Archivi giornalieri: 27 settembre 2021

Reddito di cittadinanza, beneficio addizionale per l’autoimprenditorialità: chiarimenti INPS

Reddito di cittadinanza, beneficio addizionale per l’autoimprenditorialità: chiarimenti INPS

Beneficio addizionale del Reddito di cittadinanza per l’autoimprenditorialità: cos’è, presentazione della domanda e requisiti d’accesso

L’INPS ha recentemente rilasciato il messaggio numero 3212 del 24 settembre 2021, con il quale fornisce i chiarimenti in merito alla presentazione della domanda ed ai requisiti necessari per accedere al beneficio addizionale del Reddito di cittadinanza per l’autoimprenditorialità. Il presente incentivo all’autoimprenditorialità (o autoimpiego) è previsto dall’articolo 8, comma 4, del decreto-legge 29 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26.

Il beneficio addizionale del Reddito di cittadinanza per l’autoimprenditorialità è un contributo fino a 4.680 euro per chi avvia un’attività di lavoro autonomo, mentre percepisce il RdC.

Si resta in attesa quindi della circolare esplicativa da parte dell’INPS, tuttavia al momento, come spiega l’INPS, è già possibile presentare domanda di beneficio addizionale, previa compilazione del nuovo schema di modello telematico “RdC-Com Esteso”.

Ecco i dettagli.

Beneficio addizionale del Reddito di cittadinanza per l’autoimprenditorialità: requisiti

Secondo quanto previsto dalla normativa in oggetto possono proporre domanda e accedere al beneficio i soggetti che si trovino congiuntamente nelle seguenti condizioni:

  1. risultino, al momento della presentazione della domanda di beneficio addizionale, componenti di un nucleo familiare beneficiario di una prestazione di Rdc in corso di erogazione;
  2. abbiano avviato, entro i primi dodici mesi di fruizione del Rdc, un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o abbiano sottoscritto una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio;
  3. non abbiano cessato, nei dodici mesi precedenti la richiesta del beneficio addizionale, un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale, o non abbiano sottoscritto, nello stesso periodo, una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio, ad eccezione della quota per la quale si chiede il beneficio addizionale;
  4. non siano componenti di nuclei familiari beneficiari di Rdc che abbiano già usufruito del beneficio addizionale di cui al citato decreto.

Beneficio addizionale RdC autoimpiego: cos’è

Il beneficio addizionale RdC autoimpiego è una sorta di incentivo all’autoimpiego (o autoimprenditorialità). E’ rivolto ai beneficiari del Reddito di Cittadinanza che avviano un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o una società cooperativa entro i primi 12 mesi di fruizione del beneficio.

Ad essi sarà riconosciuto, in un’unica soluzione, un beneficio addizionale pari a sei mensilità di Reddito di cittadinanza, nei limiti di 780 euro mensili per un importo massimo quindi pari a 4680 euro.

Beneficio addizionale RdC autoimprenditorialità: come fare domanda

Come detto in premessa l’INPS, oltre a ricapitolare i requisiti di accesso al beneficio addizionale, si sofferma poi sulla presentazione della domanda.

La domanda (modello telematico “RdC-Com Esteso”) potrà essere presentata esclusivamente tramite uno dei consueti canali telematici:

  1. personalmente a cura del beneficiario sul sito internet dell’Inps (www.inps.it):
    • tramite PIN INPS (ma solo fino al 30 settembre: il PIN non è più valido dal 1° ottobre 2021),
    • SPID,
    • Carta Nazionale dei Servizi
    • e Carta di Identità Elettronica;
  2. gli Istituti di patronato;
  3. i CAF (Centri di assistenza fiscale).

Modello telematico “RdC-Com Esteso”

Di seguito il modello SR181 Mod. RdC com ESTESO in formato PDF con le modalità di compilazione. Il modello andrà sempre compilato online.

Reddito di cittadinanza, Corte dei conti: 352 mila percettori hanno trovato impiego. “Anpal inadeguata”

Reddito di cittadinanza, Corte dei conti: 352 mila percettori hanno trovato impiego. “Anpal inadeguata”

di Andrea Galliano
4 ore fa
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ROMA  – Tra coloro che ricevono il Reddito di cittadinanza un beneficiario su 10 ha trovato un’occupazione. Tra gli attivabili uno ogni quattro. Ad ottobre 2020, il numero complessivo dei percettori soggetti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro (i cosiddetti Work Ready o attivabili), comprensivo di alcune categorie (esclusi o esonerati, presi in carico e inseriti in una politica, rinviati a percorsi di inclusione sociali), era pari a 1.369.779. Invece coloro che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro successivo alla domanda di Reddito di cittadinanza era di 352.068, di cui 192.851 ancora attivo. È quanto emerge da un’analisi della Corte dei conti sul “Funzionamento dei centri per l’impiego nell’ottica dello sviluppo del mercato del lavoro”, condotta dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato.

© Fornito da La Repubblica

Reddito di cittadinanza, ecco come funziona all’estero

Dominano i contratti a tempo determinato

Il 65% di chi ha trovato un’occupazione ha firmato un contratto a tempo determinato, il 15,4% un indeterminato e il 4,1 % un apprendistato. Il 69,8% di quelli determinati ha una durata inferiore ai 6 mesi, mentre una quota del 9,3 % ha superato il termine annuale. I contratti di lavoro, nel complesso, hanno riguardato soprattutto professioni (non qualificate) nel commercio e nei servizi, seguiti da quelli nelle attività ricettive e della ristorazione: In minima parte hanno interessato il settore metalmeccanico-artigiano.

Reddito di cittadinanza, ad agosto va a 1,4 milioni di famiglie. Quasi la metà composte di una persona sola

Il ruolo dei navigator

Le iniziative dei navigator nei confronti delle imprese, per la rilevazione dei fabbisogni produttivi, hanno comportato la realizzazione di 588.521 interventi. Sono state individuate 29.610 opportunità occupazionali corrispondenti a 56.846 posizioni professionali di cui il 68 per cento deriva da fabbisogni per un aumento del carico di lavoro, mentre il 22 per cento per turnover. Dai valori rilevati, che descrivono i livelli di istruzione e l’indice di profiling, è risultata evidente la quasi totale assenza di condizioni di occupabilità soprattutto nelle regioni meridionali.

L’inadeguatezza dell’Anpal

I magistrati hanno rilevato una inadeguata azione dell’Anpal nell’attività di monitoraggio, i cui rapporti annuali risalgono al 2017. L’Agenzia ha avviato un processo di trasformazione digitale per l’evoluzione dei sistemi informativi così da consentire, tra l’altro, l’interscambio di flussi documentali e l’integrazione tra i diversi sistemi in uso, anche in vista dello sviluppo della Piattaforma digitale per la gestione dei beneficiari di Reddito di Cittadinanza. In attesa di ciò, però, la messa a punto del Sistema unico avviene con notevoli difficoltà anche per una non adeguata dotazione informatica a livello territoriale e un collegamento in rete non adatto alle nuove funzioni dei Centri.

I Centri per l’impiego

La Corte dei conti osserva che l’emergenza sanitaria nazionale da Covid-19 non ha condizionato i Centri per l’impiego che hanno, comunque, garantito il regolare svolgimento delle attività istituzionali da remoto. Però, sottolineano i magistrati, “nel nostro Paese esistono eterogenei assetti organizzativi, con approcci, metodologie e sistemi informativi diversificati e sovente non dialoganti tra di loro”. Per la Corte è, invece, “essenziale una definizione chiara di misure, interventi e regole che, pur consentendo il dovuto margine di flessibilità richiesto dalle specificità territoriali, analizzate nella relazione secondo i diversi profili di utenza, sia coordinata dal livello centrale, al fine di assicurare sia una maggiore rispondenza dell’operatività dei Centri per l’impiego alle esigenze regionali, che fornire servizi omogenei su tutto il territorio nazionale”.Da ultimo il Pnrr ha previsto nella Missione 5 “Inclusione e coesione” diversi programmi per la partecipazione al mercato del lavoro, per la formazione e il rafforzamento delle politiche attive e dei Centri per l’impiego.

il manifesto

Fondazione “Otto Brenner”. Lo studio certifica le «forti distorsioni» giornalistiche e sociali sul fenomeno. Media interessati solo in caso di morte. E se c’è lo straniero. Sensazionalismi, omissioni, vittime ritraumatizzate… Tutto il contrario del giornalismo

L’ex ministra tedesca della Famiglia, Franziska Giffey, lancia una campagna contro la violenza domestica sulle donne nei supermercati

L’ex ministra tedesca della Famiglia, Franziska Giffey, lancia una campagna contro la violenza domestica sulle donne nei supermercati

Sono sempre tutti casi singoli, non è mai un problema culturale o politico, e fa davvero notizia solo se la vittima muore o c’è di mezzo lo straniero.

Lo studio su «Come i media raccontano la violenza sulle donne» appena pubblicato dalla Fondazione “Otto Brenner” (l’istituto scientifico del sindacato tedesco Ig Metall) riassume il contenuto di ben 3.500 articoli sul tema declinato in titoli che spaziano dal #Me Too al femminicidio. Risultato dell’analisi: l’informazione mainstream negli ultimi quattro anni ha offerto «forti distorsioni nella rappresentazione fattuale del fenomeno». Cioè l’esatto contrario del giornalismo.

IN OTTANTA PAGINE la ricercatrice Christine Meltzer certifica come la cronaca si sia prevalentemente concentrata sui casi sensazionali invece di accendere i riflettori sui più numerosi: «Più della metà degli articoli riguarda donne che sono state uccise, nonostante questo evento estremo rappresenti meno dell’1% degli atti di violenza. Al contrario la prima causa del fenomeno, le lesioni corporali, viene menzionata solo nel 18% degli articoli».

Non propriamente utile a far comprendere le reali dimensioni della realtà che solo un anno e mezzo fa l’ex ministra della Famiglia, Franziska Giffey (Spd) non esitò a definire «scioccante» dopo avere letto il rapporto annuale sulle quasi 115 mila vittime di violenza domestica in Germania.

Eppure «il fenomeno sui media non viene quasi mai presentato nell’ambito delle relazioni familiari sebbene partner ed ex partner siano responsabili di quasi il 40% dei casi denunciati. Degli articoli analizzati se ne occupa solo uno su quattro. Quasi il 70% delle notizie non evidenzia i modelli strutturali sullo sfondo delle violenze. La forma di segnalazione scelta dai cronisti è quasi sempre il caso individuale e non la questione politica o culturale. L’attenzione degli articoli è rivolta quasi esclusivamente agli accusati, mentre alle vittime viene concesso davvero poco spazio».

IN COMPENSO, GLI ORGANI d’informazione risultano molto interessati agli stranieri coinvolti nei casi di violenza sulle donne, anche troppo.

«C’è una menzione sproporzionata dell’origine degli accusati non tedeschi rispetto alle statistiche diffuse dalla polizia. Il modo in cui vengono classificati i sospetti di origine non tedesca può essere intesa come un processo di divisione fra “noi” e “loro”» sottolinea in particolare lo studio di Christine Meltzer.

Al contrario, il ricorso a formule come «dramma o tragedia che suggeriscono come gli autori siano anch’essi vittime dell’evento» negli ultimi quattro anni è stato limitato al 3% degli articoli. Merito, soprattutto, della forte critica nel dibattito pubblico, per cui già nel 2019 l’agenzia di stampa Dpa è stata costretta a dichiarare che non avrebbe più utilizzato questi termini.

LA RICERCA CERTIFICA, INOLTRE, i danni psicologici provocati da articoli che «ritraumatizzano» le vittime. «Banalizzare le dichiarazioni, concentrarsi sui sospetti e attribuire la responsabilità anche alla donna sono fattori rilevanti per la cosiddetta vittimizzazione secondaria. Nel resoconto giornalistico i dettagli giocano un ruolo fondamentale: informazioni personali come nome, età e professione avvicinano il pubblico a chi ha subito l’atto violento, specialmente tra le donne, mentre la loro assenza aumenta il victim-blaming, ossia l’idea che la vittima sia in qualche modo colpevole di ciò che è accaduto».

A tal proposito la ricerca si sofferma in particolare sulla nazionalità «menzionata in un quarto dei casi e prevalentemente riferita a iracheni, siriani o turchi. L’aggettivo «tedesco» invece compare solamente in un articolo ogni cento. La religione riportata più frequentemente rimane l’islam».

DIFFICILE, INFINE, che la violenza contro le donne oltrepassi la cronaca locale: sebbene i quotidiani pubblichino in media 20 articoli al mese sul tema, i media nazionali si concentrano sempre sui medesimi casi già noti al pubblico: «I 30 eventi più importanti rappresentano un quinto della copertura totale. In pratica la rappresentazione mediatica della violenza sulle donne è caratterizzata in misura rilevante dalla tematizzazione ripetuta degli stessi fatti».

il manifesto

ITALIA

«Questo è il tempo delle donne, fate largo alla rivoluzione»

La piazza che cura. Movimenti, associazioni, individue: in tantissime ieri a Roma per un cambiamento radicale e femminista. In Italia e nel mondo. Il canto delle lavoratrici della Gkn, il racconto della vita in una Rsa e quello di chi è fuggita da Kabul

Le donne afghane ieri sul palco della manifestazione Tull Quadze
Le donne afghane ieri sul palco della manifestazione Tull Quadze

I primi cappelli di paglia compaiono già in metropolitana. Sopra c’è scritto «Belle ciao». All’ingresso di Piazza del Popolo, in un caldissimo sabato romano, le donne della Cgil ne distribuiscono altri per proteggersi dal sole, mentre controllano i green pass.

POCHI MINUTI DOPO le 14 la piazza inizia a riempirsi. Dal palco Veronica Pivetti accoglie le tante donne e le tante realtà Fridays for Future, Lucha y Siesta, Blm, Le Contemporanee) arrivate per una giornata di affermazione di una volontà: serve fare la rivoluzione.

La manifestazione, organizzata dall’Assemblea della Magnolia, realtà nata un anno fa sotto il grande albero della Casa internazionale delle donne di Roma, chiede proprio questo: una rivoluzione della cura e di un sistema paternalista e patriarcale che ha condotto, in quasi due anni di pandemia, sull’orlo del baratro. Qui, come altrove.

Accanto alle centinaia di realtà italiane che hanno aderito, ci sono organizzazioni impegnate da anni in Afghanistan, che sul palco romano portano le voci e i corpi delle afghane costrette a fuggire dal rinnovato regime talebano.

UN FILO ROSSO e internazionalista, tessuto dalla consapevolezza che non ci si salva da sole: «Se retrocediamo oggi sui diritti delle donne afghane al lavoro, l’educazione, alla partecipazione politica – dice Simona Lanzoni di Pangea – perdiamo tutte».

«Pensiamo di essere noi a dover dire alle afghane come resistere? – alza la voce Luisa Rizzitelli, di One Billion Rising, che ieri ha riempito piazze in tutto il mondo in solidarietà con l’Afghanistan – Sono loro che ci stanno dicendo che, se non sentiamo come nostra la prevaricazione che subiscono, allora siamo complici e destinate ad arretrare sui nostri diritti. L’equità di rappresentanza non è un’elemosina che ci fate, è tempo di un governo delle donne».

DALLA VITA PUBBLICA le afghane sono state interdette, ricorda Simona Cataldi di Cisda, ma non dalla società: «Stanno occupando le piazze, movimento spontanei che cresceranno».

Una sorellanza di fatto che rimbomba nelle parole delle ragazze che salgono sul palco, senza nome per garantirne la sicurezza: «Diciamo ai talebani che non possono rimuoverci dalla storia. Vi combattiamo con le nostre parole, la nostra mente, con manifestazioni dentro e fuori l’Afghanistan. Diciamo alle nostre sorella di non fermarsi: siete la luce in un cielo buio».

TANTE LUCI quante sono le violenze perpetrate, «le morti nel Mediterraneo, le torture in Libia, le guerre, il patriarcato in Italia dove i femminicidi sono una mattanza».

Così Maura Cossutta, presidente della Casa internazionale delle Donne di Roma, che strappa subito un applauso liberatorio quando festeggia l’ultima delle vittorie, il comodato d’uso della sede di via della Lungara, «luogo simbolico per la storia del femminismo, ma anche luogo politico di pratiche femministe»: «Le donne hanno pagato il prezzo più alto della crisi. Il Pnrr non ha una visione sulla necessità di un cambiamento. Serve un posizionamento radicale e femminista, una rivoluzione della cura per un cambiamento totale dei meccanismi economico-sociali e dei rapporti tra uomini e donne».

Questo il cuore di una mobilitazione che parte da lontano e prosegue sulla propria strada, la presa di coscienza collettiva della cura come diritto sociale, responsabilità pubblica e non mero destino millenario delle donne, scontato quanto immeritevole del riconoscimento del suo ruolo sociale.

LO DICONO I NUMERI e lo dicono le storie e le esperienze delle donne che si susseguono sul palco di Piazza del Popolo: «Numeri della vergogna – li chiama Linda Laura Sabbadini, direttrice dell’Istat – Meno della metà delle donne lavora, una su cinque lascia l’impiego dopo la nascita di un figlio. Investiamo nell’assistenza un quarto di quello che fa la Germania e solo il 12% dei bambini trova posto negli asili pubblici. Questa politica ha fallito, non ha l’uguaglianza di genere tra le sue priorità. O fate un balzo o ci troverete ancora qua. Siamo pronte a governare, fateci largo».

I numeri li dà anche Arianna De Chiara del Forum Salute. Quarantunenne, fisioterapista in una Rsa, racconta delle 249mila donne che nel suo settore hanno perso il lavoro, di come il 70% dei contagiati siano state le operatrici: «Vogliamo riappropriarci della parola servizio perché oggi il privato dice di fare meglio del pubblico ma lo fa con le risorse pubbliche. Vogliamo la fine delle mega Asl e del ruolo patriarcale dei direttori generali. E vogliamo riappropriarci della parola nazionale, con un servizio sanitario unico e non 20 sistemi regionali che generano solo diseguaglianza».

UN’ASSENZA DI WELFARE eguale e funzionante che pesa sul corpo delle donne, sul loro lavoro e sulla partecipazione politica come nella vita privata. Che pesa su un Pnrr da cui la voce delle donne è stata resa marginale, che non immagina infrastrutture sociali, che non mette in discussione il lavoro precario: «Il Covid è stato uno straordinario fatto collettivo – dice Susanna Camusso, ora responsabile Cgil per le Relazioni internazionali – Esiste una necessità nel mondo di fare della cura un impegno collettivo e non solo delle donne. Non ci sono ruoli naturali. Cancellare il lavoro precario, assumere nella pubblica amministrazione, finirla con i bonus e dare servizi che funzionano».

E allora rivoluzione sia, che parta dalle scuole («Cura del mondo come educazione – dice l’insegnante Monica di Bernando di Indici paritari – come pratica condivisa verso l’autonomia, una scuola che abbandoni la centralità dell’uomo bianco eterosessuale e riveda i rapporti») per arrivare in fabbrica.

La voce delle lavoratrici della Gkn arriva con un audio, sono rimaste al presidio di Campi Bisenzio, non lo mollano. Arriva con la canzone che accompagna da mesi la loro protesta e arriva con un messaggio internazionalista e femminista: «L’azienda deve poter ripartire, non essere spostata dove il costo del lavoro è più basso e dove ci sono donne pagate ancora di meno. Quando chiude una fabbrica, non è lo stesso per una donna. Vogliamo parità salariale e parità di formazione. Insorgiamo».

RIVOLUZIONE, ma anche gioia, quella degli stornelli e le parodie cantate e suonate da Sara Modigliani e Sonia Maurer e che fanno ballare la piazza. È la gioia di essere: «So’ nata donna e me ne vanto».

San Vincenzo de’ Paoli

 

San Vincenzo de’ Paoli


San Vincenzo de' Paoli

autore Pietro Gagliardi anno XIX sec. titolo S. Vincenzo de Paoli presta assistenza agli orfanelli
Nome: San Vincenzo de’ Paoli
Titolo: Sacerdote e fondatore
Nascita: 24 aprile 1581, Puy, Francia
Morte: 27 settembre 1660, Parigi, Francia
Ricorrenza: 27 settembre
Tipologia: Memoria liturgica

È chiamato il Tommaso d’Aquino della carità; come S. Tommaso diede al mondo cristiano il capolavoro della teologia con la sua Somma, così S. Vincenzo de’ Paoli con le sue istituzioni diede agli uomini il capolavoro della carità. Seppe raccogliere nell’anima sua tutto ciò che la generosità cattolica, nel volgere delle età aveva trovato per sollevare il dolore e la povertà.

Nacque a Puy nella diocesi di Dax, il 24 aprile del 1581.

Piccolo e povero, aveva spartito il pane della sua colazione coi compagni di scuola. Possedendo una volta trenta soldi li aveva regalati ai poveri. Portando del grano al mulino ed incontrandosi con un mendico, gliene aveva dato la metà.

A dodici anni studiò a Dax, a 16 faceva ripetizione al figlio di un avvocato, perchè il padre povero non poteva fargli continuare gli studi. A venti anni riceveva gli ordini minori, ed a 24 il Sacerdozio.

I primi anni di ministero furono terribili per il giovane prete, ardente di carità, ma necessariamente senza esperienza: consumò non solo tutto il suo, ma contrasse debiti notevoli per cui si trovò in serie difficoltà: difficoltà che risolse con sapienza e con l’aiuto di anime buone.

Consigliato da Pietro De Berulle, accettò la parrocchia di Clichy, dove fece tanto bene; s’incaricò dell’educazione dei figli di casa Gondy che furono mecenati generosi per le sue molteplici opere di carità; e diede la celebre missione di Colleville che fu la prima di una lunga serie, ottenendo mirabili conversioni. Nominato regio cappellano di tutte le galere di Francia, fu il padre dei galeotti e pose ogni cura per sollevarli dalle loro miserie. Ottenne che fossero trattati meno duramente, fondò ospedali per gli ammalati, e la sua comparsa nelle galere era una festa per quei poveri disgraziati.

Un giorno le guardie lo trovarono in una cella, legato alla catena in veste da galeotto. Aveva messo in libertà un miserabile e l’aveva sostituito.

Confessore d’Anna d’Austria, distribuì due milioni in elemosine. Aprì orfanotrofi, ricoveri per i vecchi, ritiri per i dementi.

Per tutte queste opere occorreva il personale adatto ed a questo scopo istituì le Figlie della Carità posto sotto la responsabilità di Luisa di Marillac insieme a Marguerite Naseau.

Né qui si fermò la sua ardente carità. Egli attese anche al clero: istituì delle conferenze ecclesiastiche che ancor oggi continuano tra il clero di Francia, fondò seminari e spesso diede esercizi ai chierici ordinandi. Infine riunì in congregazione i sacerdoti che lo aiutavano nelle sue opere e li chiamò Preti della Missione.

Morì all’età di 84 anni, affranto dalle fatiche, il 27 settembre del 1660.

La Francia atea gli innalzò un monumento. Leone XIII lo dichiarò patrono universale delle Congregazioni di carità.

PRATICA. Rendiamo anche noi la nostra carità « paziente, benefica, sempre pronta a scusare e a sopportare ».

PREGHIERA. O Dio, che per evangelizzare i poveri e per promuovere il decoro dell’ordine ecclesiastico arricchisti il beato Vincenzo di virtù apostoliche, deh! concedi, che come ne veneriamo la pietà ed i meriti, così ne imitiamo gli esempi.

MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di san Vincenzo de’ Paoli, sacerdote, che, pieno di spirito sacerdotale, a Parigi si dedicò alla cura dei poveri, riconoscendo nel volto di ogni sofferente quello del suo Signore e fondò la Congregazione della Missione, nonché, con la collaborazione di santa Luisa de Marillac, la Congregazione delle Figlie della Carità, per provvedere al ripristino dello stile di vita proprio della Chiesa delle origini, per formare santamente il clero e per assistere i poveri.