Archivi giornalieri: 5 settembre 2018

La storia ufficiale? Una storia ideologica. E agiografica

La storia ufficiale? Una storia ideologica. E agiografica

1 settembre 2018

[Francesco Casula]

La storia ufficiale – quella propinataci dai testi scolastici ma anche dai Media – segnatamente quella del cosiddetto “Risorgimento” e dell’Unità d’Italia, è una storia sostanzialmente “ideologica”. Anzi: teologica.

Mi ricorda quella raccontata da Tito Livio nella sua monumentale opera in 50 volumi, intitolata Ab urbe condita. Lo storico latino, è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di storia sacra, quella di un popolo eletto dagli dei.

Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana ha rifulso nei suoi protagonisti che assurgono, naturalmente, ad “eroi”.

Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel Proemio, dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti. E dunque questi devono assoggettarsi con buona disposizione al suo dominio.

Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste).

Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente Dei, da sempre.

Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”.

Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci.

Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas. Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011 :”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”.

Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica.

Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi.

Ad iniziare dai tiranni sabaudi, da Carlo Felice, per esempio, che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso.Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione (Raimondo Carta_Raspi).

Per continuare con Carlo Alberto, che pomposamente in molti libri scolastici viene ancora definito “re liberale”.

Eccolo il suo liberalismo: nel 1833 ordina personalmente che venga condannato a morte il giovane sardo Efisio Tola. Il reato? Semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini Fra gli altri lo ricorda e lo scrive Piero Calamandrei (su Il Ponte, 1950, pagina 1050).

Ma nel 1848 promulgò lo “Statuto”. Sì: ma le norme costituzionali rimasero carta straccia. In realtà lo stato d’assedio divenne sistema di governo. In Sardegna ne furono proclamati due con Alberto la Marmora (1849) e con il generale Durando (1852). Nel Meridione ben otto, dopo l’Unità.

Umberto I continua ad essere osannato, non solo nei testi scolastici, addirittura come “re buono”. Ecco un fulgido esempio della sua “bontà”: premiò il generale Bava Beccaris, insignendolo della massima onorificenza, ovvero della croce dell’Ordine militare dei savoia e nominandolo senatore, per aver compiuto un’impresa portentosa: aver dato l’ordine alle truppe di sparare sulla folla inerme a Milano, nel 1898, uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400 .

Ultimo re sabaudo fu Sciaboletta: che si macchiò di almeno cinque infamie: due “colpi di stato”: con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo; le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fuga ingloriosa a Brindisi dopo l’armistizio.

Per non parlare di due protagonisti assoluti nell’agiografia patriottarda del Risorgimento italico: Cavour e Garibaldi.

Unanimemente il Conte ci viene ancora “raccontato” come lo statista. Per antonomasia. E se la verità fosse invece quella espressa in una composizione poetica popolare sarda, scritta dopo il 1850, sul metro dei Gògius?

Eccola: “Furioso come un leone/senza alcun riguardo,/con la pelle dei Sardi/sta giocando il mascalzone/Con una faccia da cinghiale/è feroce come lui” (A riportare il testo è Giulio Mameli, in Bentu Estu , Grafica del Parteolla, 2013).

E Garibaldi? A parte il suo supposto ruolo di venditore di schiavi in America latina, possiamo dimenticare che andò in Sicilia, emanò i Decreti per la distribuzione delle terre ai contadini (il 17 Maggio e il 2 Giugno 1860) e il suo braccio destro Bixio fece trucidare chi quelle terre aveva occupato, prestando fede all’Eroe?

Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borbone ai Piemontesi. Altro che liberazione!

Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola:contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

Con buona pace di chi ancora crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’Unità d’Italia.

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[Francesco Casula]

La storia ufficiale – quella propinataci dai testi scolastici ma anche dai Media – segnatamente quella del cosiddetto “Risorgimento” e dell’Unità d’Italia, è una storia sostanzialmente “ideologica”. Anzi: teologica.

Mi ricorda quella raccontata da Tito Livio nella sua monumentale opera in 50 volumi, intitolata Ab urbe condita. Lo storico latino, è persuaso che quella di Roma fosse una storia provvidenziale, una specie di storia sacra, quella di un popolo eletto dagli dei.

Deriva da questa convinzione la più attenta cura a far risaltare tutti gli atti e tutte le circostanze in cui la virtus romana ha rifulso nei suoi protagonisti che assurgono, naturalmente, ad “eroi”.

Tutto ciò è chiaramente adombrato anche nel Proemio, dove si insiste sul carattere tutto speciale del dominio romano, provvidenziale e benefico anche per i popoli soggetti. E dunque questi devono assoggettarsi con buona disposizione al suo dominio.

Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste).

Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente Dei, da sempre.

Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”.

Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci.

Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas. Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011 :”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva.

Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”.

Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica.

Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi.

Ad iniziare dai tiranni sabaudi, da Carlo Felice, per esempio, che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso.Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione (Raimondo Carta_Raspi).

Per continuare con Carlo Alberto, che pomposamente in molti libri scolastici viene ancora definito “re liberale”.

Eccolo il suo liberalismo: nel 1833 ordina personalmente che venga condannato a morte il giovane sardo Efisio Tola. Il reato? Semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini Fra gli altri lo ricorda e lo scrive Piero Calamandrei (su Il Ponte, 1950, pagina 1050).

Ma nel 1848 promulgò lo “Statuto”. Sì: ma le norme costituzionali rimasero carta straccia. In realtà lo stato d’assedio divenne sistema di governo. In Sardegna ne furono proclamati due con Alberto la Marmora (1849) e con il generale Durando (1852). Nel Meridione ben otto, dopo l’Unità.

Umberto I continua ad essere osannato, non solo nei testi scolastici, addirittura come “re buono”. Ecco un fulgido esempio della sua “bontà”: premiò il generale Bava Beccaris, insignendolo della massima onorificenza, ovvero della croce dell’Ordine militare dei savoia e nominandolo senatore, per aver compiuto un’impresa portentosa: aver dato l’ordine alle truppe di sparare sulla folla inerme a Milano, nel 1898, uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400 .

Ultimo re sabaudo fu Sciaboletta: che si macchiò di almeno cinque infamie: due “colpi di stato”: con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo; le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fuga ingloriosa a Brindisi dopo l’armistizio.

Per non parlare di due protagonisti assoluti nell’agiografia patriottarda del Risorgimento italico: Cavour e Garibaldi.

Unanimemente il Conte ci viene ancora “raccontato” come lo statista. Per antonomasia. E se la verità fosse invece quella espressa in una composizione poetica popolare sarda, scritta dopo il 1850, sul metro dei Gògius?

Eccola: “Furioso come un leone/senza alcun riguardo,/con la pelle dei Sardi/sta giocando il mascalzone/Con una faccia da cinghiale/è feroce come lui” (A riportare il testo è Giulio Mameli, in Bentu Estu , Grafica del Parteolla, 2013).

E Garibaldi? A parte il suo supposto ruolo di venditore di schiavi in America latina, possiamo dimenticare che andò in Sicilia, emanò i Decreti per la distribuzione delle terre ai contadini (il 17 Maggio e il 2 Giugno 1860) e il suo braccio destro Bixio fece trucidare chi quelle terre aveva occupato, prestando fede all’Eroe?

Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borbone ai Piemontesi. Altro che liberazione!

Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola:contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

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E dunque questi devono assoggettarsi con buona disposizione al suo dominio. Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste). Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente Dei, da sempre. Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”. Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas. Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011 :”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”. Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica. Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi. Ad iniziare dai tiranni sabaudi, da Carlo Felice, per esempio, che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso.Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione (Raimondo Carta_Raspi). Per continuare con Carlo Alberto, che pomposamente in molti libri scolastici viene ancora definito “re liberale”. Eccolo il suo liberalismo: nel 1833 ordina personalmente che venga condannato a morte il giovane sardo Efisio Tola. Il reato? Semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini Fra gli altri lo ricorda e lo scrive Piero Calamandrei (su Il Ponte, 1950, pagina 1050). Ma nel 1848 promulgò lo “Statuto”. Sì: ma le norme costituzionali rimasero carta straccia. In realtà lo stato d’assedio divenne sistema di governo. In Sardegna ne furono proclamati due con Alberto la Marmora (1849) e con il generale Durando (1852). Nel Meridione ben otto, dopo l’Unità. Umberto I continua ad essere osannato, non solo nei testi scolastici, addirittura come “re buono”. Ecco un fulgido esempio della sua “bontà”: premiò il generale Bava Beccaris, insignendolo della massima onorificenza, ovvero della croce dell’Ordine militare dei savoia e nominandolo senatore, per aver compiuto un’impresa portentosa: aver dato l’ordine alle truppe di sparare sulla folla inerme a Milano, nel 1898, uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400 . Ultimo re sabaudo fu Sciaboletta: che si macchiò di almeno cinque infamie: due “colpi di stato”: con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo; le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fuga ingloriosa a Brindisi dopo l’armistizio. Per non parlare di due protagonisti assoluti nell’agiografia patriottarda del Risorgimento italico: Cavour e Garibaldi. Unanimemente il Conte ci viene ancora “raccontato” come lo statista. Per antonomasia. E se la verità fosse invece quella espressa in una composizione poetica popolare sarda, scritta dopo il 1850, sul metro dei Gògius? Eccola: “Furioso come un leone/senza alcun riguardo,/con la pelle dei Sardi/sta giocando il mascalzone/Con una faccia da cinghiale/è feroce come lui” (A riportare il testo è Giulio Mameli, in Bentu Estu , Grafica del Parteolla, 2013). E Garibaldi? A parte il suo supposto ruolo di venditore di schiavi in America latina, possiamo dimenticare che andò in Sicilia, emanò i Decreti per la distribuzione delle terre ai contadini (il 17 Maggio e il 2 Giugno 1860) e il suo braccio destro Bixio fece trucidare chi quelle terre aveva occupato, prestando fede all’Eroe? Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borbone ai Piemontesi. Altro che liberazione! Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola:contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria. Con buona pace di chi ancora crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’Unità d’Italia. 181 3 Questo articolo è stato pubblicato sabato, 1 settembre 2018 alle 09:03 e classificato in Interventi e Opinioni. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi inviare un commento, o fare un trackback dal tuo sito. Scrivi un commento Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute. Non sono ammessi commenti consecutivi. 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Roma infatti, che ha come progenitore Marte e come fondatore Romolo, ha come destino quello di: regere imperio populos e di parcere subiectis et debellare superbos. (Perdonare chi si sottomette ma distruggere, sterminare chi resiste). Mutatis mutandis, la storia “risorgimentale” ci viene raccontata con gli stessi parametri, storici e storiografici liviani: anche l’Unità d’Italia, sia pure in una versione laica, è “sacra”, in quanto un diritto inalienabile della “nazione italiana”, in qualche modo in mente Dei, da sempre. Ricordo a questo proposito Benigni quando il 17 febbraio del 2011, a San Remo, sul “palco dell’Ariston”, irrompe negli studi televisivi, su un cavallo bianco. Per impartirci, commentando l’Inno “Fratelli d’Italia”, una incredibile lezione di storia ideologica. Facendo risalire la “Nazione Italiana” addirittura a Dante. Una vera e propria falsificazione storica: il poeta fiorentino infatti combatteva le particolarità territoriali e “nazionali” e sosteneva con forza l’impero che lui chiamava “Monarchia universale”. Ma nella sua esegesi dell’Inno il comico fiorentino si spinge oltre nella falsificazione storica: la “nazione” italiana deriverebbe non solo dagli Scipioni e da Dante ma persino dai combattenti della Lega lombarda, dai Vespri siciliani, da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas. Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su Il Manifesto de 26 febbraio 2011 :”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”. Ma tant’è: la “versione” di Benigni allora commosse il pubblico televisivo italiano e ancora oggi viene circuitata e spacciata come verità storica. Con relativo contorno di eroi e di protagonisti risorgimentali che, per rimanere in casa nostra, campeggiano ancora nelle Vie e Piazze sarde. Ignominiosamente. Perché si tratta di quelli stessi personaggi che hanno sfruttato e represso in modo brutale i Sardi. Ad iniziare dai tiranni sabaudi, da Carlo Felice, per esempio, che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso.Più ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione (Raimondo Carta_Raspi). Per continuare con Carlo Alberto, che pomposamente in molti libri scolastici viene ancora definito “re liberale”. Eccolo il suo liberalismo: nel 1833 ordina personalmente che venga condannato a morte il giovane sardo Efisio Tola. Il reato? Semplicemente per aver letto la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini Fra gli altri lo ricorda e lo scrive Piero Calamandrei (su Il Ponte, 1950, pagina 1050). Ma nel 1848 promulgò lo “Statuto”. Sì: ma le norme costituzionali rimasero carta straccia. In realtà lo stato d’assedio divenne sistema di governo. In Sardegna ne furono proclamati due con Alberto la Marmora (1849) e con il generale Durando (1852). Nel Meridione ben otto, dopo l’Unità. Umberto I continua ad essere osannato, non solo nei testi scolastici, addirittura come “re buono”. Ecco un fulgido esempio della sua “bontà”: premiò il generale Bava Beccaris, insignendolo della massima onorificenza, ovvero della croce dell’Ordine militare dei savoia e nominandolo senatore, per aver compiuto un’impresa portentosa: aver dato l’ordine alle truppe di sparare sulla folla inerme a Milano, nel 1898, uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400 . Ultimo re sabaudo fu Sciaboletta: che si macchiò di almeno cinque infamie: due “colpi di stato”: con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo; le leggi razziali, la seconda guerra mondiale, la fuga ingloriosa a Brindisi dopo l’armistizio. Per non parlare di due protagonisti assoluti nell’agiografia patriottarda del Risorgimento italico: Cavour e Garibaldi. Unanimemente il Conte ci viene ancora “raccontato” come lo statista. Per antonomasia. E se la verità fosse invece quella espressa in una composizione poetica popolare sarda, scritta dopo il 1850, sul metro dei Gògius? Eccola: “Furioso come un leone/senza alcun riguardo,/con la pelle dei Sardi/sta giocando il mascalzone/Con una faccia da cinghiale/è feroce come lui” (A riportare il testo è Giulio Mameli, in Bentu Estu , Grafica del Parteolla, 2013). E Garibaldi? A parte il suo supposto ruolo di venditore di schiavi in America latina, possiamo dimenticare che andò in Sicilia, emanò i Decreti per la distribuzione delle terre ai contadini (il 17 Maggio e il 2 Giugno 1860) e il suo braccio destro Bixio fece trucidare chi quelle terre aveva occupato, prestando fede all’Eroe? Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borbone ai Piemontesi. Altro che liberazione! Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola:contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud; contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria. Con buona pace di chi ancora crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’Unità d’Italia. 181 3 Questo articolo è stato pubblicato sabato, 1 settembre 2018 alle 09:03 e classificato in Interventi e Opinioni. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi inviare un commento, o fare un trackback dal tuo sito. Scrivi un commento Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute. Non sono ammessi commenti consecutivi. 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Leggi razziali

5 settembre 1938: il re firma a San Rossore le leggi razziali, inizia il calvario degli ebrei

Vittorio Emanuele III, nel suo “buen ritiro” estivo di Pisa, non ha la forza di opporsi alla persecuzione decisa da Mussolini. Primo effetto: cacciati dalle scuole. Licenziati in tronco i dipendenti pubblici, impedito l’accesso alle professioni. I provvedimenti antisemiti si susseguirono per anni

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PISA. Accuratamente preparata da una martellante campagna di stampa, nell’estate-autunno del 1938 il regime fascista inaugurò la sua sciagurata politica di persecuzione degli ebrei. Nell’alleata Germania, i provvedimenti antisemiti erano in vigore da anni e, per suggellare la vicinanza a Hitler, il duce aveva bisogno di colmare la lacuna. Bisognava che anche in Italia ci fossero delle norme per discriminare quella che ormai era stata bollata come “la razza ebraica”. Una razza nemica. Recitava lo strampalato “Manifesto degli scienziati razzisti”, pubblicato a metà luglio del ’38 sui giornali: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana… Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani». Il segnale era chiaro.

Mussolini e Vittorio Emanuele III

Mussolini e Vittorio Emanuele III
 

LE PASSEGGIATE DEL SOVRANOLe prime leggi razziali furono firmate dal re Vittorio Emanuele III il 5 settembre 1938 nel suo buen ritiro estivo della tenuta di San Rossore, dove la famiglia reale ogni anno passava il congruo periodo di vacanza che andava da inizio giugno ai primi di novembre. Dopo la canonica passeggiata sulla battigia di quell’autentico paradiso terrestre, con i calzoni rimboccati per non bagnarli, e prima del pranzo con l’immancabile scaglietta di grana a fine pasto, Vittorio Emanuele sbrigò dunque il delicato affare di Stato, assecondando la volontà di Mussolini. Firmò l’espulsione degli insegnanti e degli studenti ebrei da scuole e atenei. Agli universitari, come concessione, fu consentito di portare a termine gli studi. Nello stesso funesto 5 settembre, il re autografò un altro decreto con cui il regime creava organismi ad hoc per attuare la politica razziale. 

ERA SOLO L’INIZIO…

Due giorni dopo, 7 settembre, una nuova firma: stavolta ad essere presi di mirafurono gli ebrei stranieri, costretti a lasciare tutti i territori del Regno. Era solo l’inizio, purtroppo. La legislazione antiebraica continuò in un autentico crescendo rossiniano. Il 6 ottobre la materia fu portata all’attenzione del Gran Consiglio del fascismo che, anche in seguito alla conquista dell’Impero, affermò solennemente «l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale». Il 17 novembre il calvario degli ebrei conobbe un’altra data della vergogna. Fu approvato il testo fondamentale della discriminazione, con il quale si dava la definizione giuridica di ebreo, si proibivano i matrimoni misti e si licenziavano in tronco i dipendenti ebrei dai posti pubblici (amministrazioni civili e militari dello Stato, Province, Comuni, aziende municipalizzate ed enti vari).

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L’infame stillicidio continuò nel 1939 con un decreto sulle limitazioni alla capacità patrimoniale degli ebrei e un altro che disciplinò l’esercizio delle professioni. O meglio: agli ebrei fu impedito di fatto l’accesso a un lungo elenco di attività, come medico, giornalista, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, ragioniere, notaio, architetto, chimico, agronomo, perito agrario o industriale.

Leggi circostanziate, puntigliose, inesorabili nel colpire gli obiettivi, che non si fermarono mai fino a quando il fascismo fu al potere. Le ultime disposizioni draconiane vennero prese dalla Repubblica sociale, quando gli ebrei furono oggetto di una colossale rapina di ogni loro bene.

Restava loro soltanto la vita, ed anche quella era costantemente minacciata, molte volte tolta, comunque sempre esposta al capriccio dei gerarchi fascisti o degli occupanti nazisti. Le aberranti vicende dei rastrellamenti, dei campi di concentramento e dei campi di sterminio sono note. E le disposizioni vennero applicate con rigore dai solerti funzionari statali, anche se poi, soprattutto quando la furia nazifascista si abbattè sugli ebrei in tutta la sua violenza, ci furono numerosi episodi in cui la popolazione manifestò concretamente la sua solidarietà nei confronti dei perseguitati.

Una scritta per segnalare un negozio...

Una scritta per segnalare un negozio di ebrei

LE BUGIE DELLA PROPAGANDA

La propaganda fascista, per giustificare discriminazione e persecuzione, presentò gli ebrei come una spaventosa piovra che stendeva i suoi tentacoli mortali sui gangli vitali della società nazionale. In realtà nel 1938 gli ebrei in Italia erano una sparuta minoranza, circa cinquantamila persone, poco più di unmillesimo della popolazione. Inoltre erano integrati e assimilati, e gli italiani, con l’eccezione di una piccola lobby che aveva fatto dell’odio contro i giudei una ragione di vita, non erano antisemiti.

Senza contare che non mancavano gli ebrei fascisti: in 230 avevano partecipato alla marcia su Roma, e nel 1922 circa 750 erano iscritti al partito di Mussolini. E ancora: lo stesso duce, come sottolinea Renzo De Felice nella sua “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, non aveva particolari prevenzioni nei confronti degli ebrei. Ancora nel 1934, dileggiando la politica razziale di Hitler in Germania, ebbe modo di dichiarare che «trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltre Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto».

I MOTIVI DELLA TRAGEDIA

Allora perché la scelta della persecuzione, che la stragrande maggioranza degli italiani non comprese fino in fondo? Come maturò questa decisione nella mente del capo del fascismo? Cosa pensava di guadagnarci? L’elemento principale che mosse il duce fu la necessità di eliminare il più evidente contrasto nella politica dell’Italia e della Germania, ormai sempre più vicine e decise a intrecciare i rispettivi destini. Il razzismo e l’antisemitismo di Stato avevano un peso preponderante per la Germania nazista, e l’Italia ben difficilmente avrebbe potuto mancare di adeguarsi, pena la ridotta credibilità dell’alleanza. E così anche per gli ebrei italiani si spalancò il baratro.

Tra l’altro le comunità ebraiche, in linea di massima, furono colte di sorpresa dal precipitare della situazione. Mai avrebbero creduto, nonostante le numerose avvisaglie, che anche in Italia si sarebbe arrivati a misure così gravi contro di loro. Quando fu chiaro quello che stava accadendo, chi poté lasciò il Paese. Chi rimase, trascorse anni durissimi. E tanti non ce la fecero.