Archivi giornalieri: 15 luglio 2009

La voce della Lega

La  voce della Lega

 

Grillo? Ve lo invidio

 

Grillo dice: «Mi candido» e tutti allora a

urlacchiare: «No tu no! Lui non può!

Non ha i numeri!Ha parlato male di noi!

Lo fa solo per farsi pubblicità…». Io penso

che questi capi manipolo dei rossi

hanno capito che corrono il rischio di

essere messi da parte.«Grillo è un comico,

fariderela gente…»ma andiamo!Cari

membri del politburo nostrano, anche

voi avete fatto ridere. Grillo avrebbe

bisogno d i accrescere la sua popolarità?

Ne ha fin troppa. Ha parlato male

divoi?Meno male,avreste dovuto farlo

voi, senza aiuti esterni, suggerendo

finalmente un cambiamento

di rotta alla

vostra politica stantìa basata solo sull’

anti- berlusconismo. Meno male che

non lo vogliono, è

una voce nuova e autorevole

e potrebbe

portargli molti consensi.

 

Rag. Fantozzi

Mobbing

mobbing.jpgPrevenzione e rischi

Come difendersi dal mobbing: guida pratica per tutelarsi e avere sostegno

13 luglio 2009. Realizzato dall’agenzia Umbria ricerche per conto della Regione, lo strumento offre informazioni e notizie utili per riconoscere il fenomeno e denunciarlo. Secondo una ricerca condotta due anni fa dalla Cgil Umbria un lavoratore su tre ne è vittima, in particolare le donne tra 30 e 40 anni

PERUGIA – Mobbing: come riconoscerlo e quali sono gli strumenti a disposizione del lavoratore per tutelarsi. Informazioni tanto semplici quanto necessarie, contenute nell’opuscolo informativo che l’agenzia Umbria ricerche ha realizzato su incarico della Regione e presentato a Perugia nei giorni scorsi. La guida, curata dal ricercatore Giuliano Bussotti, oltre a illustrare il fenomeno del mobbing e la sua evoluzione negli ultimi anni, offre informazioni sulla tutela giuridica, consigli e numeri utili di strutture istituzionali e sanitarie di riferimento alle quali il lavoratore “mobbizzato” può rivolgersi per avere sostegno.

Secondo una ricerca condotta due anni fa dalla Cgil Umbria, un lavoratore su tre subisce mobbing in varie forme, più o meno pesanti. Le vittime sono soprattutto donne, nella fascia di età compresa tra i 30 e i 40 anni.  Un dato accomuna le lavoratrici e i lavoratori “mobbizzati”: la difficoltà a chiedere subito aiuto e a rivolgersi alle istituzioni o al sindacato; in molti casi si preferisce, infatti,  parlarne solo con i familiari o  con gli amici. “Tra pochi mesi sarà pronta una ricerca esaustiva sul fenomeno del mobbing  in Umbria”, anticipa Giuliano Bussotti. “La base da cui siamo partiti è proprio l’ultima indagine realizzata dalla Cgil Umbria. Il primo dato che si può segnalare è che sono circa il 10% i lavoratori che rientrano nei parametri di definizione del mobbing, relativamente alla sistematicità e alla frequenza degli atti persecutori. Un elemento di preoccupante continuità è dato dalla prevalenza delle donne, nella maggior parte dei casi giovani, nel pieno della vita lavorativa e, spesso, con una famiglia”.

L’Umbria, accanto al Friuli Venezia Giulia e all’Abruzzo, ha emanato nel 2005 una legge regionale, (18/2005, ndr) in cui vengono delineati compiti, responsabilità e percorsi mirati a prevenire il fenomeno, monitorare la sua evoluzione grazie all’Osservatorio regionale dei casi di mobbing e fronteggiare le conseguenze psicologiche e fisiche sui lavoratori. “Nonostante il vuoto normativo a livello europeo, l’Umbria si è mossa prima e più in fretta delle altre regioni italiane”, continua Bussotti, “e sicuramente una delle novità contenute nella legge è proprio l’istituzione dell’Osservatorio che, oltre ai compiti di ricerca, deve fornire direttive precise alle strutture sanitarie pubbliche, chiamate a dare assistenza medico-legale e psicologica alle vittime del mobbing, annoverato dall’INAIL tra le  malattie professionali”.

“Ma occorre fare di più, la legge da sola non basta”, sottolinea il ricercatore. “E’ necessario inserire la politica di monitoraggio e di vigilanza nelle “pieghe” dei contratti collettivi nazionali di lavoro, delineando così  una buona prassi di gestione del rischio mobbing, sia nel pubblico che nel privato”.  Una prassi che dovrebbe far parte integrante, in particolare, degli accordi integrativi aziendali di secondo livello e dei codici di condotta, più vicini al territorio e alle realtà lavorative della regione. Come dire, ogni azienda deve ritenersi responsabile nella prevenzione delle varie forme di mobbing, così come ogni lavoratore deve informarsi adeguatamente per poter chiedere una tutela immediata, limitando il più possibile le conseguenze sulla sua salute psico-fisica.

“La diffusione dell’opuscolo informativo è stata comunque l’occasione per riunire attorno allo stesso tavolo tutti gli attori istituzionali coinvolti nel problema”, conclude Bussotti, “dalle Asl ai sindacati, dalle istituzioni regionali al mondo delle imprese. Una sinergia necessaria che potrebbe tornare utile subito, a partire dalla messa a regime di un nuovo sistema di valutazione dei rischi e delle criticità, adottabile da tutti e trasversale a ogni realtà lavorativa”.

(Red.soc/Umbria) 

 

Mobbing: Cassazione, ecco come ottenere il risarcimento del danno

La Corte di Cassazione ha stilato un vademecum su quelle che debbono essere le regole per ottenere il risarcimento del danno in caso di mobbing in ufficio. Secondo la Corte, per evitare cause inutili, occorre considerare in primo luogo che per “per ‘mobbing’ si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui puo’ conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalita’”. Fatta questa precisazione la Corte (sentenza 3785/2009) spiega che per avere maggiori possibilità di successo in una causa per mobbing occorre innanzitutto che vi sia una “molteplicita’ dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistamatico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio”.
In secondo luogo occorre sapere che per poter parlare di mobbing occorre che una determinata azione sia stata lesiva “della salute o della personalita’ del dipendente”. Ma non basta, la Suprema Corte sottolinea anche la necessità di acertare l’esistenza del “nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrita’ psico-fisica del lavoratore”. Da ultimo occorre avere la prova dell’elemento soggettivo ossia dell’intento persecutorio. E’ stato così respinto il ricorso di un postino che nel fare causa alle
poste per un infornunio aveva anche sostenuto di essere stato vittima di vari episodi di mobbing. La Cassazione pur avendo accertato che vi erano stati dei contrasti tra la dirigente d’ufficio e il lavoratore, tali contrasti di per sè “non sono tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell’ufficio”.

Corte di cassazione civile
sentenza 3785/09 del 17/02/2009


Per “mobbing” (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi:

la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

 il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

 la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

 

Cass. civ. Sez. lavoro, 17-02-2009, n. 3785

…omissis…

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 41 Cost. e art. 2087 c.c., nonchè vizi di motivazione, e sostiene: che l’obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee ad impedire infortuni non si esaurisce nella mera osservanza di norme di legge o contrattuali, ma si estende all’adozione di tutte quelle misure che siano idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori in base alla comune esperienza ed alle regole della tecnica; che sul lavoratore infortunato grava solo l’onere di provare il danno e la sua derivazione dall’ambiente di lavoro, mentre spetta al datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dal dipendente, si rendano necessarie per tutelarne l’integrità fisica;

che dunque ha errato il giudice di appello non ravvisando alcuna responsabilità delle Poste, malgrado queste non avessero assolto all’onere probatorio su di loro incombente.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2087, 2043 e 2049 c.c., violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè vizi di motivazione, e sostiene: che il giudice di appello non ha fatto buon governo delle prove testimoniali raccolte omettendo di prendere in esame quelle dalle quali emergeva il comportamento vessatorio della direttrice dell’Ufficio (testimonianze di L. D., R.G., I.L. e T.C.) e fondando invece il suo giudizio su testimonianze, o su passi di testimonianze, favorevoli alla società, peraltro senza motivare in alcun modo tale scelta.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che l’art. 2087 cod. civ., non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell’esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall’esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato (Cass. n. 6018/2000, n. 1579/2000). Quanto all’onere della prova, al lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa svolta incombe l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale fra questi due elementi; quando il lavoratore abbia provato tali circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. n. 16881/2006, n. 7328/2004, n. 12467/2003).

A questi principi si è correttamente attenuta la Corte di Appello laddove ha osservato che, mentre nessuna norma, legale o contrattuale, impone alle Poste di dotare i portalettere di scarpe antiscivolo, non è neppure ravvisabile la responsabilità della società per violazione di norme di comune prudenza, in quanto la presenza di ghiaccio sulla strada è una situazione legata a particolari condizioni climatiche e ambientali non facilmente prevedibili in anticipo, anche perchè il portalettere, dovendo spostarsi sul territorio, può incontrare condizioni, sia atmosferiche che ambientali, molto diverse e variabili nel corso della giornata lavorativa. La Corte Territoriale ha così dato congrua spiegazione della mancanza di colpa del datore di lavoro nella produzione dell’evento dannoso subito dal dipendente e tale accertamento di fatto, per essere congruamente e logicamente motivato, non è suscettibile di censura in sede di legittimità.

Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso. Per “mobbing” (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

La Corte di Appello ha ritenuto che le testimonianze raccolte, pur evidenziando l’esistenza di contrasti tra la dirigente dell’ufficio ed il G. in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro da parte del dipendente, non sono tuttavia tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell’ufficio postale di (OMISSIS) nei confronti del lavoratore.

Con la censure in esame il ricorrente assume che il giudice del gravame non abbia valutato correttamente le prove, trascurando le prove testimoniali o le parti delle prove testimoniali favorevoli alle tesi del G. e privilegiando invece quelle a questi contrarie. Una siffatta censura non tiene conto però della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui il vizio di omessa o insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte. Al riguardo è appena il caso di ricordare che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti e di dare la prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito (cfr. tra le tante Cass. n. 6064/2008, n. 17076/2007, n. 3994/2005, n. 11933/2003, n. 5231/2001).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Per contro, le censure mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

In definitiva, il ricorso deve essere respinto con conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 22,00 per esborsi ed in Euro duemila per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2009