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Come Palmiro Togliatti ispirò la Primavera di Praga

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Come Palmiro Togliatti ispirò la Primavera di Praga

Come Palmiro Togliatti ispirò la Primavera di Praga

Pubblicato il 21 ago 2015

Il 21 agosto 1964 moriva a Yalta in Crimea Palmiro Togliatti. Per ricordarne l’anniversario riproponendo un articolo del 1988 di Milos Hajek, un grande storico del movimento comunista internazionale, protagonista della “primavera di Praga” di cui ricorre pure oggi l’anniversario dell’invasione sovietica ed esponente di primo piano del dissenso negli anni della “normalizzazione”. A chi in Italia – come facevano allora i craxiani – lanciava campagne strumentali contro lo stalinista Togliatti lo storico cecoslovacco, e allora portavoce di Charta77, ricordava la profonda influenza che esercitò sui comunisti che con Dubcek avviarono l’esperimento del “socialismo dal volto umano”. Oggi ricorre anche il 75° anniversario della morte di Lev Trotski, assassinato in Messico nel 1940 da un sicario di Stalin. Una coincidenza di anniversari che invita a riflettere sulla complessa e tragica grandezza della vicenda storica del movimento comunista nel Novecento. Segnaliamo che sul sito del partito, nella sezione dedicata alla formazione in continuo aggiornamento, si trovano molti testi di e su Togliatti e la storia dei comunisti. Nel momento in cui la Costituzione è sotto attacco e si confezionano nuove leggi truffa è bene anche ricordare il ruolo fondamentale di Togliatti nella costruzione della democrazia italiana. Consigliamo vivamente le relazioni e i video del convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità.

Togliatti a Mosca

di MILOS HAJEK

Le mie possibilità – non di conoscenze linguistiche – di seguire la stampa italiana sono limitate (…) Cionostante spero che mi sia consentito di intervenire con due considerazioni.

Non vi sono dubbi, mi sembra, sulle responsabilità di coloro che nella seconda metà degli anni Trenta costituivano il nucleo dirigente della III Internazionale . Secondo una testimonianza di Davide Lajolo, resa nota da Giuseppe Boffa, alla domanda se non avesse potuto schierarsi contro i processi di Mosca, Togliatti rispose: «Se lo avessi fatto mi avrebbero ucciso. La storia dirà se era meglio morire o vivere per salvare il partito». Giudicando l’uomo e il dirigente politico per l’atteggiamento assunto, dovremmo tener conto dì quel timore, oltre che per la propria vita, per il proprio partito che all’epoca era la forza più attiva nella lotta contro il fascismo in Italia . Anche Herbert Wehner, che all’epoca viveva a Mosca e lavorava nel Komintern non se la sentì allora di rompere con il proprio partito, impegnato in una lotta per la vita o per la morte con il nazismo. Se è naturale che Churchill, Roosvelt o e Gaulle si siano alleati con Stalin nella lotta contro Hitler e Mussolini diventa difficile imputare Togliatti per un comportamento analogo. È chiaro però che quella «alleanza» aveva una forma diversa nel caso di un dirigente comunista. E la diversità riguardava molti aspetti. Wehner ha testimoniato che l’Nkvd (si legga: la polizia dipendente dal Commissariato del popolo per gli affari interni) cercava accuse da levare contro Wilhelm Pieck e Walter Ulbricht. È difficile pensare che gli altri membri della segreteria politica del Komintern restassero esclusi da un simile «interessamento» (…) È raro che a qualcuno capiti di trovarsi nella situazione in cui vissero allora Togliatti, , Kousinen o Gottwald. E lo storico che valuta il loro comportamento da un punto di vista politico e morale deve chiedersi quanto, nel loro caso, l’aperta opposizione a Stalin poteva essere nelle forze umane.

La seconda considerazione riguarda l’importanza delle idee di Togliatti per il processo di rinascita in Cecoslovacchia. Nel 1956 gli alfieri di quel processo erano ancora stalinisti, salvo trascurabili eccezioni. Il rapporto segreto di Kruscev li rese più perspicaci, ma con molte difficoltà si muovevano alla ricerca di un nuovo orientamento, il loro spirito di partito era ancora ben lontano dal laicismo. In molti di loro permaneva una riserva settaria verso tutto quanto non era comunista. Di qui la grande importanza delle idee di Togliatti che essi accettarono senza riserve interiori: sia quella di un regime socialista nel quale potessero esistere più partiti politici, sia quella concezione «di una evoluzione graduale nella quale è molto difficile stabilire il momento in cui interviene il mutamento qualitativo, sia infine il Promemoria di Yalta. Giuseppe Boffa e Giancarlo Paletta a suo tempo parlarono di influenza della «Primavera di Praga» su quella tappa che venne definita «eurocomunismo»; alla stessa maniera bisogna ricordare l’ispirazione che i pionieri del 1968 cecoslovacco trovarono nelle idee dei comunisti italiani.

INPS: circolari e messaggi

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Le inviamo gli ultimi Messaggi Hermes pubblicati sul sito www.INPS.it > Informazioni > INPS comunica >normativa INPS: circolari e messaggi
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Contenuto:  Decreto legislativo n. 80 del 15 giugno 2015 in attuazione dell?art. 1, commi 8 e 9 della legge delega n. 183 del 2014 (Jobs Act) Fruizione del congedo parentale in modalità oraria.
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Contenuto:  Fusione mediante incorporazione del patronato ?Istituto Nazionale per l?Assistenza ai Lavoratori ? I.N.P.A.L.? nel patronato ?Ente Nazionale Confederale Assistenza Lavoratori ? E.N.C.A.L.?
Tipologia:  CIRCOLARE

>>> Titolo:  Circolare numero numero 150 del 17-08-2015
Contenuto:  Convenzione fra l?INPS e la Confederazione Federterziario Confimea (C.F.C.) per la riscossione dei contributi di assistenza contrattuale, ai sensi della legge 4 giugno 1973, n.311. Istruzioni operative e contabili. Variazioni al piano dei conti.
Tipologia:  CIRCOLARE

>>> Titolo:  Messaggio numero numero 5337 del 17-08-2015
Contenuto:  Incentivi all?occupazione previsti dalla l. 191/2009, art. 2, commi 134, 135 e 151. Aziende ammesse ai benefici per assunzioni effettuate nel 2012.
Tipologia:  MESSAGGIO

>>> Titolo:  Messaggio numero numero 5336 del 17-08-2015
Contenuto:  Riduzione contributiva nel settore dell?edilizia per l?anno 2015, ai sensi dell?art. 29 d.l. 244/1995.
Tipologia:  MESSAGGIO

Cecilia Romero

Quel diploma mai consegnato

 

 A colloquio con Cecilia, una delle nipoti di monsignor Óscar Romero ·

 

 

 

Monsignor Óscar Romero fu ucciso mentre stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza a San Salvador, il 24 marzo 1980. Colpito alla testa, cadde immediatamente. Secondo la registrazione audio, il colpo venne sparato durante la consacrazione eucaristica, mentre Romero alzava il calice verso l’alto. Per anni aveva denunciato le ingiustizie in Salvador e le violenze della polizia e dei militari contro i più deboli. Nel 1983, in visita in Salvador, Papa Wojtyła si recò a pregare sulla tomba del vescovo. La causa di beatificazione è iniziata nel 1997 ma si era poi bloccata, fino alla decisione di Papa Francesco. E così il 23 maggio scorso Romero è stato proclamato beato.

Cecilia Romero è una delle nipoti di Romero e ha partecipato alla messa a San Salvador. Emozionata ci racconta quel giorno. A San Salvador alla messa di beatificazione hanno partecipato 260 mila fedeli. Romero diventa il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei. Quanto è stato importante il ruolo di Bergoglio nell’accelerare il processo di beatificazione? «Senza alcun dubbio, molto. Per noi è un grande segnale di riconciliazione e speranza. Era inspiegabile che un sacerdote ucciso sull’altare mentre celebrava la messa non fosse riconosciuto martire. In questo modo la Chiesa oggi afferma ufficialmente che monsignor Romero non ha sbagliato in ciò che ha detto e fatto, così come alcuni hanno continuato a sostenere per anni. Credo che ci volesse il primo Papa latinoamericano per beatificare il difensore del popolo del Salvador! Mancavo dal mio Paese da undici anni e ho condiviso a San Salvador insieme ai suoi due fratelli ultraottantenni, Tiberio e Gaspar, questa gioia immensa».

Cecilia Romero ha 53 anni, è figlia di José Romero, cugino di primo grado dell’arcivescovo salvadoregno. È nata a San Salvador e vive in Italia da quindici anni. Ha sposato nel suo Paese un italiano che lavorava per l’Unione europea, vivono a Tuscania, in provincia di Viterbo, con i due figli, Lucia ed Edoardo, di 16 e 15 anni. È molto legata a Tiberio e Gaspar Romero, i due fratelli ultraottantenni rimasti in vita di monsignor Romero. Fa parte della Commissione per la verità e della giustizia dei desaparecidos latinoamericani che il 28 maggio 2014 ha incontrato Papa Bergoglio. Sigan adelante, “andate avanti” ha detto Francesco alla delegazione di familiari dei desaparecidos di Argentina, Cile e Uruguay. Secondo Cecilia è nell’ultima omelia, celebrata il 23 marzo 198o, che bisogna cercare il vero testamento cristiano di Romero: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme — disse solo poche ore prima di essere ucciso — Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere».

Resterà per sempre l’immagine del suo corpo insanguinato circondato dai fedeli. Il momento della morte: cosa ha significato per lei quello scatto? «Ha reso ancor più eterna la sua figura di vescovo che era dalla parte degli ultimi. Fu il segno indelebile di un atto atroce che ha colpito almeno tre generazioni di salvadoregni. Un colpo solo, terribile. Romero sapeva bene che prima o poi l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Tutti noi abbiamo sentito in famiglia il peso del cognome Romero, e per anni siamo stati costretti a fingere di non avere legami con lui. Da un certo punto in poi i contatti della mia famiglia con Romero si interruppero. Solo mio padre li mantenne, ma in segreto. Durante il 1979 un gruppo di militari sfondò la porta ed entrò in casa mia, subito chiesero di mostrargli i documenti e quando lessero “Romero” si insospettirono. «Ah, quindi siete anche voi Romero! Siete parenti?», «No, non siamo parenti». Quanto dolore in queste parole. Nel 1980, finivo i miei studi da liceale e, da noi, la consegna dei diplomi la fa il vescovo. Non vedevo l’ora che arrivasse ottobre, mese in cui era fissata la cerimonia, per ricevere dalle mani di mio zio il diploma e festeggiare con lui e la mia famiglia. Quel momento non si realizzò mai».

«Quando fu ammazzato lo zio — prosegue Cecilia — avevo 18 anni e per lo stesso motivo (minacce di morte alla sua famiglia) non partecipai ai funerali. Una sofferenza nella sofferenza. Allora era troppo pericoloso, mio padre per prudenza non fece avvicinare fisicamente mia madre e tutti noi figli a monsignor Romero, che per primo gli consigliò di non farlo. Devo dire che il pericolo continuò anche dopo la sua morte. Fino agli anni Novanta era impossibile parlare apertamente di Romero. Il suo nome era ingombrante direi fino alla visita di Giovanni Paolo II nel 1996: da quel momento in poi cominciarono a cambiare le cose».

Di Romero si è detto molto in questi lunghi anni. Ci aiuti a capire, chi era è veramente. «La sua vita è stata fortemente caratterizzata da una coerenza unica tra i valori in cui credeva, la sua fede e la sua vita quotidiana. Lottò per i diritti umani e non solo a parole, pagò con la vita il suo coraggio e la sua determinazione nell’opporsi alla dittatura militare. Il suo senso di carità si estendeva anche ai suoi persecutori ai quali predicava la conversione al bene. Fu accusato di essere un membro della teologia della liberazione, ma lui era soltanto un cuore cristiano che soffriva per e con quelli più deboli. Romero voleva soltanto portare il Paese fuori della violenza combattendo quella che lui stesso chiamava “l’ingiustizia”».

Cosa è rimasto degli anni della guerra civile? La memoria è ancora viva nella società salvadoregna? Cosa ne pensano le nuove generazioni? «La guerra civile non si può dimenticare, nonostante siano passati tanti anni. Durante la guerra civile circa il 2 per cento della popolazione ha perso la vita. È un dato sconvolgente se pensiamo concretamente cosa vuol dire all’interno delle famiglie salvadoregne. Le tracce di quei tragici eventi sono ovunque. Molti trentenni sono i bambini orfani di ieri. El Salvador, infatti, è finalmente una democrazia, schiacciata dalle terribili eredità della guerra civile e naturalmente dalla crisi economica mondiale».

Tornando a Romero, c’è una data che segna il prima e il dopo nella sua vita: il 12 marzo 1977 quando Rutilio Grande, gesuita, venne ucciso in un piccolo paese a nord di El Salvador, Anguilares. Perché è così importate questa data? «Era il suo miglior amico. Ed ebbe un grande merito: lo avvicinò alla gente. Penso che l’atroce fine del suo migliore amico aprì in Romero una nuova fase dal punto di vista umano e della fede. Il delitto lo sconvolse. Purtroppo dopo Rutilio Grande, Romero vide cadere anche altri preti».

Le sue catechesi, le sue omelie, trasmesse dalla radio diocesana, vennero ascoltate anche all’estero: eravate al corrente della sua crescente popolarità? «Ho cominciato a sentirmi libera ascoltando e riascoltando le sue bellissime omelie. Ancora oggi sentire i nastri con le registrazioni mi provoca ogni volta un grande dolore. Penso alla sua solitudine, alle sue convinzioni e penso al fatto che nemmeno noi parenti siamo stati vicini come avremmo voluto. Eravamo abituati al silenzio, eravamo un popolo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta in quegli anni abituandomi al silenzio. Un silenzio che ha ucciso gran parte di noi. Sì, la radio era l’unico modo per sapere per aprire gli occhi e avere notizie. Tutti si fermavano ad ascoltare. Qualcuno mi ha detto che all’epoca era possibile camminare per le strade di San Salvador anche senza la radio, senza perdere una parola delle sue prediche, perché da tutte le case e da tutti i bar proveniva la sua voce. Devo dire che Romero rispettava una sorte di schema fisso. Nella prima parte commentava la Parola di Dio, nella seconda, alla luce di quella Parola, denunciava i fatti della settimana così come gli venivano documentati dal Socorro Jurídico, l’ufficio di tutela dei diritti umani. Leggeva i nomi delle persone scomparse, trovate uccise nelle discariche della città. Era l’unica fonte di informazione. La polizia fingeva di non conoscere i casi, per cui i familiari degli scomparsi si recavano ogni domenica nella cattedrale per avere notizie. Talvolta la notizia non riguardava il ritrovamento di un cadavere, ma quella di una detenzione e allora la famiglia riprendeva a sperare».

«Mio zio — racconta ancora Cecilia — contava sull’aiuto dell’avvocato Marianela García Villas, che poi verrà torturata e uccisa tre anni dopo di lui, nella giurisdizione di Suchitoto mentre stava raccogliendo le prove sull’uso di armi chimiche contro la popolazione civile da parte dei militari. Aveva trentaquattro anni questa giovane militante per i diritti umani che amava suonare, dipingere e scrivere racconti. Era tra i più stretti collaboratori di Romero, a capo del piccolo gruppo di giovani avvocati che, a rischio della propria vita, registravano e indagavano le violenze quotidiane e redigevano settimanalmente un rapporto sulle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato e dai gruppi armati di qualunque parte politica. È stata pressoché dimenticata nel nostro Paese, e non solo. Era “l’avvocata dei poveri e dei contadini” e purtroppo se n’è persa memoria: eppure ci troviamo di fronte a una martire dei diritti umani. A Romero, chi pensava di averlo messo a tacere per sempre, non solo ha dato voce a un popolo di fedeli, ma lo ha consegnato alla beatificazione eterna».

di Silvina Pérez

Cecilia Romero ha 53 anni, è figlia di José Romero, cugino di primo grado dell’arcivescovo salvadoregno. È nata a San Salvador e vive in Italia da quindici anni. Ha sposato nel suo Paese un italiano che lavorava per l’Unione europea, vivono a Tuscania, in provincia di Viterbo, con i due figli, Lucia ed Edoardo, di 16 e 15 anni. È molto legata a Tiberio e Gaspar Romero, i due fratelli ultraottantenni rimasti in vita di monsignor Romero. Fa parte della Commissione per la verità e della giustizia dei desaparecidos latinoamericani che il 28 maggio 2014 ha incontrato Papa Bergoglio. Sigan adelante, “andate avanti” ha detto Francesco alla delegazione di familiari dei desaparecidos di Argentina, Cile e Uruguay. Secondo Cecilia è nell’ultima omelia, celebrata il 23 marzo 198o, che bisogna cercare il vero testamento cristiano di Romero: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme — disse solo poche ore prima di essere ucciso — Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere».

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(Da Radio Vaticana)

 
 

Papa: lavoro a misura di famiglia, se no società si degrada

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2015-08-19 Radio Vaticana

“Il lavoro è sacro” perché dà dignità a persone e famiglie e permette alla terra di svilupparsi secondo l’ottica creatrice di Dio. Alle migliaia di persone in Aula Paolo VI per l’udienza generale, Papa Francesco ha ribadito la visione cristiana del lavoro che, ha affermato, non deve tenere in “ostaggio” le famiglie perché basato solo sulla “convenienza economica” di chi lo gestisce. Il servizio di Alessandro De Carolis:

La “casa intelligente”, monumento all’efficienza, in cui si lavora tanto ma il lavoro è solo di chi ha la forza e le capacità di creare reddito. E la “casa comune”, quella in cui pure si lavora sodo ma dove il lavoro non è nemico della famiglia, dove gli anziani non sono una voce in perdita nella colonna dei profitti e i bambini non sono orfani di genitori assenti incastrati nella macchina produttiva. La prima seduce con la sua organizzazione, la seconda ha “già fin troppe crepe”, osserva Francesco, che evoca entrambe dopo aver tuttavia ben spiegato in quale delle due abitino le sue speranze, quelle per un mondo davvero a misura d’uomo.

La dignità del pane a casa
Il tema della catechesi è il rapporto tra famiglia e lavoro e per un cristiano ogni lavoro, “a partire da quello casalingo”, sottolinea, è un cooperare con Dio alla Creazione, dunque è compiere un’opera sacra:

“Il lavoro è sacro. E perciò la gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un ‘mercato’ divinizzato. Causare una perdita di posti di lavoro significa causare un grave danno sociale”.

E soggiunge, a braccio, stringendo a sé idealmente con sentimenti di solidarietà le vittime di uno dei più gravi mali contemporanei, la disoccupazione:  

“Io mi rattristo quando vedo che c’è gente senza lavoro, che non trova lavoro e non ha la dignità di portare il pane a casa. E mi rallegro tanto quando vedo che i governanti fanno tanti sforzi per trovare posti di lavoro e per cercare che tutti abbiano un lavoro. Il lavoro è sacro, il lavoro dà dignità a una famiglia. Dobbiamo pregare perché non manchi il lavoro in una famiglia”.

Il lavoro che fa bella la terra
Il discorso si sposta poi sul lavoro che rende migliore il luogo in cui si vive e, in generale, il nostro pianeta. Francesco ricorda che nella Genesi si evoca l’immagine di una terra che, appena creata, non ha erba né cespugli perché nessuno l’aveva ancora lavorata e irrigata:

“Non è romanticismo, è rivelazione di Dio; e noi abbiamo la responsabilità di comprenderla e assimilarla fino in fondo. L’Enciclica Laudato si’, che propone un’ecologia integrale, contiene anche questo messaggio: la bellezza della terra e la dignità del lavoro sono fatte per essere congiunte. Vanno insieme tutte e due: la terra diviene bella quando è lavorata dall’uomo”:

Il lavoro che corrompe l’habitat
Quando invece “il lavoro si distacca dall’alleanza di Dio con l’uomo e la donna” e diventa “ostaggio della logica del solo profitto e disprezza gli affetti della vita”, “l’avvilimento dell’anima” che ne nasce – afferma il Papa – “contamina tutto”, la “vita civile si corrompe e l’habitat si guasta”. E, al solito, a farne le spese sono “i più poveri”, le “famiglie più povere”.

“La cosiddetta ‘città intelligente’ è indubbiamente ricca di servizi e di organizzazione; però, ad esempio, è spesso ostile ai bambini e agli anziani. A volte chi progetta è interessato alla gestione di forza-lavoro individuale, da assemblare e utilizzare o scartare secondo la convenienza economica. La famiglia è un grande banco di prova. Quando l’organizzazione del lavoro la tiene in ostaggio, o addirittura ne ostacola il cammino, allora siamo sicuri che la società umana ha incominciato a lavorare contro se stessa!”.

Lavoro e vita dello spirito non sono in contrasto
Dopo aver criticato in precedenza, con le parole di San Paolo, il “falso spiritualismo” di chi, in ambito di fede, sostiene che impegno del lavoro e vita dello spirito siano in contrasto, Francesco conclude esortando le famiglie cristiane a sfruttare “con fede e scaltrezza” la congiuntura attuale, difendendo “il lavoro che – dice – rende domestica la terra e abitabile il mondo”, nonostante sembri di dover combattere come Davide contro Golia. “Ma sappiamo – osserva con una punta d’ironia – come è andata a finire quella sfida!”.

(Da Radio Vaticana)

Immigrazione

Centomila sventurati 
non sono un’invasione

 

 Registrato a luglio il maggior numero di arrivi di profughi e migranti nell’Unione europea ·

19 agosto 2015

 
 

 

Nel mese di luglio sono arrivati su suolo europeo 107.500 migranti e profughi, portando il totale di quest’anno a 340.000, una cifra vicina a quella registrata in tutto il 2014. Il dato è stato diffuso ieri da Frontex, l’agenzia dell’Unione europea competente per il controllo delle frontiere.

Bambina migrante su un treno diretto in Serbia (Ap)

I numeri, compreso quello registrato per la prima volta di oltre centomila arrivi in un mese, mostrano indubbiamente un’accentuazione. Del resto si sono via via aggravate quest’anno le situazioni — non solo in Vicino oriente, ma anche in Africa — che spingono milioni di persone a cercare scampo da guerre, persecuzioni e fame. Tuttavia, almeno per quanto riguarda l’Europa (i flussi di profughi e migranti sono soprattutto tra sud e sud del mondo) sono lontani dal costituire quella sorta di «invasione» della quale parlano diversi soggetti istituzionali dei Paesi dell’Unione europea. La questione centrale resta dunque quella politica, cioè la revisione delle regole che delegano all’esclusiva responsabilità degli Stati di arrivo la gestione dei flussi di profughi e di migranti irregolari. Oltre metà degli arrivi segnalati da Frontex sono stati in Grecia. Seguono Italia e Ungheria, il cui Governo ha scelto una linea di rigido respingimento, come del resto quelli di altri Paesi ben meno investiti dall’aumento dei flussi. In ogni caso, il Governo di Budapest ha detto che il Paese è «sotto un attacco organizzato» da parte dei trafficanti di essere umani e ha annunciato l’invio di altre migliaia di soldati alla frontiera esterna all’Unione europea, cioè quella con la Serbia, dove sta costruendo una barriera. 

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Il lavoro dà dignità

Il lavoro dà dignità

 

 ​All’udienza generale il Papa parla del rapporto tra organizzazione produttiva e famiglia 

19 agosto 2015

 
 

 

«Il lavoro è sacro» e «dà dignità a una famiglia». Lo ha riaffermato Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 19 agosto, nell’Aula Paolo vi, rinnovando il suo appello per la difesa dell’occupazione e per la salvaguardia del creato, minacciato quando il lavoro diventa «ostaggio della sola logica del profitto».

Gino Severini, «Simboli del lavoro» (1950, particolare)

«La bellezza della terra e la dignità del lavoro — ha osservato in proposito — sono fatte per essere congiunte». La terra, infatti, «diviene bella quando è lavorata dall’uomo». Al contrario, nel momento in cui «il lavoro si distacca dall’alleanza di Dio con l’uomo e la donna», l’avvilimento dell’anima contamina tutto: anche l’aria, l’acqua, l’erba, il cibo». In questo modo «la vita civile si corrompe e l’habitat si guasta. E le conseguenze colpiscono soprattutto i più poveri».

Per Francesco «lavorare è proprio della persona umana», perché «esprime la sua dignità di essere creata a immagine di Dio». Per questo «la gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un “mercato” divinizzato». La perdita di posti di lavoro equivale infatti a «un grave danno sociale», ha ribadito il Papa confidando: «Io mi rattristo quando vedo che c’è gente senza lavoro, che non trova lavoro e non ha la dignità di portare il pane a casa. E mi rallegro tanto quando vedo che i governanti fanno tanti sforzi per trovare posti di lavoro e per cercare che tutti abbiano un lavoro». Da qui l’invito a «pregare perché non manchi il lavoro in una famiglia»

Dal Pontefice anche una denuncia della moderna organizzazione economica, che «mostra talvolta una pericolosa tendenza a considerare la famiglia un ingombro, un peso, una passività, per la produttività del lavoro». Su questo terreno «la famiglia è un grande banco di prova». E «quando l’organizzazione del lavoro la tiene in ostaggio, o addirittura ne ostacola il cammino — ha ammonito il Papa — allora siamo sicuri che la società umana ha incominciato a lavorare contro se stessa».

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