Archivi giornalieri: 24 maggio 2010

Inabilità al lavoro dopo la stipula del contratto di lavoro

Notizie

Logo Interpello

24 maggio 2010

Interpello 
Inabilità al lavoro dopo la stipula del contratto di lavoro

La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva fornisce risposta, in data 24 maggio 2010, al seguente quesito: Computabilità nella quota di riserva ex art. 4, comma 4, L. n. 68/1999, del lavoratore assunto come normodotato divenuto inabile dopo la stipulazione del contratto di lavoro.

Interpello n. 17/2010 (formato .pdf 18,96 Kb)

Per ulteriori informazioni sugli interpelli pubblicati alla sezione dedicata

1969

Lo Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico ben più forte e più ampio del suo pur importantissimo contenuto normativo. Così è stato prima della sua approvazione, quando fu la bandiera intorno alla quale si radunarono grandi masse di lavoratori

di Mario Giovanni Garofalo*

 

1. La proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori fu formulata dalla Cgil per la prima volta, a pochi anni di distanza dalla promulgazione della Costituzione e immediatamente dopo la scissione sindacale, nel congresso di Napoli del 1952. Era una proposta aperta, se si vuole tecnicamente grezza, ma l’idea di fondo era sufficientemente precisa, ben riassunta nello slogan “la Costituzione nelle fabbriche”. Il testo costituzionale, infatti, pur proclamando importanti princìpi di libertà, non aveva innovato l’assetto giuridico effettivo dei rapporti individuali e collettivi di lavoro in modo tale da costituire una trincea sufficientemente solida per difendere i lavoratori nella difficilissima situazione che si era venuta a creare negli anni 50 del XX secolo. E infatti la regolamentazione giuridica utilizzata da giudici e giuristi era essenzialmente quella del codice civile del 1942 depurata dalla giurisprudenza da ogni riferimento ai sindacati fascisti, e che attribuiva all’imprenditore, tra l’altro e in primo luogo, piena libertà di licenziamento. In questo quadro, la pur generosa lotta portata avanti da alcuni giuristi dell’epoca (Calamandrei, Crisafulli, Natoli) per porre un argine ai poteri imprenditoriali invocando il rispetto del patto costituzionale s’infrangeva contro il muro di gomma di un intero ceto di giuristi che rifiutava di applicare i princìpi costituzionali o affermando la loro non immediata applicabilità in attesa di improbabili leggi attuative ovvero, più spesso, semplicemente ignorandoli nei ragionamenti che portavano alle decisioni concrete.

Del resto, le norme della prima parte della Costituzione sono norme di principio, prive di un proprio apparato sanzionatorio e sull’azione in giudizio tale da garantirne l’effettiva applicazione. Inoltre queste norme di principio intendevano innovare profondamente l’assetto dei rapporti sociali (la rivoluzione promessa di cui parlava Calamandrei) e, dunque, quell’apparato non poteva essere rintracciato né nei meccanismi spontanei della società stessa, né nei codici che costituivano un nucleo normativo ideologicamente antagonista.

“Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica,,una sua fede religiosa, e vuole che, questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo dal padrone (…) perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di ‘Statuto’ che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (…) per poter discutere con esse e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”; così Di Vittorio motivava la proposta avanzata al Congresso: si trattava di una piattaforma politica per mobilitare l’intero movimento dei lavoratori.

Non era neanche definito se lo strumento formale dovesse essere una legge o un contratto collettivo. E, in questa piattaforma, era ravvisabile una linea di fondo che è utile rilevare perché costituisce uno dei poli del successivo dibattito: con lo Statuto non si mira a regolare le relazioni sindacali, neanche a livello di azienda; si mira a impedire che i poteri dell’imprenditore possano essere usati per comprimere le libertà fondamentali del lavoratore-cittadino. La regolamentazione del sindacato e dell’azione sindacale è affidata, dalla Cgil, ad altri interventi legislativi: quelli di attuazione dell’art. 39 della Costituzione, sulla registrazione del sindacato, sull’efficacia erga omnes del contratto collettivo, sul diritto di sciopero, sul riconoscimento giuridico delle Commissioni interne.

Nel frattempo abortivano i tentativi di una legge sindacale proposti dai governi centristi; quello che va più avanti, il progetto Rubinacci, non arriva neanche a essere discusso in Parlamento; gli altri si fermano ancor prima. Si trattava di proposte che intendevano ingabbiare il sindacato in una complessa rete normativa che gli assegnava sostanzialmente una funzione di regolazione dei salari a livello macro-economico, escludendone ogni incidenza sugli equilibri, da un lato, politici e, dall’altro, aziendali. Come ebbe ad osservare Tiziano Treu, di fronte alle difficoltà di far passare questo disegno in Parlamento, la scelta dei governi centristi fu quella di lasciare la repressione dell’azione sindacale al potere privato degli imprenditori e alle misure di polizia. Se, nel breve periodo, questa scelta fu pagante, sul periodo un po’ più lungo la rese una variabile immediatamente dipendente dagli equilibri politici.

2. Questi ultimi mutarono, appunto, con il passaggio dagli anni 50 agli anni 60 portando alla crisi del centrismo e alla nascita del centro-sinistra: mentre negli altri paesi europei i partiti operai assumevano dirette responsabilità di governo, in Italia la questione si presentava con caratteristiche particolari perché il maggiore dei partiti operai era il Partito comunista che, per ragioni internazionali, era escluso da tale possibilità. Per soddisfare quelle esigenze, dunque, pur rimanendo il sistema politico imperniato sulla Democrazia cristiana, fu cooptato nella maggioranza di governo il minore dei partiti operai, il Partito socialista. Questa strategia aveva bisogno, però, di essere sostenuta anche dal consenso delle grandi confederazioni sindacali, e non solo – come era stato negli anni 50 – da parte della Cisl, ma anche della Cgil. Da un lato, ciò significò apportare profonde modificazioni nel sistema di relazioni industriali e ciò avvenne con l’introduzione della contrattazione aziendale, prima nella forma della contrattazione articolata (il Protocollo Intersind Asap del 1962), poi in forme più penetranti. Nel nuovo ruolo assunto dalle relazioni industriali, al sindacato non era più affidato solo il compito di regolare il mercato del lavoro a livello macroeconomico, con il contratto nazionale; era necessario e opportuno che il sindacato assumesse anche il ruolo di regolatore del conflitto sociale nelle grandi fabbriche fordiste. Ma per portare a compimento un simile disegno era necessario un intervento normativo che costringesse gli imprenditori ad accettare la dialettica sindacale nelle loro imprese, rinunziando a essere l’unico signore nelle loro fabbriche. Di qui l’idea del secondo governo Moro di riprendere la proposta di uno Statuto dei lavoratori già nel discorso programmatico e, poi, facendo inviare alle parti sociali un articolato questionario dal ministro del lavoro Delle Fave.

Non aveva torto la Cisl, nella sua risposta al questionario, a osservare che dava già per risolti alcuni aspetti essenziali del problema; in primo luogo che lo strumento con il quale introdurre le nuove norme dovesse essere quello legislativo, quando questa confederazione puntava a una regolamentazione dei diritti sindacali in azienda per via contrattuale, attraverso la proposta di un accordo quadro. Però, l’esigenza dei governi di centro-sinistra di guadagnarsi il consenso operaio imponeva importanti concessioni alla confederazione maggiore, la Cgil, attraverso uno strumento – la legge – chiaramente proveniente dal sistema politico. La proposta di uno Statuto dei lavoratori divenne, dunque, parte integrante delle strategie dei governi di centro-sinistra.

Queste iniziative, se riproposero nell’agenda politica la questione, in un primo momento sortirono un effetto solo simbolicamente importante: la cosiddetta legge sulla giusta causa (la n. 604 del 15 luglio 1966). Con essa, infatti, il dogma della libertà di licenziamento era finalmente messo in discussione, ma il licenziamento illegittimo era sanzionato solo con il pagamento di un esiguo risarcimento.

3. Nella seconda metà degli anni 60, intanto, veniva a maturazione un lungo processo di evoluzione del mercato del lavoro già iniziato negli anni 50. Almeno all’interno delle grandi fabbriche, la domanda e l’offerta di lavoro tendevano a riequilibrarsi anche per le qualifiche più basse. Questo profondo mutamento strutturale non riusciva a esprimersi né nel sistema politico né in quello di relazioni industriali per il loro – relativo – consolidamento. La mancanza di sbocchi creava, dunque, tensioni che investivano le stesse regole del gioco, sia nel sistema politico, sia nell’organizzazione del lavoro, sia infine all’interno delle organizzazioni sindacali. Né, d’altro canto quelle tensioni potevano rimanere – come è accaduto in altri paesi – allo stato di un generico malessere sociale. Infatti, il loro luogo naturale era il grande stabilimento industriale dove i processi di socializzazione da questi imposti ne favorivano un’espressione organizzata. D’altro canto, un elemento troppo spesso trascurato dalle riflessioni in materia è che i principali soggetti portatori di quelle tensioni, gli immigrati meridionali, erano in buona parte portatori della memoria storica delle grandi lotte per il lavoro del dopoguerra e cioè di una tradizione sindacale peculiare, che mal si conciliava con quella prevalente nelle grandi categorie industriali, ma che non di meno era una tradizione di organizzazione e di lotta quanto mai radicata e vivace. Insomma si produceva quell’importantissimo processo politico e sociale universalmente noto come autunno caldo.

Non era, dunque, più rinviabile l’accettazione esplicita di un conflitto sindacale la cui negazione a livello ideologico non aveva più efficacia a fini repressivi. Era invece necessario riconoscerlo per (avere la possibilità di) controllarlo. I tempi politici per l’approvazione di uno Statuto dei lavoratori erano ampiamente maturi.

4. Nel corso degli stessi anni (seconda metà degli anni 60) si svolgeva, in ambienti non direttamente politici, un dibattito del massimo interesse per intendere quello che sarà lo Statuto dei lavoratori. Esso affonda le sue radici nel rinnovamento degli studi di diritto sindacale a opera di alcuni studiosi, tra i quali – in primo luogo – Gino Giugni. La valorizzazione del principio di libertà sindacale e, contemporaneamente, la svalutazione degli altri contenuti normativi dell’art. 39 consentono a questi studiosi – pur in assenza della legge di attuazione della norma costituzionale – di costruire un significato giuridico dell’azione sindacale che si caratterizza per la sua autonomia dallo Stato e, dunque, dall’esperienza politica. L’attenzione si sposta dalla tradizionale tutela del lavoratore come contraente debole del contratto di lavoro al sindacato come soggetto del conflitto per costruire un (contro)potere dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. L’esperienza italiana degli anni 50 dimostrava come il conflitto potesse essere represso e come tale repressione ingessasse la società e lo stesso sistema produttivo. Nasceva così la nozione di legislazione di sostegno all’attività sindacale intesa non come interventi legislativi che si ponessero in concorrenza con la contrattazione collettiva nel dettare norme di protezione del singolo lavoratore, ma come fattore di potenziamento dell’azione sindacale e, dunque, di garanzia della capacità dei sindacati di essere soggetti effettivi del conflitto industriale. Né si voleva regolare il soggetto sindacale, come volevano fare i progetti governativi di attuazione dell’art. 39 della Costituzione; in coerenza con il principio di libertà sindacale, le scelte organizzative dei sindacati rimanevano libere.

5. In questo contesto, il Consiglio dei ministri, il 24 giugno 1969, presentò al Senato il disegno di legge n. 738 che, dopo un approfondito dibattito parlamentare, diventò la legge 20 maggio 1970 n. 300. In esso, non si trascurava che l’obiettivo di fondo era quello di “creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana” – così richiamando l’antica proposta della Cgil –, ma faceva del sindacato il perno della tutela, in quanto “la disciplina (…) resterebbe incompiuta e forse non rigorosamente applicata, ove l’intervento legislativo non si traducesse altresì in un’azione di sostegno e di promozione dell’attività rappresentativa del sindacato in azienda” (così diceva il ministro Brodolini nella relazione al ddl). Un confronto tra il ddl governativo e l’iniziale proposta della Cgil – presente nel dibattito parlamentare attraverso i disegni di legge di origine parlamentare – ci mostra come, per quest’ultima, lo Statuto dovesse essere l’attuazione delle libertà costituzionali nelle fabbriche perché il sindacato potesse svolgere la propria azione fuori di esse, nel sistema economico, politico e sociale complessivo e, dunque, costituiva una sorta di premessa alla legge sindacale di attuazione dei commi 2°, 3°e 4° dell’art. 39 della Costituzione: registrazione del sindacato, conseguimento della personalità giuridica, abilitazione alla stipulazione di contratti collettivi con efficacia erga omnes. Il ddl governativo, invece, si fondava sull’esperienza sindacale che si era venuta formando negli anni 50 e 60 del secolo scorso nella mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione e faceva dello Statuto la legge sindacale di un sistema di relazioni industriali che si andava articolando in tanti sottosistemi quante sono le fabbriche. Il dibattito parlamentare fu ampio e fecondo: lo Statuto, nella sua versione finale, rimase, in primo luogo, uno strumento di promozione dell’esperienza sindacale che si era andata formando in quegli anni nel vuoto lasciato dalla mancata attuazione dell’articolo 39. Il modello che informa la legge è quello di un sindacato che fa della fabbrica il luogo centrale della sua azione. Del disegno governativo rimane anche la parità tra i sindacati maggiormente rappresentativi – in primo luogo le grandi confederazioni – così prefigurando l’assetto del Patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil del 1972 con il quale la prima confederazione riconosceva come pari a sé le altre due nonostante la propria maggiore consistenza organizzativa, in cambio della rinuncia di queste ad accordi separati. Il sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro si accompagna anche al rispetto delle forme organizzative che il sindacato sceglie di darsi: nell’articolo 19, infatti, il legislatore non prescrive questa o quella forma di organizzazione nei luoghi di lavoro; attribuisce i diritti del titolo III alle rappresentanze sindacali aziendali che abbiano due requisiti: siano costituite a iniziativa dei lavoratori e siano in qualche modo – non si precisa quale – collegate con almeno uno (ma anche più di uno: articolo 29) dei sindacati esterni maggiormente rappresentativi.

Ciò consente che le misure di sostegno siano attribuite a organismi separati, ma anche a organismi unitari; alle vecchie Commissioni interne ma anche ai Consigli di fabbrica che allora si andavano formando; consente di non avere difficoltà ad attribuirle, oggi, alle Rappresentanze sindacali unitarie. Insomma, la legge, pur avendo l’obiettivo di favorire la presenza sindacale in azienda, lascia autonomi i lavoratori di scegliere la forma organizzativa che questa presenza deve assumere.

A questo nucleo duro si aggiungono significativi allargamenti delle concessioni già effettuate nel ddl governativo alla diversa impostazione dei partiti di opposizione che più direttamente si ispirava all’iniziale proposta della Cgil: limitando le indicazioni a quelle più significative, possono ricordarsi il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero anche nei luoghi di lavoro (articolo 1); la regolamentazione del potere disciplinare (articolo 7); il divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore (articolo 8); il diritto dei lavoratori di intervenire in materia di sicurezza ed ambiente di lavoro (articolo 9); il diritto allo studio (articolo 10); una penetrante limitazione del potere di variare le mansioni, a difesa della professionalità del lavoratore (articolo 13); il divieto di atti discriminatori (articoli 15 e 16). Rimane anche la forte tensione verso l’effettività della nuova normativa e l’adozione di nuove tecniche giuridiche per garantirla: prime tra tutte, la previsione dell’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato (articolo 18) e quella – ripresa dall’esperienza della legislazione sindacale nordamericana – della repressione della condotta antisindacale (articolo 28).

Questa capacità di dialogo tra maggioranza e opposizione, insieme con le pressanti esigenze di ammodernare il nostro sistema giuridico alla nuova realtà economica e sociale, portarono all’approvazione della legge da parte di un largo arco di forze: l’astensione dei gruppi parlamentari del Pci, della sinistra indipendente e del Psiup fu motivata con il mancato accoglimento della proposta di riconoscere un qualche status all’organizzazione partitica nei luoghi di lavoro, ma, contemporaneamente, queste forze politiche espressero un giudizio ampiamente positivo sulle modifiche introdotte nel corso del dibattito parlamentare.

6. Sono passati quarant’anni dall’approvazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, Norme sulla tutela della libertà e della dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, appunto nota come Statuto dei lavoratori. Il giudizio storico su questa legge non può che essere ampiamente positivo: i protagonisti, individuali e collettivi, della vicenda hanno dimostrato una rilevante capacità di leggere i cambiamenti nella struttura economica e sociale della nostra società e di avanzare proposte adeguate che non si limitavano al piccolo cabotaggio del governo della situazione contingente. I conflitti c’erano ed erano aspri, ma i soggetti che ne erano portatori erano in grado di collocare gli interessi che rappresentavano in un orizzonte ampio e significativo e, proprio su questo piano, assumevano la Costituzione come tavola di valori condivisi che, appunto, consentiva sia il dialogo, sia compromessi ragionevoli: un semplice confronto con la situazione attuale rende evidente l’abissale differenza. Sul piano giuridico, va in particolare segnalata la tensione verso l’effettività: non vi è spazio per un riconoscimento di diritti che rimangano sulla carta; lo sforzo è costantemente quello di accompagnare quel riconoscimento con la strumentazione adatta a inverare quei diritti nella dinamica concreta dei rapporti produttivi e sociali. Insomma, è lo Statuto dei lavoratori che ha consentito ai princìpi costituzionali di fare ingresso nei concreti ragionamenti di giudici e giuristi, che ha promosso l’ammodernamento del nostro sistema produttivo e di relazioni industriali; anche a questo proposito, è abissale la differenza con l’attuale situazione di leggi che sono giustificate con motivazioni opposte al loro contenuto normativo obiettivo. Però, quando si traccia un bilancio di una legge ancora vigente, non ci si può limitare a un giudizio storico sul suo processo di formazione e sul suo significato nel contesto in cui è nata. È una legge che va applicata ancora oggi: è, dunque, necessario verificare quali dei suoi contenuti normativi siano ancora attuali e quali siano superati.

Sono certamente ancora pienamente attuali le norme del titolo I e II a tutela della libertà e della dignità del lavoratore e della libertà sindacale di cui, non a caso, il legislatore del 1970 non aveva limitato l’ambito di applicazione a un certo numero di dipendenti: per affermare il contrario occorrerebbe negare, in contrasto con la realtà, che esistano lavori che, per la loro precarietà, di fatto limitino la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, ostacolando il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione alla vita politica, economica e sociale (articolo 3 della Costituzione). Proprio il richiamo alla norma costituzionale pone il problema dell’applicazione di queste norme ai contratti di lavoro cosiddetti flessibili (meglio: precari), nel 1970 pressoché inesistenti. Tra questi occorre fare una distinzione: da un lato ci sono i contratti che, anche se hanno un trattamento normativo peggiore di quello dei contratti standard, sono comunque riconducibili al contratto di lavoro subordinato (apprendistato, contratto di inserimento, lavoro intermittente, job sharing) ; in questo caso nulla ostacola l’applicazione delle norme in questione. Ma anche per i contratti flessibili non riconducibili alla figura generale del contratto di lavoro subordinato (i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella forma a progetto, e le associazioni in partecipazione in cui il contributo dell’associato sia una prestazione di lavoro) si può arrivare alla medesima conclusione: lo scopo di queste norme è, infatti, quello di tutelare la libertà e la dignità del lavoratore e tale scopo ricomprende tutte le ipotesi nelle quali il lavoro concretamente svolto possa ledere i beni protetti per la sua continuità nel tempo. Ancora attuale è anche la norma (articolo 28) che impone al giudice di reprimere eventuali condotte dell’imprenditore tese a limitare la libertà e l’attività sindacale, nonché l’esercizio del diritto di sciopero: il rischio che l’imprenditore utilizzi i propri poteri a questo fine è ancora ben presente e ci sarà sempre, finché vi sarà uno squilibrio di potere tra imprenditore e lavoratori.

Più di una ruga c’è, invece, nel titolo III, nella parte della legge di sostegno all’attività sindacale. Come è noto, i diritti riconosciuti da questa parte dello Statuto alle organizzazioni sindacali sono riservati alle organizzazioni maggiormente rappresentative; i criteri di identificazione delle stesse erano fondati su criteri presuntivi; non vi è alcuna graduazione nell’attribuzione di tali diritti, proporzionale al grado di rappresentatività delle diverse organizzazioni. Il primo elemento è passato sia al vaglio di legittimità costituzionale sia a quello referendario: la Corte costituzionale, infatti, fin dalla sentenza n. 54 del 1974 (dunque, pochi anni dopo l’approvazione della legge) ha assunto un orientamento successivamente confermato varie volte: non viola né la libertà sindacale, né il principio di eguaglianza una norma di legge ordinaria che riservi a sindacati selezionati secondo criteri dotati di ragionevolezza diritti che vadano oltre la libertà sindacale, a condizione che quest’ultima sia comunque garantita a tutti. Nel 1995, inoltre, si svolse un referendum abrogativo su due quesiti, uno dei quali mirava a estendere a tutti i sindacati questa parte della legge e il corpo elettorale respinse la proposta.

Fu, invece, approvato l’altro quesito referendario, più limitato perché riguardava i criteri presuntivi in forza dei quali la legge procedeva alla selezione dei sindacati maggiormente rappresentativi. A seguito dell’esito del referendum, i diritti sindacali del titolo III oggi spettano ai sindacati firmatari di un contratto collettivo applicabile nell’unità produttiva. Tale criterio è stato oggetto di critiche da più parti, ma – con lo strumento del referendum abrogativo – non potevano certo essere adottati strumenti più raffinati di misurazione dell’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali (per intenderci, del genere di quelli adottati, per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con il dlgs n. 396/1997: oggi, art. 43 dlgs n. 165/2001): avrebbe dovuto essere adottata una nuova legge sulla rappresentatività sindacale, ma questa non c’è stata né allora, né in seguito, nonostante le ripetute iniziative in tal senso, soprattutto da parte della Cgil, e nonostante sia stata auspicata dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 30 del 1990.

Infine, il titolo III dello Statuto attribuisce i diritti sindacali in pari misura a tutti i sindacati che realizzino la maggiore rappresentatività, a prescindere dalla misura della stessa. Questa parità è figlia di uno scambio che per molti anni – pur nelle alterne vicende dell’unità sindacale – è avvenuto tra le tre maggiori Confederazioni: la Cgil, nonostante il maggior seguito che ottiene tra i lavoratori, riconosceva come pari a sé Cisl e Uil in cambio della rinuncia di queste ultime a stipulare accordi separati. Di accordi separati, in questi quarant’anni, ce ne sono stati molti, ma il punto più basso è stato raggiunto di recente, il 22 gennaio 2009, quando la divaricazione di strategie tra le tre Confederazioni ha investito le stesse regole del sistema di contrattazione collettiva e tutto ciò mette certamente in crisi l’intero sistema di convenienze reciproche che aveva consentito quello scambio. Non è certo fuor di luogo, a questo punto, rivendicare il superamento del principio di parità e che i diritti sindacali siano ripartiti in proporzione al grado di rappresentatività che ciascuna organizzazione è in grado di guadagnarsi tra i lavoratori.

7. Rimane da affrontare il mitico articolo 18, che prevede l’obbligo di reintegrazione effettiva del lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato. Da più parti, anche da ambienti di centro-sinistra, è avanzata la proposta di modificarlo, limitando l’obbligo di reintegrazione alle ipotesi di licenziamento discriminatorio e limitando la sanzione contro i licenziamenti semplicemente privi di giusta causa o di giustificato motivo a un risarcimento del danno più o meno esiguo. Prescindo, naturalmente, dalla giustificazione di una simile proposta per cui l’abrogazione dell’articolo 18 produrrebbe, magicamente, una maggiore propensione delle imprese alla creazione di nuovi posti del lavoro: non è mai stato dimostrato un legame tra flessibilità del lavoro e occupazione. O dall’altra per cui una maggiore libertà di licenziare consentirebbe agli attuali lavoratori precari di uscire dalla precarietà: mi basta, in proposito, osservare che è un ben curioso strumento di lotta alla precarietà quello di rendere precari i lavoratori che oggi non lo sono.

Quello che va rilevato è che l’obbligo di reintegrazione nega che, per il diritto, l’imprenditore abbia una signoria assoluta sull’organizzazione del lavoro: un lavoratore può esserne espulso solo se ha commesso un grave inadempimento o se ricorrono serie ragioni di razionalità organizzativa; in mancanza di questi elementi, il licenziamento non può produrre l’effetto di allontanare il lavoratore dall’organizzazione del lavoro. È contraddittorio affermare che il licenziamento è legittimo solo se ricorrono simili ragioni, ma che, anche se le stesse non ricorrono, il licenziamento ugualmente produca l’effetto di risolvere il rapporto di lavoro e consentire che il lavoratore sia compensato solo con il risarcimento del danno subito. Del resto, è evidente come, in mancanza di una tutela reintegratoria, tutti i diritti che la legge o il contratto collettivo riconoscono ai lavoratori siano scritti sull’acqua: nel timore di essere licenziato, il lavoratore rinunzierà sempre a farli valere, perlomeno finché dura il rapporto. Non si tratta – come dice qualcuno – di una semplice asimmetria di informazioni, ma di una asimmetria di potere: la garanzia della reintegrazione è la chiave di volta dell’effettività di tutti i diritti che l’ordinamento giuridico riconosce ai lavoratori. Non è certo un caso che i tassi di sindacalizzazione calino fino allo zero nelle imprese fuori del campo di applicazione dell’articolo 18. Un argomento a sostegno della proposta ha, però, un suo fondamento: se l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro interviene dopo molti anni dal licenziamento, il costo della sanzione per l’impresa è rilevante e, in qualche caso, insopportabile; del resto – si aggiunge – in tali casi anche il lavoratore non ha più interesse all’effettiva reintegrazione, preferendosi una soluzione transattiva che monetizzi il diritto alla reintegrazione.

Deve, però, osservarsi anche che – se la reintegrazione avvenisse dopo breve termine – il costo del licenziamento illegittimo per l’impresa sarebbe esiguo. Ma allora, il problema non è l’obbligo di reintegrazione, ma i tempi del processo. Per rimediare a questo inconveniente sarebbe sufficiente assicurare una corsia preferenziale a questi processi e pervenire in tempi brevi alla soluzione della controversia.

8. Possiamo certo parlare di crisi dello Statuto dei lavoratori perché è l’assetto delle relazioni industriali che ha prodotto lo Statuto a non esserci più. Lo Statuto è stata la legge sindacale organica di un sistema di relazioni industriali che faceva perno sulle grandi aziende fordiste e a questo deve la sua fortuna. Gli anni successivi hanno nuovamente spostato il perno del sistema produttivo nella cosiddetta fabbrica diffusa; la frammentazione – anche giuridica – del lavoro ha fatto perdere centralità all’operaio massa della grande fabbrica. Il sindacalismo confederale, se vuole mantenere la sua rappresentanza generale, non può più farlo a partire da quest’ultimo, ma deve seguire la via estremamente più difficile di proporla a partire dalle differenze di interessi dei diversi gruppi che intende rappresentare. Insomma, se lo Statuto non è più in grado di informare a sé l’intero mondo delle relazioni sindacali perché le stesse sono cambiate profondamente, è ancora in grado di regolare le relazioni di lavoro interne alle imprese grandi e medie che sono pur sempre un pezzo di decisiva importanza del sistema produttivo.

Questi limiti non tolgono attualità a gran parte dei contenuti normativi dello Statuto: lo abbiamo visto in relazione alle norme a tutela della libertà e dignità dei lavoratori; lo abbiamo visto per ciò che riguarda le norme di sostegno all’attività sindacale nei luoghi di lavoro, pur nella modificazione dei criteri di riferimento; lo vediamo – in sintesi – nell’essere norme di attuazione, per quanto riguarda il lavoro, della Costituzione, patto fondamentale della nostra convivenza. Un arretramento da questa trincea avanzata, lungi dal consentire una migliore rappresentanza dei lavori produttivi diversi da quello dell’operaio della grande azienda, al contrario ne negherebbe radicalmente i presupposti.

In realtà, lo Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico ben più forte e più ampio di quello che sia il suo pur importantissimo contenuto normativo. Così è stato prima della sua approvazione, quando era la bandiera intorno alla quale si sono radunate grandi masse di lavoratori contro l’assetto di potere esistente nei rapporti di produzione; così ha continuato a essere quando le modificazioni avvenute nei rapporti di forza interni al sistema di produzione hanno consentito agli imprenditori di riconquistare province perdute in precedenti fasi di lotta nel nome della necessità di profonde ristrutturazioni dell’apparato produttivo. E questo valore simbolico è ancora quello che era nella proposta di Di Vittorio, che i rapporti di produzione sono subordinati ai valori costituzionali, che il lavoro non è una merce, che il lavoro deve essere strumento di promozione della persona umana e di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del nostro paese.

Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari

 

Intervista

Lavoro, torniamo allo Statuto

Parla Umberto Romagnoli. “Fu il frutto di uno scambio tra un governo che aveva bisogno di consenso e un sindacato in grado di governare il conflitto. È una legge ancora vitale, perché ce n’era bisogno quando fu approvata e ce ne è bisogno anche oggi”

di Tarcisio Tarquini

 
“Questa è una legge ancora vitale, perché ce n’era bisogno quando fu approvata e ce ne è bisogno anche oggi. Dopo un periodo di rodaggio di quattro, cinque anni, cominciò subito a funzionare bene, tanto che da quel momento in poi nessuno ha dichiarato apertamente di volerla cancellare, ma in tanti si sono messi all’opera per svuotarla dei suoi contenuti”. Con Umberto Romagnoli, uno dei grandi maestri del diritto del lavoro – disciplina alla quale ha regalato saggi fondamentali sul diritto sindacale e il pluralismo sociale – la conversazione che gli abbiamo proposto sullo Statuto dei lavoratori quaranta anni dopo la sua approvazione parte da qui, dalla domanda sulle ragioni della vitalità di una legge che per alcuni è un totem da abbattere e per altri, molti altri, è una conquista di civiltà di livello pari alla nostra Costituzione. Una legge investita a ondate ricorrenti da accese polemiche, che viene difesa nelle manifestazioni di piazza e criticata nei convegni politici; una legge della quale si postula l’inadeguatezza rispetto al mercato del lavoro di oggi e che però continua a funzionare egregiamente nelle aule dei tribunali e nelle cause di lavoro. E che soprattutto con la sua architettura complessa è stata capace – come ha scritto un altro dei maestri che ha guidato fin quasi a ieri il cammino del diritto del lavoro del nostro paese, Giorgio Ghezzi – di armonizzare “sotto l’impulso innovatore di Giacomo Brodolini e di Gino Giugni” in modo coerente differenti ispirazioni, da quella di permettere al lavoratore l’esercizio dei diritti consacrati dalla carta costituzionale all’altra di assicurare al sindacato la piena cittadinanza all’interno delle fabbriche.

Rassegna Gino Giugni, il principale collaboratore del ministro Brodolini nei mesi in cui lo Statuto da ancora generica proposta – fu Di Vittorio a parlarne per primo nel 1952 – diventò testo di legge, ha raccontato che esso nasce dalla suggestione del New Deal, da cui trasse l’esempio di una legislazione di sostegno che permettesse al sindacato di esercitare con efficacia la sua funzione nei luoghi di lavoro. Lei aggiunge che, alla base dello Statuto accanto al New Deal c’è anche la cultura costituzionalista di Weimar.

Romagnoli La repubblica di Weimar è stata la prima democrazia costituzionale post liberale del Novecento, una democrazia contrattata, a vocazione corporativa, in cui la società è organizzata in corpi intermedi che dialogano tra di loro e con lo Stato, considerandosi parte dello Stato. Il diritto del lavoro nasce qui, dove si affermano per la prima volta i diritti della persona da far valere non solo nei rapporti tra cittadini e Stato ma anche nei rapporti interprivati tra cittadini. L’eco di Weimar, della sua opzione politica chiaramente socialdemocratica, io l’ho sentita proprio negli anni dello Statuto, con l’affermazione dell’universalità dei diritti della persona, a cominciare dai diritti del lavoro. L’ispirazione dello Statuto è più mitteleuropea che di origine americana, newdealista. Anche perché da noi sono mancati tutti i presupposti del New Deal, a cominciare da una coscienza democratica diffusa nel paese. Ricordo sempre una frase pronunciata da Donat Cattin, che fu ministro del Lavoro dopo la morte di Brodolini, “O firmiamo subito il contratto – disse – o arrivano i colonnelli…”

Rassegna Era l’autunno del 1969 e i contratto era quello dei metalmeccanici.

Romagnoli Sì, ma significava che il paese era sotto il ricatto della destra, sono gli anni della strategia della tensione, e da quel ricatto non siamo riusciti mai a liberarci. Lo Statuto venne approvato, ma il capitalismo industriale cominciò da quel momento a cambiare pelle, con le esternalizzazioni, il decentramento produttivo; le imprese si alleggeriscono e lo Statuto, che aveva come modello di riferimento la grande impresa fordista, verticalizzata, viene svuotato progressivamente da questo processo.

Rassegna C’è comunque anche un dato storico e politico da considerare. Lei stesso ricorda, in un suo saggio recente su Il Mulino, che il punto di vista del lavoro dipendente ha avuto il suo momento di massima forza quando è stata sovrabbondante la sua rappresentanza, una rappresentanza bicefala: sociale e politica.

Romagnoli Sì, una rappresentanza bicefala, cioè con una struttura binaria dove sindacato e partito politico di riferimento avevano lo stesso background e quindi erano canali di rappresentanza di un vasto agglomerato omogeneo. Oggi il lavoro dipendente è passato da una sovrarappresentanza a una sottorappresentanza; gli è restato solo il canale sindacale, per giunta diviso. Ma lo Statuto, comunque, pur essendo presente nelle rivendicazioni del movimento sindacale e nell’agenda dei governi di centrosinistra non sarebbe stato varato dal Parlamento senza l’esplosione di un indistinto protagonismo collettivo di massa da cui lo stesso sindacato fu spiazzato. Solo un po’ dopo riuscì a cavalcare la tigre della protesta, anche grazie allo Statuto che, com’è documentabile sul piano storiografico, è frutto di uno scambio politico: tra un governo che aveva bisogno di sostegno e consenso popolare e il sindacato che era sufficientemente forte per controllare le spinte conflittuali. Questa è la prima legge sindacale negoziata che l’Italia abbia avuto, molto prima della concertazione.

Rassegna Vuole sostenere che il vero beneficiario dello Statuto è stato il sindacato, in quanto organizzazione? Fu anche questa una polemica del tempo.

Romagnoli Molte delle norme di cui si compone lo Statuto erano mutuate dalla contrattazione aziendale, da una linea che si stava affermando nelle grandi fabbriche del Nord per accelerare la fine del ciclo conflittuale: le bacheche, il diritto di affissione, il referendum nei luoghi di lavoro, i locali a disposizione dei dirigenti sindacali di base per l’espletamento del loro mandato. La legge viene costruita attraverso le lotte sindacali e ratifica, facendole diventare patrimonio dell’intero movimento, tutta una serie di conquiste che erano settoriali e locali. Gli operai furono i protagonisti e i sindacati furono i maggiori beneficiari, quelli che incassarono le cedole più significative di questa operazione politica. Non c’è dubbio che il sindacato si sia rafforzato anche con l’aiuto, certo non molto spontaneo, della controparte. Questo rafforzamento, però, non solo non è servito a evitargli la solitudine attuale, ma mi chiedo fino a che punto l’abbia indotto a utilizzare questi vantaggi in termini non imperialistici, per valorizzare l’individualità, la soggettività dell’iscritto. Il sindacato parla di democrazia sindacale ma non la pratica, basti pensare alla Uil, alla Cisl; si è affermato il primato dell’organizzazione – una grande organizzazione di potere – sulla dimensione individuale.

Rassegna Anche in quegli anni, dicevo prima, c’era chi avvertiva – continuo a pensare non troppo generosamente – che lo Statuto serviva troppo al sindacato e poco a quell’ingresso della Costituzione in fabbrica di cui parlavano i favorevoli; ma, in fondo, non fu quello il punto di equilibrio possibile?

Romagnoli Non c’è dubbio, la stessa ideologia contestataria dei gruppuscoli non ha giovato perché era facile respingere le loro obiezioni definendole settarie. Erano gli anni di gruppi che si raccoglievano attorno a Quaderni Rossi, Classe, Quaderni Piacentini, movimenti intellettuali che avevano ascolto presso il sindacato di base. Tutti questi movimenti non riescono a stabilire rapporti costruttivi con il gruppo dirigente del sindacato e dei partiti, e viceversa. E questo ha avuto un effetto molto grave, poiché ci si è privati di stimoli, si è evitato di approfondire le loro argomentazioni; noi abbiamo perso qualcosa a chiudere la porta in faccia al movimento contestativo. E gli uomini che sarebbero potuti essere più attenti al dialogo, come Vittorio Foa, non erano allora molto ascoltati; sarebbero stati valorizzati solo successivamente, quando era tardi e il salto di qualità non era più possibile.

Rassegna Lei ha citato un nome, per quello che avrebbe potuto dare e non gli è stato possibile. Ma se lei dovesse citare non tanto altri nomi ma i contributi che alcune personalità hanno apportato ai contenuti della legge, a chi penserebbe? Si dice, per esempio, che tanto si debba, oltre che a Brodolini, a Donat Cattin, soprattutto per alcune accentuazioni più radicali del testo, come l’articolo 18.

Romagnoli No, Donat Cattin con l’articolo 18 non c’entra; semmai c’entra molto Gino Giugni, c’entra molto Federico Mancini che era stato uno dei maggiori studiosi dell’istituto del licenziamento. Per quel che riesco a ricordare, Donat Cattin ha lasciato una sua traccia più significativa nell’articolo 28, che fu importantissimo. Lo stesso Gino, qualche giorno dopo l’entrata in vigore dello Statuto, mi disse con un certo stupore “Ma hai letto sul giornale che un pretore ha fatto un decreto sulla base dell’articolo 28?”. Questa norma non appartiene al patrimonio del sapere di Gino, è più da sindacalista ed è efficacissima perché consente al sindacato di sostituirsi al singolo per reprimere un comportamento antisindacale, cioè plurioffensivo in quanto lede il diritto di un singolo e allo stesso tempo quello di un gruppo organizzato. Non ne sono certo, ma ci vedo lo zampino da sindacalista di Donat Cattin, perché canalizzare la sede giudiziaria attraverso il sindacato è una vecchia aspirazione dei sindacalisti.

Rassegna In realtà, ciò che colpisce in tutte quelle vicende è il rapporto fecondo che si realizza tra politici e intellettuali, uno di quei rari momenti della storia in cui questo è avvenuto.

Romagnoli Sì, è fecondo anzi tutto perché gli interlocutori erano fondamentalmente persone di grande onestà intellettuale. C’è stata allora una favorevole congiunzione astrale, che ha consentito a persone così straordinarie di mettersi in contatto all’interno di un’ipotesi condivisa, di un progetto comune. Ci fu poi un sodalizio vero tra Brodolini e Giugni, quelli che io chiamerei il padre e lo zio dello Statuto. Brodolini fu uomo capace di gesti di grande forza simbolica, come il viaggio ad Avola dopo la repressione sanguinosa di una manifestazione di braccianti. Con Giugni è nato in Italia il moderno diritto del lavoro, la sua influenza ha orientato parecchie generazioni di studioso, a cominciare dalla mia. Per questo penso sempre con tristezza alla fine terribile che ha avuto, morendo giorno per giorno per dieci anni.

Rassegna Lei dice che il diritto del lavoro nasce con lo Statuto, che mette nelle mani dei giudici un nuovo strumento per riportare giustizia e parità nel rapporto di lavoro.

Romagnoli È così, mai come in quegli anni la magistratura ha svolto un ruolo propulsivo del diritto del lavoro, con proposte innovative, soluzioni ardite. I pretori d’assalto nascono in quel frangente, si trovano tra le mani un materiale incandescente, molto malleabile e con spazi interpretativi larghissimi. Basti pensare alla nozione di comportamento antisindacale. È un concetto generale, che aspetta di essere riempito di contenuti, ma i contenuti li mette il giudice. Quando il potere aziendale viene procedimentalizzato, non è più esercitabile in maniera unilaterale, senza regole, ma deve invece confrontarsi addirittura con rappresentanze del soggetto destinatario del potere imprenditoriale…beh!, questo è uno scenario che fa impazzire. Noi, per esempio, abbiamo una Costituzione che dice che lo sciopero è un diritto, ma che si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, che non c’erano e che, a eccezione del pubblico impiego, continuano a non esserci; ebbene arriva lo Statuto che dice che lo sciopero deve essere protetto, perché è tipico comportamento antisindacale ogni attività posta in essere dal datore di lavoro mirante ad intralciare l’esercizio del diritto di sciopero. È un capovolgimento, un’esplosione di libertà senza precedenti.

Rassegna Oggi il clima è molto meno esplosivo per quanto riguarda le libertà. Ed è evidente che questa situazione si sente anche nei rapporti di lavoro, nelle relazioni industriali, nell’attività del sindacato. In questo paese della disoccupazione, della precarietà dei giovani, degli accordi separati, dei tanti lavori, che cosa può dirci ancora lo Statuto, qual è il compito che può assegnarsi il sindacato?

Romagnoli Bisogna partire da alcune constatazioni. Primo, il lavoro è senza aggettivi, non c’è lavoro subordinato, autonomo parasubordinato, c’è il lavoro che è il passaporto della cittadinanza, come intende l’articolo 1 della Costituzione. Poi, il lavoro non deve essere solo l’oggetto di un contratto, ma il modo attraverso cui la cittadinanza esiste, ha una sua visibilità, reclama una presenza e uno spazio. Per cui se fino ad ora i sindacati hanno rappresentato e tutelato il cittadino come lavoratore, adesso devono imparare a rappresentarlo in quanto cittadino. Qualche anno fa fui sedotto, forse anche per il livello delle personalità che lo proponevano, dall’idea di superare lo Statuto dei lavoratori con lo Statuto dei lavori. Oggi non la penso più così, perché sarebbe un testo unico, una fotografia dell’esistente e il cambiamento non si attua con i testi unici, ma realizzando equilibri più avanzati.

Rassegna Sembra di risentire qualche eco delle vecchie discussioni, un ricordo di quelle torsioni polemiche che investirono lo Statuto, quaranta anni fa. È forse un altro segnale di una vitalità che non vuole spegnersi.

 

L’attualità di una legge

Articolo 18 ma non solo

Ripubblichiamo, come omaggio a un grande giurista e a una persona splendida, l’intervento che Giorgio Ghezzi scrisse per un fascicolo diffuso dalla Cgil alla vigilia della manifestazione del 23 marzo 2002

di Giorgio Ghezzi

 
 1. Il testo dello «Statuto dei diritti dei lavoratori» (legge 20 maggio 1970, n. 300) oggi vigente risulta dalle non poche, e talvolta significative, modifiche che sono state portate da leggi successive o da referendum popolari abrogativi. Vediamo più da vicino il significato che assumono le diverse norme di questo stesso Statuto, o almeno le più rilevanti tra di esse, nel quadro complessivo dell’ordinamento giuridico e del sistema costituzionale, politico e sindacale.

Confluiscono nello Statuto dei Lavoratori differenti ispirazioni, che lo Statuto stesso provvede ad armonizzare in modo coerente. Da un lato, ci si preoccupa di assicurare al lavoratore, considerato anche come singolo, l’esercizio effettivo dei diritti consacrati, talvolta anche con riguardo a tutti i cittadini, dalla Carta costituzionale. D’altro lato, ben consapevoli che la pura e semplice tutela legislativa può non essere sufficiente a garantire l’effettività dell’esercizio dei diritti, ci si premura di assecondare una piena cittadinanza del sindacato nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, promuovendo e sostenendo con puntuali disposizioni di legge almeno i più importanti tra gli strumenti di cui il sindacato medesimo può disporre.

Fondendo tra loro queste due direttrici di carattere politico, si perviene così, per un verso, a tradurre sul piano della concretezza dell’agire quotidiano i princìpi enunciati dalla Costituzione repubblicana (e dunque lo Statuto è una legge di attuazione costituzionale), mentre, per altro verso, li si rafforza e li si rende più realisticamente esigibili inserendo in modo pressoché sistematico la dimensione dei diritti dei singoli in quella dell’azione collettiva. Cosicché di questo Statuto dei lavoratori diviene possibile una lettura e un’interpretazione unitaria.
Questo profilo unitario e di carattere sistematico trova, d’altra parte, la sua radice in quegli stessi e fondamentali capisaldi che si rintracciano, ad esempio, sia nell’articolo 2 che nell’articolo 3 della Costituzione, là dove si afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», e che è compito della Repubblica medesima «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».

Ma vengono in rilievo, sempre a fondamento dell’ispirazione dalla quale muove lo Statuto dei lavoratori, anche altri princìpi costituzionali, quale quello che, dopo avere riconosciuto la libertà dell’iniziativa economica privata, afferma che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana» (art. 41).

Trovano in tal modo la loro radice più immediata, ad esempio, quelle norme dello Statuto dei lavoratori che garantiscono la libertà di opinione nei luoghi di lavoro (art. 1), limitando di conseguenza e circondando di garanzie l’uso delle guardie giurate, del personale di vigilanza, degli impianti audiovisivi di controllo a distanza, le visite personali di controllo e gli stessi accertamenti sanitari (articoli da 2 a 6); mentre, per parte sua, nell’articolo 8 il legislatore – memore delle pratiche poliziesche da tempo invalse anche in grandi fabbriche: le «schedature» e i «reparti confino» alla Fiat ecc. – vieta l’effettuazione di indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali, «nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore». I valori collegati alla professionalità sono, per parte loro, rivendicati e difesi dall’articolo 13 (oggi art. 2103 del codice civile).

Già trattando di questi istituti (specie in tema di esercizio dei poteri di controllo da parte dell’imprenditore mediante impianti audiovisivi o visite personali), ma anche a proposito dell’effettività del contraddittorio in tema di sanzioni disciplinari (art. 7) e della tutela della salute e dell’integrità fisica, che i lavoratori possono condurre mediante loro rappresentanze (art. 9), risalta, sia pure in modo non del tutto sistematico, la presenza del sindacato. Questa presenza viene però organicamente sistematizzata assumendo come perno dell’intera disciplina la garanzia, assicurata «a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro», di poter «costituire associazioni sindacali, aderirvi e svolgere attività sindacale» (art. 14).

Questo diritto, così fondamentalmente, ma anche genericamente garantito dalla norma ultima citata, viene poi ulteriormente specificato in quel notissimo articolo 19, che, scavando più a fondo nel medesimo terreno già dissodato dall’articolo 14, prevede, assai più in specifico, che in ogni unità produttiva possano essere costituite rappresentanze sindacali aziendali (Rsa), a iniziativa dei lavoratori, nell’ambito (oggi risultante dal referendum popolare dell’11 giugno 1995) delle associazioni sindacali «che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicabili nell’unità produttiva». Poco importa che, oggi, in seguito ai protocolli nazionali di intesa degli anni novanta, a queste Rsa (originariamente intese come terminali nelle aziende delle singole organizzazioni sindacali) si siano progressivamente affiancate, e in prospettiva si stiano quasi del tutto sostituendo, le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), intese quali organismi rappresentativi, e come tali elettivi, di tutti i lavoratori, compresi i non iscritti: ciò che conta davvero è il fatto che a questi organismi, nonché ai loro dirigenti o ai loro componenti, competano i più significativi tra i cosiddetti «diritti sindacali»: come l’assemblea (art. 20), il referendum (art. 21), il diritto di affissione e quello di godere di determinati locali (artt. 25 e 27); ovvero – per quel che riguarda i singoli sindacalisti che ne fanno parte – i permessi retribuiti e non retribuiti (artt. 23 e 24). Mentre altri permessi retribuiti vengono corrisposti ai dirigenti provinciali e nazionali delle organizzazioni sindacali (art. 30), e si sanciscono altresì specifiche aspettative per ogni lavoratore chiamato a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali o nazionali (artt. 31 e 32).

2. All’interno di questo quadro complessivo – che, come vedremo, è stato oggetto, negli anni, di notevoli specificazioni e ampliamenti – si collocano più specifiche previsioni, nelle quali convergono con notevole coerenza le direttrici politiche già segnalate (come dire: garanzia dei diritti individuali e libertà e poteri «collettivi»). Così, dicasi, ad esempio, del divieto di atti discriminatori posti in essere per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso (art. 15), o anche dei divieti di «sindacati di comodo» (sostenuti in qualunque modo dai datori di lavoro: art. 17) e dei trattamenti economici collettivi di maggior favore aventi quel medesimo carattere discriminatorio di cui ora si è parlato (art. 16). Dell’insieme di questi diritti si fanno carico, a ben vedere, due altre previsioni tra loro assai diverse – anche perché vertenti, rispettivamente, sul piano del diritto sostanziale e di quello processuale –, ma, nella sostanza, unificate da tratti finalistici non tra loro difformi: gli articoli 18 e 28. In essi non è difficile ravvisare l’architrave, o la chiave di volta, dell’intero edificio: ovvero, potremmo anche dire, le condizioni che rendono (o possono rendere) davvero credibile la stessa e complessiva enunciazione di diritti fino ad ora compiuta.

L’articolo 18, come sappiamo, integra e completa la disciplina già prevista dalla legge n. 604/1966, prevedendo che il giudice, quando rilevi l’inefficacia di un licenziamento ovvero ne dichiari la nullità oppure lo annulli perché intimato senza giusta causa o giustificato motivo, non si limiti a sancire un puro e semplice risarcimento dei danni in caso di mancata riassunzione, ma ordini al datore di lavoro – imprenditore o non imprenditore, e quando ricorrano le dimensioni aziendali indicate dalla legge – di «reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro». È ormai pressoché comune il riconoscimento che non si tratta, qui, soltanto di una più forte o più rigida difesa del posto di lavoro: non, ovviamente, che tale difesa acquisti minore importanza, ma è certo che l’uso dello strumento della reintegra (o anche solo la possibilità di tale uso) fa sì che il lavoratore riacquisti quella libertà di rivendicazione dei propri diritti – e di rivendicazione, se necessario, anche in giudizio –, che altrimenti, di fronte alla minaccia di un licenziamento, e quindi della perdita del posto di lavoro e con esso della perdita dell’unica fonte di reddito per sé e la propria famiglia, viene inesorabilmente meno.

«Il potere sul mio pane – ha scritto recentemente uno dei più illustri esponenti del pensiero politico liberale – è, ovviamente, un potere sulla mia volontà». D’altra parte, non è un caso che, là ove le dimensioni aziendali non consentano l’uso del potere di reintegra, gli stessi indici di sindacalizzazione crollino in modo verticale: dunque non sono soltanto le libertà individuali, ma è anche la libertà sindacale a essere minacciata da un’eventuale abrogazione (o sospensione che sia) della possibilità della reintegra.

Non può neppure pensarsi che una pratica abrogazione di questa così particolare sanzione che è la reintegra possa legittimamente riguardare, come si propone nelle ipotesi elencate nel disegno di legge delega governativo, soltanto determinate categorie di lavoratori: che, ad esempio, modificano le proprie condizioni di lavoro perché «passano» a tempo indeterminato, ovvero emergono dal «nero» o realizzano, mediante la loro assunzione, più ampie dimensioni dell’azienda. Infatti – anche a voler tacere di altre possibili obiezioni: ad esempio, dal «nero» già si esce, o si può uscire, mediante i cosiddetti contratti di riallineamento, e via dicendo – sarebbe per lo meno di dubbia costituzionalità un diseguale trattamento tra soggetti che si trovano in eguali condizioni di lavoro, e la cui differenziazione di tutela verrebbe a dipendere da eventi, magari non esclusivamente riferibili ai soggetti stessi, del tutto estranei ed estrinseci.

Peggio: secondo il rammentato disegno di legge delega, la cancellazione dell’istituto della reintegra diverrebbe, almeno potenzialmente, addirittura totale, quando sulla legittimità del licenziamento fosse chiamato a pronunciarsi un collegio arbitrale: collegio, per di più, che lo stesso testo governativo, riducendo a pura e astratta eventualità l’intervento dell’organizzazione sindacale, configura come fondamentalmente affidato, quanto alla sua costituzione e operatività, alla diretta volontà delle parti (e dunque, in pratica, alla volontà del più forte). La decisione degli arbitri dovrebbe poi essere resa secondo equità, e potrebbe venire impugnata soltanto per vizi procedimentali: non, dunque, anche per violazione di disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo. In tal modo – e in qualche maniera rifluendosi dallo specifico istituto del licenziamento individuale a quasi tutta la disciplina del rapporto di lavoro – verrebbe in pratica annichilita la stessa nozione di indisponibilità dei diritti derivanti da norme inderogabili, e dunque l’inderogabilità stessa. Come dire: un superamento «all’indietro» di quasi tutto il diritto del lavoro, ricondotto a una matrice pressoché integralmente di tipo (più che liberale, addirittura e soltanto) liberista.

Ecco, quindi, le conseguenze devastanti su gran parte dell’ordinamento lavoristico che possono derivare dall’abrogazione (anche se mascherata come una temporanea sospensione) «solo» dell’istituto della reintegra. Istituto il cui rilievo non è, dunque, tanto misurabile in termini di applicazione quantitativa, quanto in termini di potere da un lato, e di libertà dall’altro. Di qui la sua centralità.

L’altra norma, che poco fa si qualificava come ulteriore chiave di volta dell’intero edificio dello Statuto, è il ricordato articolo 28: cioè la procedura per la repressione della condotta antisindacale, già tante volte sperimentata utilmente in giudizio di fronte a comportamenti «diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero».

3. Quanto abbiamo fin qui esposto non significa, ovviamente, che lo Statuto dei lavoratori possa qualificarsi come un blocco di norme non suscettibile di modifiche, integrazioni di vario tipo o di sue espansioni. La storia ci insegna, infatti, il contrario. Sono state abrogate (o comunque superate) dalla legislazione successiva, per esempio, le norme contenute originariamente nel Titolo V in tema di collocamento.

Così, la stessa tutela antidiscriminatoria, originariamente limitata a determinate «causali» di natura esclusivamente sindacale, è stata estesa, come già abbiamo detto, agli atti di rappresaglia diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso (e in tale direzione ulteriori sviluppi sono stati realizzati dalle leggi 903/1977 e 125/1991, e da ultimo, con la legge 135/1990 per la prevenzione e la lotta contro l’Aids). Mentre, per altro verso, l’intero Statuto dei lavoratori è stato reso applicabile, con la «privatizzazione» di settori importanti del pubblico impiego, «alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti» (art. 55 del dlgs 29/1993).

Neppure potremmo astrarci, nell’esame del testo di cui parliamo, dall’evoluzione del più complessivo sistema delle relazioni industriali: già lo si è visto, infatti, in tema di progressiva attribuzione alle Rsu dei diritti, delle prerogative e delle tutele già attribuite alle Rsa. Va poi considerato, sempre a proposito del valore intrinseco e delle capacità espansive dei princìpi contenuti nello Statuto, l’accoglimento di molti di questi princìpi nello stesso testo della cosiddetta Carta di Nizza: dagli articolatissimi divieti di discriminazione, ai diritti dei lavoratori all’informazione e alla consultazione, fino al diritto di negoziazione e di azioni collettive: con particolare riguardo al diritto alla «tutela contro ogni licenziamento ingiustificato». Altro che, dunque, quel presunto «isolamento» internazionale (o europeo) dei princìpi sui quali si fonda il nostro Statuto dei lavoratori, di cui altri va parlando o scrivendo a ogni pie’ sospinto!

Ma possono, e forse debbono, configurarsi anche altre possibili modificazioni. Maggiori flessibilità – da intendersi in direzione bilaterale, e dunque non nell’interesse della sola impresa, ma anche degli stessi lavoratori – possono pensarsi a proposito della variabilità delle mansioni, indotta anche dall’uso delle più moderne tecnologie. Da questo punto di vista, verrebbe in discussione l’attuale articolo 13 dello Statuto (trasfuso, come si è visto, nell’articolo 2103 del codice civile). Maggiore importanza, però, dovrebbe venire attribuita al perfezionamento dello stesso profilo «collettivo», ovvero del sostegno della presenza e dell’attività sindacale.

Lo Statuto non si occupa in alcun modo, infatti (proprio perché commisurato, nel 1970, a una situazione assai lontana dalle crisi di rappresentatività che hanno invece caratterizzato gli anni novanta), dell’effettiva democraticità dei rapporti tra rappresentanti e rappresentati (come dire: dei rapporti tra organizzazione sindacale e lavoratori). Tema oggi risolto dalla legge per il settore pubblico «privatizzato» (il già rammentato dlgs 29/1993 con le successive modificazioni), ma non ancora – e malgrado se ne avverta ogni giorno di più la necessità, specie di fronte alla minaccia e (purtroppo) alla realizzazione di accordi separati – per quello privato.
Quanto, infine, al profilo degli stessi diritti dei singoli, è proprio la fioritura di nuove figure contrattuali improntate ad esigenze (quando siano genuine) di maggiore autonomia, che induce la necessità di meglio definirle e di estendere a codeste figure gradi variabili di tutele, incardinate comunque sul carattere universale di quelle che sono da ritenersi davvero fondamentali