e il futuro in gioco
Obiettivi molto diversi da quelli dei vertici della Fratellanza, che in questi giorni rivendicano in piazza il ruolo di «paese islamico» per l’Egitto. In questi mesi nulla è cambiato nel mondo del lavoro, non è stata lanciata una vera campagna contro la corruzione lasciata in eredità dal vecchio regime. Morsi ha pensato più di tutto a guadagnarsi la fiducia dell’Amministrazione Obama che lo ha ricompensato il mese scorso nominandolo «garante» del cessate il fuoco tra Israele e Hamas e della stabilità regionale. Ottenuto il favore degli Usa, Morsi e i Fratelli musulmani hanno deciso di procedere, anche attraverso la nuova Costituzione, all’islamizzazione della società. La crisi, sempre più lacerante, è destinata ad aggravarsi. Il presidente egiziano forse rinuncerà ai poteri eccezionali che si è attribuito, lui stesso li ha definiti transitori. Ma non accetterà la richiesta formulata dal Fronte di Salvezza dell’opposizione, per la formazione di una nuova assemblea costituente che «rifletta tutte le categorie» della società egiziana. Il segnale di questa rigidità è stato dato indirettamente dalle dimissioni presentate ieri da uno dei consiglieri del presidente, Seif Abdel Fatah, e di uno stretto collaboratore del presidente, Ayman el Sayad, che ha scritto di «non vedere soluzioni di uscita dalla crisi».
Morsi punta a vincere il referendum del 15 dicembre per affermare che la maggioranza del paese è con lui e non con l’opposizione che da giorni lo contesta. È molto probabile che ciò accada conoscendo la capacità degli islamisti di guadagnare il consenso popolare con proclami in difesa della fede minacciata. Non tutti i conti però torneranno. Tanti egiziani, ribellandosi contro Mubarak, hanno capito di essere padroni del loro destino e non rimarranno a guardare.