Archivi giornalieri: 16 agosto 2015

Come difendersi dalle truffe alla pompa di benzina. Un benzinaio ci spiega gli imbrogli dei colleghi disonesti

 

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13 agosto 2015

Io, benzinaio onesto, vi racconto le truffe sul carburante

Come difendersi dalle truffe alla pompa di benzina. Un benzinaio ci spiega gli imbrogli dei colleghi disonesti

 

Solo due iniziali e il coraggio di parlare. G.P. è un giovane gestore di una pompa di benzina. Problemi non ne vuole avere e, quindi, preferisce l’anonimato, ma decide di raccontarmi cosa c’è dietro le truffe sul carburante.

Truffe diffuse sul tutto il territorio nazionale, come conferma la Guardia di Finanza che nel suo piano di controllo estivo ha visitato 905 distributori stradali di carburante, contestato oltre 200 violazioni, sequestrato più di 354 mila litri di prodotti petroliferi e denunciato i responsabili.

“I metodi per truffare il cliente esistono e spesso vengono messi in pratica da chi è senza scrupoli o da gestori spinti dalla disperazione per la crisi del settore. Un abitudine che danneggia i clienti, ma anche chi lavora onestamente”

Quali metodi vengono usati per le truffe?

“Principalmente quattro.

  1. Viene manomesso il distributore che emette meno di ciò che risulta al cliente. Vi faccio un esempio. Se la pompa eroga il 3-4% in meno, ogni 100 litri di benzina, 3 litri potranno essere rivenduti illegalmente, ogni 100 mila litri rimarranno nel serbatoio circa 3 mila litri che oltretutto verranno venduti senza pagare le tasse. Ecco che un piccolo/medio distributore avrà intascato, solo dalla truffa, 4.500 euro in un mese. Ad essere coinvolto in questo imbroglio non è solo il gestore della pompa, ma anche il tecnico che fa la manutenzione e che manomette il contatore o fa finta di non accorgersi della manomissione.
  2. Il secondo metodo è spesso perpetrato dai dipendenti della pompa, a volte con la complicità del gestore. Viene usato nei momenti di punta, quelli in cui tante macchine sono in fila per fare rifornimento e i guidatori sono distratti. Succede che l’inserviente dopo aver fatto il pieno alla prima auto mette un fermo alla pistola erogatrice e la macchina non si azzera. Se la prima auto ha messo 10 euro e la seconda chiede 50 euro, il contatore partirà da 10 invece che da zero. E dieci euro saranno intascati dall’inserviente. Con questo sistema c’è chi riesce a rubare anche 200-300 euro al giorno.
  3. Altro sistema, ormai meno usato, la benzina allungata, un metodo che oggi viene praticato soprattutto da gestori disperati per pagare qualche debito, visto che le conseguenze negative arrivano a breve giro. Funziona così. In una cisterna che contiene 10 mila litri di carburante vengono aggiunti circa 500 litri di olio esausto. In passato molti benzinai disonesti lo facevano visto che le automobili bruciavano di tutto, oggi le macchine moderne dopo un chilometro si fermano se la benzina risulta sporca.
  4. L’ultimo sistema è il più remunerativo e coinvolge non solo il gestore ma anche chi fa manutenzione, chi trasporta il carburante e almeno un paio di persone che lavorano nella casa madre e rubano la materia manomettendo i registri. Si tratta della benzina a nero. Il carico viene venduto ad un terzo del costo (circa 50 centesimi a litro). Se considerate che una cisterna contiene 39 mila litri, il guadagno per il gestore della pompa è di 40 mila euro netti, visto che essendo a nero, non paga le tasse.

Insomma i metodi ci sono, ma gli onesti come me lavorano su strada, alle intemperie, a rischio rapina. Consideri che su mille litri venduti abbiamo un guadagna di 40 euro circa e che ogni mese dobbiamo anticipare 60-70 mila euro di spese. Insomma con una pompa di benzina cittadina medio piccola, tolte le spese per i dipendenti e la materia, si guadagnano circa 1.500 euro al mese, potrà capire che di soldi ne passano tanti, ma pochi se ne fermano.”

In effetti posso dirlo pensavo guadagnaste di più. G.P. sorride e prima di salutarmi si raccomanda: “Macché.. e poi capita pure qualche cliente disonesto che ti paga con i soldi falsi. Lo scriva che pure a noi ci fregano.”

News

l filo d’acciaio annunciato a giugno da Orban per respingere i migranti in arrivo dai Balcani è quasi pronto in tempi record.  Duecento chilometri costruiti dall’esercito e dai disoccupati

dal nostro inviato MATTEO PUCCIARELLI

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13 agosto 2015

 
 
 
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MÓRAHALOM . Ci vogliono 45 secondi esatti, cronometro alla mano. Il pilone di acciaio lungo sei metri entra con la forza due metri sottoterra; il macchinario che lo spinge giù  –  è un prodotto di alta tecnologia meccanica italiana, gli ingegneri ungheresi ne sono entusiasti  –  picchia come un martello a ritmi regolari, e fa lo stesso rumore di quando si chiude una bara. Sarà un caso, ma un po’ di Europa muore davvero qui, nella costruzione di questo muro alto quattro metri, rinforzato con il filo spinato, al confine tra Serbia e Ungheria. A mo’ di protezione contro l’invasione di un potente esercito straniero: migliaia di migranti pachistani, afghani e siriani esausti che attraversano i Balcani spesso a piedi.Dopo l’annuncio del giugno scorso, il governo di Budapest guidato dal populista di destra Viktor Orbán ha messo il turbo alla costruzione del muro lungo 175 chilometri. Che infatti verrà ultimato il 31 agosto, dopo appena un mese e mezzo di lavori. Per fare subito, la progettazione e la messa in opera è stata affidata all’esercito, e insieme ai militari ci sono migliaia di disoccupati che in cambio di un reddito minimo sono tenuti a rispondere alla chiamata dello Stato.Per arrivare al cantiere di Mórahalom, paese di cinquemila abitanti al confine dell’Ungheria meridionale, bisogna passare in mezzo ai campi di granturco e fare qualche chilometro di strada sterrata. C’è un accampamento di soldati e polizia, con gli operai che vanno e vengono portati coi camioncini in mimetica. Nei giorni scorsi i tecnici avevano fatto tre prove di muro: piloni di legno, veri e propri tronchi d’albero, con recinzione metallica; piloni e reticolato in acciaio; oppure un groviglio di di filo spinato, un rotolone sopra l’altro. “Alla fine  –  racconta Vedess, poliziotto, nome e numero identificativo sull’uniforme  –  si è scelta una via di mezzo tra le ultime due ipotesi. Piloni in acciaio, recinzione e un’aggiunta di filo spinato a terra. Così neanche se arrivano con la fiamma ossidrica ce la fanno…”.

Dal 1° settembre lungo tutto il muro ci saranno i soldati a presidiare. Armati. Avranno anche la licenza di sparare? “Questo ancora non lo sappiamo, aspettiamo disposizioni”, risponde. A poche centinaia di metri c’è la tenuta di Flórián, mais a perdita d’occhio. Indica un viottolo in mezzo alle piante, c’è qualche pannocchia mangiucchiata, bottigliette di plastica vuote, una ciabatta abbandonata: “Passano tutti di qui, ci sono volte che ne trovo qualcuno in fin di vita, agonizzante, quando arrivo al mattino. Ormai ho un rapporto regolare con ambulanze e polizia”. Molti altri, dice ancora, “sanno già tutto, sono muniti di tablet e hanno dei contatti: chiamano subito le autorità, vengono soccorsi e identificati, poi tentano di proseguire verso Germania, Austria e Svezia”. La spiegazione del perché, dopo lo sdegno iniziale, mezza Europa assista in silenzio all’innalzamento del muro, sarebbe proprio questa, ragionano qui: sanno tutti che a queste migliaia di disperati  –  43mila nel 2014  –  di restare in Ungheria interessa meno di niente. Le mete predilette sono altre. Orbán fa il cattivo e chiude le frontiere con la forza, ma a conti fatti conviene a molti, commenta un funzionario di polizia.

L’esibizione muscolare del governo sul tema immigrazione nei giorni scorsi ha fatto scoppiare un altro scandalo ancora, ma stavolta c’è stato un (parziale) dietrofront. Da Pécs, città di 160mila abitanti con antichissimo borgo medievale, ogni 24 ore partono due Intercity diretti a Budapest. Prima classe, seconda classe e “classe migranti”. L’ultimo vagone infatti è riservato ai rifugiati diretti a un centro di accoglienza e il primo giorno la compagnia di stato Magyar Államvasutak li aveva fatti viaggiare coi lucchetti alle porte ed un cartello: “Queste porte non possono essere aperte”. Le associazioni umanitarie hanno protestato, i lucchetti sono stati tolti, ma resta la collocazione in fondo al convoglio, con i migranti spesso ammassati e che la notte prima del viaggio dormono per terra tra i sedili.

Alla stazione di Pécs c’è un monumento che ricorda lo sterminio degli ebrei. “Li ha uccisi l’odio, li protegge il ricordo”, recita la stele. Garzó Gábor è un medico di Migration Aid, c’è un mini campo di soccorso proprio accanto alla statua dove lui presta aiuto: “È una specie di deportazione  –  dice  –  perché vieni ficcato su un treno, separato dagli altri, e non sai nemmeno dove sei diretto”. I volontari mostrano le foto del piede di un bambino di quattro anni arrivato il giorno prima: non sembra neanche più un piede. Colpa delle punture degli insetti delle paludi serbe, spiega un altro dottore: “Lo abbiamo salvato, e facciamo tutto da soli. La sanità pubblica non li accetta”. In compenso, si fa per dire, più volte li hanno minacciati gli estremisti di destra dello Jobbik. “La loro proposta è semplice: la chiamano perfino “soluzione finale”, proprio così. Di provocazione in provocazione, ci arriveremo”, chiosa Gábor.

Il viaggio verso Budapest dura tre ore, con prima partenza alle 05.14. Alle 23 del giorno prima i ferrovieri avevano aperto l’ultimo vagone, così gli esuli hanno trovato un posto dove prendere sonno. La maggior parte non sono neanche maggiorenni. Il

treno si muove e loro dormono ancora. Gli altri passeggeri neanche li considerano. I migranti si svegliano un’oretta prima dell’arrivo nella capitale. Uno di loro apre il finestrino, canta una canzone del suo paese e sembra quasi felice, nonostante i mille nonostante di tutta questa storia.

© Riproduzione riservata13 agosto 2015

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