Archivi giornalieri: 26 marzo 2011

Sindacati e Patronati in difesa dei diritti dei lavoratori elettrici e telefonici

NEWS

Comunicato stampa

Le Segreterie nazionali dei sindacati Filctem-Cgil, Flaei-Cisl, Uilcem-Uil, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uil Comunicazione  ed i patronati confederali Inca-Cgil, Inas-Cisl e Ital-Uil ribadiscono il loro impegno per la difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori elettrici e telefonici duramente colpiti nei diritti previdenziali dalla legge 122/2010.

Nelle settimane passate i sindacati hanno condotto un’intensa mobilitazione unitaria per sensibilizzare il Parlamento rispetto ai pesanti effetti che la legge 122 avrebbe prodotto sui lavoratori, in particolare quelli che hanno contribuzione  previdenziale in più fondi  o quei lavoratori che hanno subìto scorpori e ristrutturazioni aziendali.

“Siamo di fronte a situazioni insostenibili – dicono sindacati e  patronati – messe in evidenza anche dalla stampa quotidiana: lavoratori che, perso il lavoro, non possono andare in pensione perché la normativa è cambiata all’improvviso e si trovano costretti a pagare ingenti somme per ricongiungere la contribuzione versata in più fondi o lavoratori interessati da complessi accordi aziendali   che potrebbero, a questo punto, essere rimessi in discussione”.

I sindacati continueranno la loro battaglia per far modificare le ingiuste norme della legge 122 mentre sono impegnati con i patronati confederali a tutelare gli interessi dei singoli lavoratori attraverso l’attivazione, già in corso, di azioni di contenzioso legale.

Nel frattempo i sindacati hanno chiesto un nuovo incontro alla Commissione Lavoro della Camera dei deputati.

Il Paese immobile …. che non investe sui giovani

 

NEWS

Il nostro è un Paese che invecchia

Secondo il presidente dell’Istat Giovannini, intervistato da Rassegna.it “se l’Italia facesse un vero investimento di medio periodo sui ragazzi, allora potremmo fare un salto maggiore rispetto agli altri paesi. Ma abbiamo difficoltà a ragionare in questo modo” – e ancora – “Il nostro è un Paese che invecchia. E questa non è necessariamente una cattiva notizia, soprattutto per chi è destinato a entrare nelle classi di età più anziane. Purtroppo è anche un paese che investe poco nei giovani e per questo è, almeno in una certa misura, fermo. Noi non investiamo abbastanza nel capitale umano che è uno dei maggiori fattori di crescita economica. In un’economia della conoscenza, in cui la capacità di sviluppare nuove idee e di metterle in pratica fa da motore dell’economia, è chiaro che avere una generazione di giovani che non studia e non lavora è uno spreco enorme di capitale umano e per questo ci sono almeno tre spiegazioni possibili. La prima è che la generazione che ci ha preceduto ha accumulato una ricchezza molto consistente, che ha consentito un’elevata diffusione del benessere e forse reso meno necessario continuare la corsa.

Il paese si è “seduto”, grazie al fatto che era  possibile avere livelli di reddito elevati anche senza una crescita forte. Non a caso, il tasso di risparmio in Italia è sceso molto nel corso degli anni. Pur essendo un fenomeno fisiologico in tutti i paesi sviluppati, da noi è stato particolarmente accentuato. Di fatto ci stiamo “mangiando”, almeno in parte, il capitale disponibile. Seconda possibile motivazione è la scarsa pressione che hanno avuto le imprese ad innovare a causa del contenimento delle spinte salariali, dovuta alla prosecuzione della politica  dei redditi anche una volta sconfitta l’inflazione.

Ciò ha creato un vero e proprio circolo vizioso: scarsa innovazione, salari relativamente bassi, scarso incentivo a studiare e a formarsi, scarsa utilizzazione del capitale umano, scarsa innovazione e così via. La terza ragione è che grazie all’apertura dei mercati molte persone possono andare fuori a cercare opportunità. E vista la poca attrattività di investimenti esteri in Italia, una parte del sistema economico orientato al mercato interno non subisce la pressione che deriva dall’arrivo di nuovi soggetti e questo vale soprattutto per il terziario.

Il testo completo su Rassegna.it

Welfare, in un anno fondi tagliati del 63,4%

NEWS

Il Manifesto per un welfare del  XXI secolo

A Roma, presso la sede della Federazione nazionale della stampa, è stato lanciato il Manifesto per un welfare del XXI secolo, su iniziativa della Rivista delle politiche sociali. Il testo prende spunto dai tagli effettuati nel sociale negli ultimi tre anni, per “ripensare l’intervento pubblico sul welfare”.

Dopo il ridimensionamento drastico sancito nei mesi scorsi dalla legge di stabilità, con due miliardi di euro in meno rispetto al 2008, e quasi un miliardo in meno rispetto al 2010, attorno al manifesto si vuole dunque raccogliere il consenso di esperti, operatori sociali, associazioni. Il testo ha un taglio sintetico e richiama i principali capisaldi di ogni sistema contemporaneo di politiche sociali. L’intento è quello di dar vita a un largo movimento di opinione che si opponga “al sostanziale azzeramento dell’intervento pubblico nel welfare e che ne ripensi le strategie d’intervento secondo un criterio di salvaguardia e di valorizzazione dell’azione pubblica”.

L’urgenza di questa riflessione nasce da cifre piuttosto allarmanti. Il bilancio complessivo dei fondi statali a carattere sociale vede infatti gli stanziamenti scendere del 63,4 per cento rispetto al 2010, superando appena la soglia dei 500 milioni di euro complessivi. Per le stesse voci, nel 2010 si sfiorava la cifra del miliardo e mezzo (1.472 milioni) e appena tre anni fa, nel 2008, la dotazione dei fondi a carattere sociale superava i due miliardi e mezzo (2.526,7 milioni). In tre anni, insomma, le risorse si sono ridotte del 79 per cento). le previsioni per il 2012 e il 2013, tra l’altro, prevedono un’ulteriore stretta, con il totale dei fondi sociali che sarà ridotto, nelle previsioni, di un’altra metà, fino a toccare appena quota 271 milioni. Nello specifico, si parla di 340 milioni di euro per il 2012 (-36,8 per cento rispetto a quest’anno) e 217,1 milioni per il 2013 (altro -20,3 per cento rispetto al 2012).

Il taglio più significativo è quello del Fondo politiche sociali, che dai 929,3 milioni del 2008 è sceso ai 435,3 milioni del 2010 e che per il 2011 si assesterebbe sui 274 milioni. Ma decurtazioni si registrano anche per il Fondo politiche della famiglia, che aveva 185,3 milioni nel 2010 (erano stati 346,5 due anni prima), nel 2011 sono 51,5 milioni (-71,3 per cento). Va male anche per Fondo politiche giovanili: nel 2010 era stato finanziato con 94 milioni, nel 2011 è stato prima ridotto a 33 milioni e poi, con il maxiemendamento del governo, ulteriormente abbattuto fino a 12,8 milioni. Il confronto con l’anno passato parla di un –85 per cento.

Recupera invece, ma poco , il Fondo pari opportunità: da 2,2 milioni è salito a 17,2 milioni per il 2011 (ma nel 2009 erano 30 milioni e nel 2008 ce n’erano 64,4). Ridimensionamento poi per il Fondo per il sostegno alle abitazioni in locazione: i 143,8 milioni nel 2010, 32,9 (-76 per cento). Drastico calo anche per i fondi per il servizio civile: erano 300 milioni nel 2008, sono stati 170,3 milioni nel 2010, ne rimangono 113 (-33,6 per cento in un anno) nel 2011.


Solo il Fondo per l’infanzia e l’adolescenza regge, stabile a 40 milioni: cifra che però riguarda solamente le 15 città beneficiarie di una quota riservata. Il settore subirà comunque un contraccolpo dal calo del fondo indistinto per le politiche sociali. Infine il Fondo per la non autosufficienza va verso un totale azzeramento. Già nel 2010, tra l’altro, erano stati azzerati il Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati e il fondo destinato al Piano straordinario per i servizi sulla prima infanzia.

Ad aprire l’incontro  è stata Maria Luisa Mirabile, direttrice della Rivista, che dopo aver delineato la struttura degli interventi previsti, ha illustrato i punti chiave dell’iniziativa. Anzitutto, affermare l’attualità sociale del welfare. Nella società post-fordista, più dispersa e frammentaria, il welfare diviene ancora più necessario, sebbene sotto sembianze diverse dal passato (come sviluppo delle capacità, riconoscimento del talento, promozione del merito; attività di cura per minori e anziani e sviluppo delle compatibilità). In secondo luogo, dare voce alla protesta contro i tagli al welfare operati dal governo. Infine, terzo e ultimo punto chiave dell’iniziativa, dare visibilità all’integrazione tra soggetti diversi che intendono avanzare proposte concrete (studiosi, esperti del settore, attori politici, mondo del terzo settore e dell’associazionismo).

Chiara Saraceno ha spiegato in apertura del suo intervento come il Manifesto non nasca dalla nostalgia del buon tempo antico: “Il welfare non è stato splendido e non è in crisi solo per colpa di questo governo o per eccesso di generosità. ,Il Manifesto non nasce da una nostalgia, dunque, ma da una visione critica dei limiti del welfare attuale che diventano più inaccettabili alla luce dei cambiamenti in atto e della crisi globale”. Ha poi avanzato una proposta: ripensare al welfare alla luce di un equilibrio migliore tra protezione e opportunità. “Il welfare – ha spiegato – va inteso anche come investimento non solo in termini di coesione sociale, ma anche come investimento economico, perché se le persone non hanno soldi in tasca anche grazie a un buon sistema di protezione sociale, chi spende e da dove ripartono i consumi?”.

Giulio Marcon ha portato l’adesione convinta della campagna Sbilanciamoci! al Manifesto, una campagna a cui aderiscono associazioni molto diverse tra di loro (42) che però si sono ritrovate unite allo scopo di difendere l’idea di coesione e di patto sociale. La campagna Sbilanciamoci! nasce proprio con l’obiettivo di formulare alternative specifiche a quelle elaborate dalla finanza pubblica per difendere i diritti di cittadinanza senza un aggravio di costi. Marcon ha evidenziato alcuni punti fondamentali del Manifesto: rilanciare i servizi per infanzia, i livelli minimi di assistenza e il reddito minimo, sopratutto in un quadro di crisi economica che ha colpito il paese in questi due anni.

Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, che ha chiuso la conferenza stampa, ha spiegato che il Manifesto e il fatto stesso che soggetti differenti provino a lanciare una nuova idea, dimostrano che in Italia esiste ancora un pensiero e che avere un pensiero sul welfare non è un pensiero antico ma un pensiero sul futuro. “Respingere l’idea che il welfare sia un costo e che non rappresenti il futuro è un’idea sbagliata. C’è ancora una cultura che pensa, che mette insieme delle proposte e che non sempre è conformista”.

“Per la prima volta – ha continuato – abbiamo un governo per cui il welfare è caritatevole, penso alla social card ma anche a Lampedusa. Bisogna poi riaffermare che il welfare è un welfare di cittadinanza e non un welfare familiare. In questo c’è la chiave culturale per spiegare il perché in Italia non ci sia un servizio all’infanzia”. Dunque, pensare il welfare come crescita e non come costo.

rassegna.it

Trasmissione telematica certificato di malattia

 

NEWS

Diritto del lavoratore ad avere copia cartacea

Diverse nostre sedi ci segnalano che sempre più di frequente, medici di base, operatori numero verde e operatori Inps sostengono il venir meno dell’obbligo della presentazione del certificato medico al datore di lavoro (settore privato) allorquando vi sia stato l’invio telematico da parte del medico certificatore. Tale procedura, a loro avviso, esime il medico dal dare copia cartacea del certificato e dell’attestato di malattia al lavoratore.

La Direzione Centrale Prestazioni a sostegno del reddito, interpellata in proposito ha così risposto: “L’art. 3 del D.M. 26 febbraio 2010 prevede che il medico che trasmette il certificato di malattia telematico all’Inps rilasci al lavoratore, al momento della visita, copia cartacea del certificato di malattia  e dell’attestato di malattia. Il successivo art. 4 stabilisce che il lavoratore del settore privato è tenuto, entro due giorni, a trasmettere l’attestazione di malattia al proprio datore di lavoro “salvo il caso in cui quest’ultimo richieda all’Inps la trasmissione in via telematica della suddetta attestazione”….. fatti salvi i casi in cui il medico sia oggettivamente impossibilitato a stampare copia del certificato e dell’attestato di malattia (nel qual caso comunicherà al lavoratore solo il numero di protocollo del documento), il medico è tenuto a fornire al lavoratore la suddetta copia (art. 3, n. 2 D.M. 26.02.2010). Si precisa, altresì, che tale adempimento ha anche lo scopo di ricordare al lavoratore la sua responsabilità in merito alla corretta indicazione dei dati anagrafici e soprattutto dell’indirizzo di reperibilità. Infatti, è onere del lavoratore verificare l’esistenza di eventuali errori od omissioni circa il suddetto indirizzo dai quali poi  potrebbe scaturire l’impossibilità ad eseguire la visita medica di controllo domiciliare e la conseguente applicazione delle sanzioni.

Si precisa, infine, che anche nel caso in cui il datore di lavoro venga obbligato per legge a richiedere l’abilitazione alla visualizzazione o alla ricezione tramite PEC degli attestati di malattia dei propri dipendenti, liberando in tal modo il lavoratore dall’onere di trasmettere l’attestato stesso alla propria azienda, possono presentarsi particolari situazioni (ad esempio di tipo tecnico) in cui lo stesso datore di lavoro, eventualmente impossibilitato temporaneamente a visualizzare l’attestato, chieda legittimamente al lavoratore di trasmettergliene copia cartacea”.

Pertanto il medico oltre all’obbligo dell’invio telematico del certificato e dell’attestato di malattia  ha, anche, l’obbligo di rilasciarne relativa copia al lavoratore

In aumento il lavoro notturno, quali i rischi

 

NEWS

Lavoratori esposti al rischio stress lavoro correlato

Dares (Direction de l’animation de la recherche, des etudes et des statistique), l’istituto pubblico che conduce ricerche statistiche sul mercato del lavoro in Francia, ha recentemente pubblicato un dossier sul lavoro notturno.

Come si è evoluto negli ultimi dieci anni? Quanti sono i lavoratori che lavorano di notte? Quali le loro caratteristiche? Quali sono le mansioni che ricoprono? Che conseguenze ha il lavoro notturno sulla loro vita e sulla loro salute? La ricerca riporta dati aggiornati  al 2009.

Il lavoro notturno è in aumento: dal 1991 al 2009 il numero di lavoratori impegnati in lavoro notturno è più che duplicato. Un fortissimo aumento si è verificato negli ultimi anni per la presenza femminile nel lavoro notturno: più donne lavorano di notte, soprattutto donne tra i 20 e i 29 anni impegnate nell’industria agroalimentare e dell’automobile e nel settore dei servizi alla persona. La presenza di donne che lavorano di notte tende poi a diminuire quando la donna si trova a dovere gestire una famiglia e dei bambini piccoli.

In quali ambiti è più forte la presenza di lavoratori notturni?
La statistica mette al primo posto i trasporti; a seguire l’industria agroalimentare e il comparto energetico e  a breve distanza il lavoro amministrativo, la sanità, l’educazione, l’assistenza sociale e i servizi privati.
Le professioni più comuni tra gli chi lavora di notte sono il conduttore di veicoli, il poliziotto e il pompiere. Queste mansioni sono svolte in buona parte da personale di sesso maschile. Al terzo posto della classifica dei lavori notturni c’è l’infermiera o badante, incarico ricoperto per il 90% di casi da donne.

Quali sono le condizioni di lavoro per questi lavoratori?
Le condizioni di lavoro che affrontano sono più difficili: devono spesso ricoprire più ruoli contemporaneamente, devono sostenere ritmi di lavoro più serrati, devono lavorare con ridotte capacità psico-fisiche e con il costante timore che un errore potrebbe avere gravi conseguenze. Inoltre alcuni tipi di lavoro notturno, ad esempio i lavori in polizia o l’assistenza a persone malate, portano con sè un carico emotivo molto pesante, inoltre espongono i lavoratori a rischio di aggressioni verbali o fisiche da parte delle persone con cui questi entrano in contatto.
Tutto questo rende i lavoratori notturni dei lavoratori particolarmente esposti al rischio stress lavoro correlato.

Quali le conseguenze per la qualità della vita e per la salute?
Anche se il lavoro notturno è visibile e  misurabile non è lo stesso per le conseguenze che questo provoca a lungo termine per la salute dei lavoratori: è difficile definire con esattezza l’impatto di questo tipo di lavoro sulla salute dei lavoratori.
Lavorare di notte altera i ritmi circadiani di sonno veglia e le conseguenze di questo sono molto ampie: primi fra tutti questi lavoratori soffrono di disturbi del sonno e di problemi della digestione spesso causati da cattive abitudini alimentari. Dalla generale alterazione dei ritmi vitali possono derivare poi disturbi all’apparato riproduttivo, malattie del’apparato cardio-vascolare, e problemi psicologici spesso aggravati anche da una diffusa difficoltà di mantenere una vita sociale e di condurre una vita soddisfacente.

Infine, recenti ricerche condotte dal CIRC, centro internazionale di ricerca sul cancro, su studi effettuati su infermiere e hostess ha rilevato un aumento del rischio di cancro al seno tra coloro che lavoravano di notte.

www.quotidianosicurezza.it