di mostrargli i documenti e quando lessero “Romero” si insospettirono. «Ah, quindi siete anche voi Romero! Siete parenti?», «No, non siamo parenti». Quanto dolore in queste parole. Nel 1980, finivo i miei studi da liceale e, da noi, la consegna dei diplomi la fa il vescovo. Non vedevo l’ora che arrivasse ottobre, mese in cui era fissata la cerimonia, per ricevere dalle mani di mio zio il diploma e festeggiare con lui e la mia famiglia. Quel momento non si realizzò mai».

«Quando fu ammazzato lo zio — prosegue Cecilia — avevo 18 anni e per lo stesso motivo (minacce di morte alla sua famiglia) non partecipai ai funerali. Una sofferenza nella sofferenza. Allora era troppo pericoloso, mio padre per prudenza non fece avvicinare fisicamente mia madre e tutti noi figli a monsignor Romero, che per primo gli consigliò di non farlo. Devo dire che il pericolo continuò anche dopo la sua morte. Fino agli anni Novanta era impossibile parlare apertamente di Romero. Il suo nome era ingombrante direi fino alla visita di Giovanni Paolo II nel 1996: da quel momento in poi cominciarono a cambiare le cose».

Di Romero si è detto molto in questi lunghi anni. Ci aiuti a capire, chi era è veramente. «La sua vita è stata fortemente caratterizzata da una coerenza unica tra i valori in cui credeva, la sua fede e la sua vita quotidiana. Lottò per i diritti umani e non solo a parole, pagò con la vita il suo coraggio e la sua determinazione nell’opporsi alla dittatura militare. Il suo senso di carità si estendeva anche ai suoi persecutori ai quali predicava la conversione al bene. Fu accusato di essere un membro della teologia della liberazione, ma lui era soltanto un cuore cristiano che soffriva per e con quelli più deboli. Romero voleva soltanto portare il Paese fuori della violenza combattendo quella che lui stesso chiamava “l’ingiustizia”».

Cosa è rimasto degli anni della guerra civile? La memoria è ancora viva nella società salvadoregna? Cosa ne pensano le nuove generazioni? «La guerra civile non si può dimenticare, nonostante siano passati tanti anni. Durante la guerra civile circa il 2 per cento della popolazione ha perso la vita. È un dato sconvolgente se pensiamo concretamente cosa vuol dire all’interno delle famiglie salvadoregne. Le tracce di quei tragici eventi sono ovunque. Molti trentenni sono i bambini orfani di ieri. El Salvador, infatti, è finalmente una democrazia, schiacciata dalle terribili eredità della guerra civile e naturalmente dalla crisi economica mondiale».

Tornando a Romero, c’è una data che segna il prima e il dopo nella sua vita: il 12 marzo 1977 quando Rutilio Grande, gesuita, venne ucciso in un piccolo paese a nord di El Salvador, Anguilares. Perché è così importate questa data? «Era il suo miglior amico. Ed ebbe un grande merito: lo avvicinò alla gente. Penso che l’atroce fine del suo migliore amico aprì in Romero una nuova fase dal punto di vista umano e della fede. Il delitto lo sconvolse. Purtroppo dopo Rutilio Grande, Romero vide cadere anche altri preti».

Le sue catechesi, le sue omelie, trasmesse dalla radio diocesana, vennero ascoltate anche all’estero: eravate al corrente della sua crescente popolarità? «Ho cominciato a sentirmi libera ascoltando e riascoltando le sue bellissime omelie. Ancora oggi sentire i nastri con le registrazioni mi provoca ogni volta un grande dolore. Penso alla sua solitudine, alle sue convinzioni e penso al fatto che nemmeno noi parenti siamo stati vicini come avremmo voluto. Eravamo abituati al silenzio, eravamo un popolo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta in quegli anni abituandomi al silenzio. Un silenzio che ha ucciso gran parte di noi. Sì, la radio era l’unico modo per sapere per aprire gli occhi e avere notizie. Tutti si fermavano ad ascoltare. Qualcuno mi ha detto che all’epoca era possibile camminare per le strade di San Salvador anche senza la radio, senza perdere una parola delle sue prediche, perché da tutte le case e da tutti i bar proveniva la sua voce. Devo dire che Romero rispettava una sorte di schema fisso. Nella prima parte commentava la Parola di Dio, nella seconda, alla luce di quella Parola, denunciava i fatti della settimana così come gli venivano documentati dal Socorro Jurídico, l’ufficio di tutela dei diritti umani. Leggeva i nomi delle persone scomparse, trovate uccise nelle discariche della città. Era l’unica fonte di informazione. La polizia fingeva di non conoscere i casi, per cui i familiari degli scomparsi si recavano ogni domenica nella cattedrale per avere notizie. Talvolta la notizia non riguardava il ritrovamento di un cadavere, ma quella di una detenzione e allora la famiglia riprendeva a sperare».

«Mio zio — racconta ancora Cecilia — contava sull’aiuto dell’avvocato Marianela García Villas, che poi verrà torturata e uccisa tre anni dopo di lui, nella giurisdizione di Suchitoto mentre stava raccogliendo le prove sull’uso di armi chimiche contro la popolazione civile da parte dei militari. Aveva trentaquattro anni questa giovane militante per i diritti umani che amava suonare, dipingere e scrivere racconti. Era tra i più stretti collaboratori di Romero, a capo del piccolo gruppo di giovani avvocati che, a rischio della propria vita, registravano e indagavano le violenze quotidiane e redigevano settimanalmente un rapporto sulle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato e dai gruppi armati di qualunque parte politica. È stata pressoché dimenticata nel nostro Paese, e non solo. Era “l’avvocata dei poveri e dei contadini” e purtroppo se n’è persa memoria: eppure ci troviamo di fronte a una martire dei diritti umani. A Romero, chi pensava di averlo messo a tacere per sempre, non solo ha dato voce a un popolo di fedeli, ma lo ha consegnato alla beatificazione eterna».

di Silvina Pérez

Cecilia Romero ha 53 anni, è figlia di José Romero, cugino di primo grado dell’arcivescovo salvadoregno. È nata a San Salvador e vive in Italia da quindici anni. Ha sposato nel suo Paese un italiano che lavorava per l’Unione europea, vivono a Tuscania, in provincia di Viterbo, con i due figli, Lucia ed Edoardo, di 16 e 15 anni. È molto legata a Tiberio e Gaspar Romero, i due fratelli ultraottantenni rimasti in vita di monsignor Romero. Fa parte della Commissione per la verità e della giustizia dei desaparecidos latinoamericani che il 28 maggio 2014 ha incontrato Papa Bergoglio. Sigan adelante, “andate avanti” ha detto Francesco alla delegazione di familiari dei desaparecidos di Argentina, Cile e Uruguay. Secondo Cecilia è nell’ultima omelia, celebrata il 23 marzo 198o, che bisogna cercare il vero testamento cristiano di Romero: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme — disse solo poche ore prima di essere ucciso — Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere».

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Cecilia Romeroultima modifica: 2015-08-21T09:20:44+02:00da vitegabry
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