Archivi giornalieri: 19 febbraio 2016

Contos – parte III

   

Contos – parte III

Pubblicato il 18 febbraio 2016 di

<< Sa domo! Sa domo mi nde ser ghettande! >> 

Le grida di mia madre rimbombavano nelle stanze buie della nostra casa di Sa Uddhitta. Era la terza volta che mio padre tornava a casa a notte fonda. Non saprei dire l’ora esatta, ma erano passate parecchie ore dall’ultimo rintocco della campana della chiesa di Sant’Andria. Non capivamo e non chiedevamo. In quei momenti la sola cosa che allontanava la paura erano le voci delle mie tre sorelle più piccole, che all’unisono piagnucolavano nel buio, dandomi un senso di irritazione misto a compassione:

<< Ih, Deus meus! Ite b’at sutzedende? Ih Oddeu ite b’ata? Ite b’ata? Mama est? E babbu torrau est? >>
<< A bos cherides tuppare sa vucca! Durmidebos e mudas! Puddas! >>

E allora si zittivano, tutt’e tre, nel buio pesto. Non potevo vederle ma sentivo i loro sguardi su di me, in attesa di una spiegazione. Spiegazione che io non avevo, e non avevo voluto cercare temendo c’entrassero qualcosa i fatti de Cumbentu di tre giorni prima, e quello strano disegno che qualcuno aveva fatto sul muro di casa nostra, cuss’ispezie e roda chin d’una gruche in intro. Quella notte, la terza, che babbo era tornato a casa tardi, volevo iniziare a capire. Strisciai fuori dal letto e aprii lentamente la porta della stanza. Un raggio di luna penetrò nel buio, destando le mie tre sorelle minori. Prima di uscire le fulminai con lo sguardo:

<< Non bos tremadas! >>

 Uscii in silenzio dalla stanza e mi appollaiai in cima alle scale che davano sulla corte interna di casa nostra. Babbu e mama erano giù in cucina: potevo intravedere da dietro mia madre,  con i capelli ancora raccolti in su cuccuru e la gonna a pieghe, nonostante l’ora tarda.

<< Achemi viere s’ischina! Ite d’ana atu? >>
<< Nuddha Marià, peri custa vorta mi nd’an postu sas barras in culu. >>
<< Ma a d’intendes comente ses chistionande? Ma ite di ses ammacchiande abberu tando? Ite cheres àchere? A sa familia tua non bi pessas? >>
<< Propiu ca soe pessande a sa familia mea soe cumbattende contra a custa zente! >>
<< Zente chie? De ite ses chistionande!? >>
<< Fascistas! Fascistas maleittos! >>
<< Ohiii su babbu e sa familia! >>

 Feci in tempo a nascondermi dietro il muro, appena prima che mia madre uscisse dalla cucina in lacrime. Fascismo e Anti-fascismo… queste erano le parole che mio padre si era portato dietro dal continente, assieme ad un sacco di guai. Non riuscivo a capire altro. Mi alzai di scatto col sedere ghiacciato ed entrai nella camera dove lo scricchiolio dei letti di ferro delle mie sorelle mi fece capire che ci erano appena saltate dentro. Non dissi niente. Mi infilai nel letto della più piccola e la strinsi forte.

<< Achemi locu Pippì… >>
<< Ohiaaa, dogadinde Marì! Juches sos pedes astragaos!!! >>

 Scoppiammo tutte e quattro a ridere.

<< Ja bos’apo vidu chi bo’ ‘nde sedes pesadas dae su lettu… malas! >>
<< No chi no er veru! Imus durminde! >>
<< Avulargias! Ite bos deppo ammentare chi s’urtima vorta chi m’ades disobidiu mi ‘nde so’ jocada tottu sar dentes?? >>
<< No itti neke nostra no! Ite nd’iscivamus chi su curridore ‘nde rughiata? >>
<< Ihhh mala chi ses Nannì! Eo bo’ ll’aviu nau de no issire a su corridore tottu paris cando v’ippo eo iffora! Como brinco a cue e ti pisto! >>
<< Si mi picas! >>

Gnek! Gnik! Gnek!

Il rumore dei letti in ferro scandiva i nostri salti da un letto all’altro mentre ci lanciavamo i cuscini.

<< Ven’annoche! >>
<< Si di pico d’iscudo male! >>
<< Eo d’iscudo! D’intrego un’intozu chi di ‘ndammentas! >>

Sbem! Sbam! Gnek! Gnik!

<< E tando! Bos paret’ora ‘e jocare custa?! >>

Mio padre sulla porta. In un batter di ciglia tutte e quattro eravamo di nuovo al buio, sotto le lenzuola. Mancu una musca s’intendiat volare. Con un occhio intravedevo il suo viso illuminato da un raggio di luna che trapassava il buio della stanza. Aveva unu bumburone sulla fronte e il labbro spaccato a sinistra che andava a scompigliargli i bei mustatzos nigheddos che teneva sempre curati. Si sedette a terra voltandosi verso sa corte, forse per nascondere le ferite. In quella posizione riuscivo ad ammirare il profilo del suo viso alla luce dell’enorme luna che spuntava da Monte Gonare in quella caldissima notte de lampadas. Quando su puddu de tzia Cadirina annunciò l’alba mio padre era ancora lì. Mi riaddormentai per un paio d’ore.

<< Marì! Marì! Ma abbasciande ses? Mi’ chi su latte si ‘nd’est iffrittande! >>

 

 

Contos – parte II

Pubblicato il 27 gennaio 2016 di

Dlen! Dlen! Dlen! Dlen! Dlen! …Dlin!

Sas chimbe e quartu.

La campana de Cumbentu mi ricordava che era ora de ghirare a domo prima che mia madre si accorgesse che ero uscita e che, per giunta, avevo assistito a quello che sarebbe diventato unu contu nei giorni a venire. Ripassai mentalmente quello che era successo e quello che avrei dovuto dire in caso mi avessero chiesto dove fossi stata. Non potevo certo raccontare di aver visto mio padre ammacchiarsi tutto ad un tratto e dare del canistergiu a quel ballalloi del deputato Siotto. Toccava innanzi tutto tornare dalle parti di Sa Udditta senza farmi vedere.

Scesi di corsa a Santa Gruche dove mi accolse l’odore acerbo proveniente dal frantoio, chiuso. Unu viacu avvolgente e ipnotico che mi portò all’oliveto di babbo, prima che partisse in guerra e iniziasse a parlare strano.

Dlen! Dlen! Dlen! Dlen! Dlen! …Dlin! Dlin!

Sas chimbe e mesa.

Stavolta era la campana di Santa Gruche a riportarmi alla realtà. L’incombenza de sa missa de sa novena de Santu Jorgi iniziava ad attirare schiere di signore avvolte nei muccadores che, per la prima volta in vita mia, mi apparvero minacciosi. Percorsi via Eleonora d’Arborea per evitare la chiesa. Arrivata a Su Patio ero salva. Mi inginocchiai a terra di fronte alla chiesa di Sant’Andria e iniziai a disegnare unu paradisu con un pezzo di preda modde.

“Luna, luna
ghettamind’una
e un aranzu
a facher su pranzu
a facher sa chena
imbiamindela…”

 << Ciao bella bambina… >>
<< … >>

Mi bloccai senza dire nulla. Intravedevo un uomo, vestito di nero, seduto sulla panca in pietra affianco alla sartoria di tziu Jubanne.

<< A cosa stai giocando? >>

Abbassai la testa e feci finta di continuare a disegnare col cuore in gola.

“Luna, luna
ghettamind’una
e un aranzu…”

Con la coda dell’occhio vidi che l’uomo si avvicinava a passo lento.

“Luna, luna…”

<< L’italiano lo capisci? La lingua della tua patria? >>

Era dietro di me. Sentivo qualcosa sfiorarmi i capelli. D’un tratto il rumore di un portone che si apriva. Feci in tempo a voltarmi per un secondo: tziu Jubanne comparve sull’uscio, immobile.

<< Chie ses? Ite cheres? >>

 Chiese, a chizos corrugati: lo sguardo fisso sull’uomo in nero.

<< Chi sono io? Chi è lei, piuttosto! >>

Sentii i passi dello sconosciuto allontanarsi verso tziu Jubanne che non gli tolse gli occhi di dosso.

<< Io qui ci lavoro. A te invece non ti ho mai visto, cosa vuoi dalla bambina? >>
<< Che razza di cristiano lavora di domenica? >>
<< Ite ratza ‘e omine dat’iffadu a una pitzinna chi jocat? >>

DLEN! DLEN! DLEN! DLEN! DLEN! …Dlin! Dlin! Dlin!

Da quel momento non riuscii più a sentire nulla. Un assustu ‘e morrere.
Stordita e spaventata dalla campana di Sant’Andrìa che rimbombava sopra le nostre teste mi sollevai in piedi e corsi via, sfrecciando tra le case di via Sulis senza voltarmi indietro. Arrivai ansimando di fronte al traghinu che tagliava in due Sa Udditta, popolato di sciami di mosche e api che ronzavano dove l’acqua si faceva maleodorante. Il cielo si stava imbrunendo e così anche le facciate delle case che davano sulla piazza. L’ultimo, flebile, raggio di sole bastò per farmi notare quello strano disegno sul muro accanto alla porta di casa nostra. Pariat un’ispezie ‘e roda chin d’una gruche in intro.