Archivi giornalieri: 26 novembre 2017

Marianna Bussalai

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Marianna Bussalai, sardista e femminista ante litteram, antifascista e poetessa, amica di Lussu, è l’oranese di cui parlerò giovedì prossimo 30 novembre a Flunimi di Quartu, nella scuiola elementare di Via Ligure,3. Organizza l’Associazione culturale ITA MI CONTAS.

  1. la vita

Marianna Bussalai, “Signorina Mariannedda de sos Battor Moros”, così veniva chiamata dagli oranesi, è i una straordinaria figura di femminista, di sardista e di antifascista. Una poetessa, traduttrice e intellettuale di valore, morta nel 1947, a soli 43 anni. Frequenta solo fino alla quarta elementare, poi abbandona a causa di una malattia che non le permette di potersi recare a Nuoro per proseguire gli studi. Autodidatta – legge gli autori sardi (Sebastiano Satta, Montanaru, – con cui ha un fitto carteggio epistolare – e Giovanni Maria Angioy, di cui vanta una remota ascendenza), gli italiani (Dante, Manzoni, Monti, Pindemonte) ma anche i russi. Di Montanaru traduce le poesie in italiano. Di Dante avrebbe voluto tradurre la Divina Commedia in Limba per poter dare al popolo sardo – scriveva – la possibilità di leggere e comprendere l’opera.

  1. Il sardismo di Bussalai

 “II mio sardismo – scriverà in una lettera all’avvocato Luigi Oggiano – è nato da prima che il Partito sardo sorgesse, cioè da quando, sui banchi delle scuole elementari, mi chiedevo umiliata perché nella storia d’Italia non si parlasse mai della Sardegna. Giunsi alla conclusione che la Sardegna non era Italia e doveva avere una storia a parte”.
Quello della Bussalai è dunque un Sardismo ante litteram, nasce inizialmente come sentimento o, più precisamente, come ri-sentimento contro uno Stato patrigno. Di qui la sua militanza nel Partito sardo d’azione e la sua “devozione” nei confronti di Lussu, che periodicamente le scriveva dall’esilio a Parigi.

  1. Le sue poesie

Famose sono rimaste quelle che mettono alla berlina i fascisti, ad iniziare dai ras locali. Il sardismo e l’antifascismo, cui dedicò tutta la sua vita, – ovvero l’amore smisurato per l’Autonomia e per la libertà – li vedeva incarnati meravigliosamente in Lussu, verso cui nutriva ammirazione e persino devozione. Marianna Bussalai infatti durante tutto il ventennio fascista diventa a Orani – ma non solo – punto di riferimento dell’antifascismo, la sua casa è il circolo antifascista, composto di ragazzi e ragazze, di uomini e donne.
Da parte mia ritengo che gli scritti più validi e, ancora oggi più che mai attuali, siano i suoi Mutos e Mutetus, in lingua sarda. Soprattutto quelli ironici e satirici con cui ridicolizzava i gerarchi e gli scherani del fascismo e Mussolini stesso (nel cui nome allungava il mussi-mussi, l’appellativo con cui si chiamano in Sardo i gatti e la cui espressione deriva dal latino mus (topo) e dunque a fronte di mussi-mussi il (gatto si avvicina).

Eccone alcuni:
“Farinacci est bragosu/ca l’ana saludau/sos fascistas de Orane/tene’ pius valentia/de su ras de Cremona/su Farinacci nostru.”

Ite bella Nugòro / tottu mudada a frores / in colore ‘e fiama. / Ite bella Nugòro / solu a tie est s’amore / ca ses sa sola mama / Sardigna de su coro/ Saludan’ sos sardistas / chin sa manu in su coro / de sas iras fascistas / si nde ride’ Nugòro.

  1. Le amiche e gli amici di Marianna Bussalai
    Aveva due grandi amiche e compagne di lotta: Mariangela Maccioni e Graziella Sechi-Giacobbe, che considera “dolci ed eroiche amiche”. La prima è maestra elementare e moglie di Raffaello Marchi (verrà sospesa dall’insegnamento perché ostile al Fascismo), la seconda ugualmente antifascista è moglie di Dino Giacobbe, il mitico combattente e comandante nella Guerra civile in Spagna contro Franco. Formano la cosiddetta triade sardista e antifascista.

Ma aveva anche molti amici:Lussu,Dino Giacobbe, i fratelli Melis, Oggiano, Mastino, Sebastiano Satta, Montanaru. Ma aveva amici, in modo particolare fra i giovani: per cui era un punto di riferimento intellettuale e culturale oltre che politico.

San Bellino di Padova

San Bellino di Padova


San Bellino di Padova

Nome: San Bellino di Padova
Titolo: Vescovo
Ricorrenza: 26 novembre

La data di nascita è ignota, l’ascendenza genealogica non del tutto sicura e di recente sottoposta a nuova indagine da A. Tilatti, che ha scartato la precedente attribuzione di Bellino alla famiglia dei Bertaldi, individuandone il padre in un non altrimenti identificato Audo. Prete almeno dal 1107, anno della sua prima menzione, Bellino è il primo tra i canonici destinatari di una donazione al capitolo della cattedrale di Padova nel 1108 e l’anno successivo riveste la carica di arciprete della stessa cattedrale. Fin dalla sua prima apparizione figura al fianco di Sinibaldo, il vescovo di orientamento filopapale contrapposto al candidato di obbedienza imperiale e costretto dalla violenza regia, cioè di Enrico V, ad abbandonare la sua sede.

Bellino seguì con tutta probabilità Sinibaldo nel suo esilio, ma nel 1115 risulta nuovamente a Padova, in una fase di componimento delle divisioni. Superato definitivamente lo scisma e ritornato Sinibaldo in sede, Bellino operò al vertice del capitolo cattedrale per essere poi eletto vescovo fra il 1126 e il 1128. La sua attività si svolse in continuità con quella del suo predecessore: Bellino confermò e in parte ampliò le concessioni di Sinibaldo al monastero veneziano di S. Cipriano, dipendente dall’abbazia di Polirone; si adoperò a favore di S. Croce di Campese, monastero assoggettato nel 1127 alla stessa abbazia di Polirone, alla quale nel 1124 Sinibaldo aveva sottoposto il monastero di Praglia; mantenne infine il legame affettuoso con la chiesa di S. Maria delle Carceri, che durante l’episcopato di Sinibaldo aveva adottato la vita comune e le istituzioni di S. Maria di Porto di Ravenna: Bellino beneficò la canonica, la sostenne presso il pontefice, invocandone la protezione, e come Sinibaldo fu annoverato tra i benefattori nel necrologio del monastero, ricordato quindi nelle preghiere della comunità.

I singoli interventi citati s’inserivano in un più ampio progetto di riordino della diocesi padovana sotto l’aspetto sia patrimoniale sia giurisdizionale, dopo le lotte e i disordini dei decenni precedenti. Alla povertà denunciata nel 1130 da Bellino («i beni del mio episcopato sono stati dilapidati per i contrasti fra Regnum e Sacerdotium») faceva eco Innocenzo II nel 1132, che si preoccupava di confermare al vescovo padovano tutte le chiese usurpate da laici e da monaci durante l’episcopato suo e del suo predecessore. Anche se non risulta un’opera parallela nei confronti dei monasteri, un preciso impegno di recupero di chiese e di porzioni di chiese private dalle mani di laici, in consonanza con i ripetuti canoni conciliari contemporanei, è attestato nel 1134 (diritti della famiglia da Montagnone sul monastero di S. Daniele), nel 1138 (cappella di Montegalda refutata dai nobili da Baone), nel 1146 (diritti dei signori da Caldonazzo sulla chiesa di Curtarolo). Tale azione si collegò alle vigili cure circa la tenuta delle strutture diocesane: gli atti di donazione previdero clausole a difesa sia dei diritti delle chiese parrocchiali sia dei diritti vescovili circa la consacrazione dei chierici e dell’olio santo, la presenza ai sinodi e la giustizia ecclesiastica. In data incerta Bellino intervenne in favore dei sacerdoti delle cappelle cittadine concedendo loro il quartese della città e del territorio, intervento che conforterebbe l’ipotesi secondo cui Bellino in qualche modo sostenne la nascita della «congregazione dei sacerdoti e dei chierici di Padova», l’associazione che riuniva il clero officiante le cappelle urbane, incaricato di nuovi compiti di cura d’anime.

Il favore per le istituzioni canonicali, la promozione di monasteri, canoniche e chiese, la vigilanza sulla stabilità delle gerarchie d’ufficio e di giurisdizione compongono l’immagine di un vescovo aperto alle nuove esperienze religiose, impegnato nell’attento governo della sua chiesa, interessato, anche a seguito delle vicende dello scisma, al corretto e disciplinato svolgimento della vita ecclesiastica: nella documentazione che lo riguarda, si parla di successori catholici, di funzioni parrocchiali da esercitare «secondo i canoni», di un’obbedienza, da parte dei suoi canonici, ecclesiastica e fidelis. Un vescovo ormai in stabile colloquio con la Sede apostolica e consapevole del ruolo di guida da essa assunto ed esercitato all’interno della cristianità, ad esempio attraverso la convocazione di sinodi generali, la cui eventualità era da Bellino esplicitamente contemplata. Non va però dimenticato il significato che l’episcopato di Bellino rivestì nella storia civile padovana: se, durante lo scisma, la compresenza e il contrasto fra due vescovi aveva visto emergere partiti che esprimevano orientamenti di politica soprattutto locale, con gli episcopati di Sinibaldo e di Bellino il dialogo con la società urbana e con le forze signorili del territorio si mantenne intenso, anche per la presenza giurisdizionale e patrimoniale che l’episcopato, seppur indebolito, conservava.

Bellino morì quasi certamente a Padova il 26 novembre del 1147, data ricostruibile attraverso il necrologio di S. Maria delle Carceri e dati documentari indiretti. Posteriore di più di un secolo è la vita di un san Bellino vescovo e martire attribuita al domenicano Bonagiunta, vescovo di Adria (12881304). Le vicende che portarono alla venerazione di un san Bellino nella diocesi di Adria non sono del tutto chiarite. Dall’esame condotto da A. Tilatti, le lezioni relative alla festa del santo risultano una mescolanza di elementi riconducibili a personaggi storici diversi e ricomposti in un disegno che rispecchia gli intenti dell’agiografo più che la realtà storica di Bellino. Secondo il testo agiografico, Bellino, già vescovo di una diocesi tedesca, fu nominato vescovo di Padova dal pontefice, preoccupato di sanare uno scisma apertosi nella sede vescovile a causa di indebite pressioni politiche. Zelatore e difensore delle libertà della sua chiesa, Bellino cadde ucciso nel ritorno da Roma, ove s’era recato per ottenere protezione e consiglio, nei pressi della chiesa di S. Giacomo di Fratta (in diocesi adriese). Sul luogo fiorirono subito i miracoli ma poi, in seguito a un’alluvione e al crollo della chiesa, il corpo santo fu sepolto dal fango e cadde nell’oblio. L’ invendo fu opera di un uomo pio che, guidato da un sogno, giunse sul luogo recuperando l’arca marmorea, la quale, posta su di un carro, fu prodigiosamente guidata alla pieve di S. Martino di Variano da cui S. Giacomo dipendeva.

Il testo attribuito a Bonagiunta, ripreso anche nel lezionario della cattedrale di Padova, razionalizza un culto che, pur non avendo quasi nulla a che vedere con il Bellino storico (cui furono certamente estranei l’assassinio e il martirio), si mantenne e anzi si potenziò allorché, nel 1489, Bellino fu elevato a patrono della diocesi di Adria, diocesi che con quella di Padova vide la diffusione del culto. Il modello proposto dal testo tardoduecentesco era quello del martire per la libertas Ecclesiae e per l’obbedienza alla Chiesa di Roma, modello funzionale all’azione che, come vescovo, Bonagiunta andava conducendo nella diocesi, e probabilmente ispirato da una «ben determinata congiuntura storicopolitica: la predominanza padovana nel Polesine» (di qui l’adozione e la proposta di un santo padovano le cui vicende avevano fortissime analogie con quelle del contemporaneo vescovo padovano, Bernardo). Nella devozione popolare la venerazione per Bellino si legò al suo potere taumaturgico nei casi di rabbia canina, una virtus già celebrata, secondo il testo agiografico, dal vescovo adriese Rolando ai primi del Duecento e invocata a lungo nei secoli, come risulta dai registri parrocchiali (all’a. 1727), da ex voto e da stampe popolari di fine Ottocento. La chiesa di S. Martino di Variano, che poi insieme con la località mutò il suo titolo in S. Bellino, fu precoce meta di pellegrinaggio, come confermano la recente ricognizione del contenuto dell’arca e le monete in essa rinvenute.

Storia del ritrovamento del corpo di San Bellino
:
Il Paese di San Bellino prende il suo importante no
me del religioso Bellino, il quale era di
nazionalità tedesca e nacque nell’anno 1090 nel Duc
ato di Mekelembock.
Cresciuto seguendo le virtù cristiane e morali, dur
ante la sua maturità si è reso noto per la sua
grande abilità nel condurre nella giusta strada le
anime degli uomini e proprio per questo fu
promosso alla carica di vescovo. La prima carta che
lo registra con il titolo vescovile risale al 6
dicembre 1128.
Al suo tempo, circa l’anno 1144, vigeva l’obbligo d
ei vescovi, dopo la loro promozione, di recarsi a
Roma dal vicario di Cristo Celestino o Lucio, anni
in cui il Clero di Padova dopo la morte del suo
Vescovo Sinibaldo, era discorde nell’elezione del s
uo successore.
Nel momento in cui Bellino sostenne l’udienza con i
l Papa quest’ultimo, venendo a conoscenza
delle virtù e dei meriti del Santo Uomo, dispose ch
e il vescovo non dovesse ritornare in Germania
ma lo trasferì nella diocesi padovana in Italia, co
n il comando di andare a indirizzare il clero e
popolo e di sedare a nome del Papa tutte quelle tur
bolenze che si erano venute a manifestare nella
città.
Nella diocesi padovana erano numerose le famiglie c
he ingiustamente possedevano dei beni
destinati alla proprietà della Chiesa, di questi al
cuni Bellino ne recuperò per affidarli alla mensa d
ei
poveri di Cristo, al Priore della canonica di Santa
Maria delle Grazie per farne un alloggio per i
poveri ed infine un’ ultima parte venne riservata a
lle Chiese. Alcuni nobili Padovani della famiglia
Capovacca occupavano alcuni terreni della Chiesa di
Bellino e chiaramente quest’ultimo voleva che
gli fosse restituito quello che di diritto gli spet
tava per poterlo affidare alla propria comunità di
fedeli. Fu per questi dissidi che Bellino fu assas
sinato proprio da sicari di quella stessa famiglia
sopra menzionata.
La storia che ci è stata tramandata racconta che Be
llino Vescovo, di ritorno dalla diocesi di Ferrara
e passando per la Via Vespara dell’attuale San Bell
ino, fu aggredito da dei spietati avversari che gli
tesero un agguato. Il Santo Uomo fu fatto fermare e
scaraventato a terra dal suo cavallo ad opera dei
loro molesti cani che rabbiosamente lo assalirono.
I sicari lo lasciarono sulla strada pubblica
trucidato da colpi di pugnale e successivamente gli
abitanti dell’attuale Fratta Polesine, udito il
pericolo, si recarono sul luogo del misfatto e onor
evolmente levarono da terra il santo corpo ormai
senza vita e lo seppellirono in una chiesa chiamata
S. Giacopo, collocandolo in un’arca di marmo
che si trovava nella suddetta Chiesa.
Bellino iniziò a compiere un infinito numero di mir
acoli nei confronti delle persone che
accorrevano a visitare l’Illustrissimo Corpo, e pro
prio per questo il Santo Pontefice Eugenio III,
mosso dalla quantità dei prodigi che erano avvenuti
in nome di Bellino, lo dichiarò Martire del
 
Signore dandogli quella venerazione e quel culto ch
e meritava una persona che, per il bene della
Chiesa e per la difesa del patrimonio dei poveri di
Cristo, aveva perso la propria vita.
Più tardi successe che il Po’ ruppe i suoi argini i
n località Ficarolo e l’acqua si diramò nelle
campagne e nelle valli comprese anche tra Fratta e
Rovigo allagando qualsiasi territorio.
Per quest’imponente alluvione ne restò vittima anch
e la chiesa di San Giacomo, situata nelle
vicinanze di Fratta, e l’arca che conteneva il prez
ioso tesoro del corpo del Santo Vescovo e Martire
Bellino fu letteralmente sommersa dalla sabbia e da
i detriti che l’acqua del Po’ si portava addietro,
sicché si era smarrito il luogo della sepoltura del
Santo Uomo.
Trascorsi circa 137 anni, dopo che le rotte del Po’
si erano momentaneamente estinte e che la
fisionomia del grande fiume aveva assunto un altro
corso, il quale si propendeva maggiormente
verso il mare, accadde che alcuni paesani di San Ma
rtino di Variano, antico nome dell’attuale San
Bellino, cominciarono a bonificare quei terreni pal
udosi per aver così modo di coltivare degli
appezzamenti di terreno.
Un certo Giovanni Dalla Fratta, a cui toccò la sort
e di lavorare nel terreno dove un tempo sorgeva la
Chiesa di San Giacomo, venne informato che il terre
no che lui stesso coltivava nel sottosuolo
conteneva le sacre spoglie di Bellino Vescovo. Così
Giovanni, con l’aiuto dei suoi figli, volle
verificare quest’informazione che gli era stata per
venuta e decise di iniziare a scavare in prossimità
del terreno che gli era stato indicato. Essi, dopo
aver scavato a lungo, trovarono effettivamente
l’arca contenente le Sacre Spoglie, e provarono a s
ollevarla dal terreno con l’aiuto dei suoi
numerosi buoi, con l’obiettivo di portarla a Fratta
per renderla celebre e illustre per il tesoro che
essa potenzialmente doveva custodire; ma si sa che
non sempre le divine volontà equivalgono a
quelle degli uomini. Ma purtroppo nemmeno tant
a forza messa insieme servì a sollevare
l’imponente arca marmorea. Fu così che successivame
nte Giovanni venne inspirato ad aggiungere
al poderoso numero di buoi due esili mucche che ave
vano da poco partorito, ed esse, messe a capo
del corteo, riuscirono a sollevare l’arca e si dire
ssero così verso l’antica chiesa rurale di San
Martino di Variano, anziché verso la Chiesa di San
Pietro e Paolo di Fratta Polesine.
Arrivate alla porta di questa chiesa le mucche si f
ermarono immobili e nemmeno riuscirono a
proseguire oltre. Sopraggiunto il contadino Giovann
i, che proseguiva il suo cammino a passo lento,
esso piantò atterra la sua verga di pero che gettò
da subito le radici e si protese verso l’alto per
germogliare con foglie in un fioritissimo albero di
pero, il che fece in modo di far conoscere ancor
più maggiormente la volontà di Dio. Fu così che ine
vitabilmente le spoglie di San Bellino furono
collocate nella Chiesa di San Martino di Variano, a
ccolte dalla grande allegria e gratificazione nei
confronti del Martire che gli abitanti del Paese ma
nifestarono.
 
Proseguirono ancora i miracoli che Bellino faceva m
anifestare nei confronti dei suoi devoti uomini,
sia che si trattasse di infortuni e sia che si trat
tasse di malattie. Ma il Santo Uomo si mise in
evidenza nella capacità di curare la rabbia, quasi
volesse far palese che, chi da cani rabbiosi fu
assalito e gettato a terra perdendo la vita, fosse
diventato sanatore di questo male.
In più si racconta che anche la chiave arroventata
della chiesa che porta il suo nome aveva la stessa
virtù di preservare gli animali dalla rabbia, tanto
che sparse per tutt’Italia dovrebbero esserci altr
e
chiavi simili con le stesse proprietà in devozione
a questo prodigioso Santo.
I cittadini di Rovigo successivamente pretesero si
levare il corpo del Santo dalla chiesa di San
Martino per destinarlo nella loro Chiesa principale
, dopo che il Vescovo di Adria del tempo aveva
espressamente scritto le ragioni per cui fosse gius
to trasportarlo nella città, dove sarebbero potutit
i
accorrere un maggior numero di fedeli e dove si pen
sava che il corpo avrebbe potuto godere di
maggiori privilegi. Al ché replicò il Cavagliere Gi
ovan Battista Guarini, nobile ferrarese che
possedeva a San Martino numerosi beni e ribadì che
il corpo doveva restare dove l’aveva voluto il
Cavaliere e la nobile Giulia Ariosti Guarini che, a
ttraverso le sue cospicue offerte, permise di
decorare la cappella maggiore di San Bellino nell’a
nno 1647 dopo che nel 1640, e precisamente il
25 novembre, in essa erano state trasportate le spo
glie del santo martire ad opera del Vescovo di
Adria Polo Savio, e collocate in una tomba di marmo
alzata su quattro pilastri.
Infine, nel 1774, il Papa Clemente XIII elevò a Bas
ilica la Chiesa di San Bellino il quale stabilì che
il 26 Novembre sarebbe stato festeggiato il Santo P
atrono del Paese, in coincidenza dello stesso
giorno dell’anniversario della sua morte.
 

Togliatti di Pietro Ingrao

Quando Togliatti minacciò:
“Volete farmi fuori? Bene, provateci…”

 

La vicenda del 1956 scatenò nel Pci lotte, crisi, burrasche che si prolungarono fino a tutti gli anni Sessanta, sino alla radiazione del gruppo de «il manifesto». L’avversario politico e la stampa borghese non se ne avvidero o colsero solo alcuni momenti più clamorosi, avvezzi a misurare le vicende del Pci con un metro molto sommario e spesso ottuso. Dal punto di vista elettorale, in verità, dopo l’evento del ’56, non ci furono perdite vistose di voti e, anzi, nelle elezioni politiche del 1963 il Pci compì un significativo balzo in avanti, che si prolungherà poi ininterrottamente, fino al clamoroso successo del 1976, quando Aldo Moro, commentando quelle elezioni politiche, parlò di «due vincitori»: la Dc e il Pci.

Eppure, a partire da quell’anno cruciale, nei secondi anni Cinquanta e poi ancora negli anni Sessanta, nel Pci fu aspra burrasca, duro confronto di idee. (…). In quella dura verifica nemmeno Togliatti, con la sua straordinaria autorità, passò del tutto indenne. C’erano già state le burrasche della primavera del 1956, il tempestoso Consiglio nazionale dell’aprile, il Comitato centrale di luglio. Parve per un momento che l’VIII Congresso avesse ricomposto un’unità, se non riportato la calma. Ma non era vero. Lo scontro esplose duramente, come non avevo visto mai, al Comitato centrale che si tenne dopo il XXII Congresso del PCUS nel 1961. Chruščëv, insieme con l’esaltazione dei successi della sua politica economica, aveva riproposto dalla tribuna del congresso i temi dell’attacco demolitore a Stalin, accompagnandoli con due proposte clamorose: la rimozione della salma di Stalin dal Mausoleo della Piazza Rossa e il cambiamento del nome della città di Stalingrado in Volgograd. Al rientro da quel congresso, in un incontro che ebbi con lui per riferirgli di questioni parlamentari italiane (allora ero vicepresidente del gruppo comunista della Camera) trovai Togliatti di pessimo umore, e mi parlò di Chruščëv con accenti di aperto fastidio, per non dire sarcasmo: la cosa non mi sorprese, ma questa volta c’era una irritazione che non si celava. Come ho detto, quelle due figure non si amarono mai: forse, se pure ci fu un momento di interlocuzione fra loro, non si capirono mai.

 

Togliatti sotto accusa

In quell’autunno del 1961, al Comitato centrale del PCI che si tenne il 10 novembre, dopo il suo ritorno da Mosca, Togliatti fece più o meno come aveva fatto nel marzo del 1956 dopo il XX Congresso PCUS e il «rapporto segreto» di Chruščëv. Parlò soprattutto dei successi dell’economia sovietica, in tono palesemente agiografico (e questo già non persuase). E però aggiunse stavolta una serie di riserve sul modo con cui Chruščëv era tornato sulle responsabilità di Stalin, con un dissenso dichiarato e abbastanza tagliente sul mutamento di nome alla città di Stalingrado. Nel Comitato centrale si scatenò la critica. Parlammo in molti e in chiaro dissenso col segretario. Aldo Natoli chiese un congresso straordinario. Il più netto e il più duro fu, senza dubbio, Giorgio Amendola che difese la fecondità della critica allo stalinismo, ma soprattutto esplicitò – questo fu il punto veramente nuovo – le conseguenze che bisognava trarre per la vita del Partito italiano: rivendicando l’autonomia di giudizio del Partito rispetto all’URSS; criticando la pratica dell’«unanimismo» e sottolineando la necessità delle differenze, sino al costituirsi di maggioranze e minoranze. Era una critica aperta alla condotta di Togliatti e una lettura nuova della vita interna del Partito.

Togliatti intese tutto come un attacco ingiusto e sbagliato, e anche un perdere la testa. Fece una replica durissima, la cui sostanza era quasi letteralmente questa: volete cambiarmi? Provateci. Ce la vedremo nel Partito. E io rivendico la mia libertà di fare una lotta di frazione (fu questa la parola inedita e chiarissima che usò). Ma – prudente come sempre era, anche nelle sue collere più furibonde – disse che non avrebbe pubblicato la sua replica. E tenne duro fino all’ultimo. La discussione tornò nella riunione della Direzione del 17 novembre, dove tutti, senza ritirarsi, ammorbidirono però la tensione, senza spostamenti sostanziali di posizione, ma orientati ad evitare la frattura delicatissima con il grande leader. Il documento conclusivo, affidato a Paolo Bufalini e a Enrico Berlinguer, cancellava l’urto, ma, senza dubbio, segnava un passo avanti nella critica dei comunisti italiani non solo a Stalin, ma al sistema sovietico. Continuava la tattica, così cara al comunismo italiano, della differenza senza conflitto, che a lungo ci illuse.

Partecipai a quello scontro, ma fino a un certo punto. Che cosa non mi convinceva? I temi della differenza dall’Urss e della libertà del confronto interno li sentivo e condividevo con passione, e non da ultimo. Entrato nella Segreteria del Partito, avevo trovato la pratica di rito per cui nella discussione chi voleva esprimere un dissenso cominciava prima di tutto esprimendo il suo accordo con Togliatti, e poi aggiungeva le sue opinioni. Era il famoso metodo che Amendola nella sua brutalità chiamava «tirare la coperta» dalla propria parte, senza mai marcare la diversità. Io mi provai ad usare un altro modo, che era quello del dubitare: dell’usare la formula del «dubbio» rispetto all’opinione consacrata, fosse anche quella di Togliatti. Devo dire con franchezza che, in quella ostinata pratica dubitante, non avevo trovato sostegni. Di più: nella vita concreta del Partito, Amendola era sicuramente intollerante. Alicata, mio amico di giovinezza, lo era altrettanto e di più, anche di più. Pajetta quasi. Né io credevo a una loro conversione. Detto brutalmente, non mi fidavo che da quelle aperture si giungesse al dubbio e al confronto. E presto gli sviluppi della lotta politica nel Partito me ne dettero amara conferma.

 

Il duello sul capitalismo italiano

Lo scontro politico infatti esplose, appena sepolto Togliatti. Intanto il contrasto aveva subito un allargamento importante che lo spostava dalle cose sovietiche alle vicende italiane. Una tappa fu senza dubbio il «Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano», organizzato dall’Istituto Gramsci nel 1962. Togliatti non intervenne in quel dibattito, lui così attento alle vicende culturali (e così irritabile su quei nodi). Ma il convegno dall’impegno analitico si estese chiaramente a un discorso di strategia. Si confrontarono due letture del presente: una, quella di Bruno Trentin, tutta orientata a cogliere il senso e le forme dell’avanzata del fordismo in Occidente e delle sue incidenze nell’intreccio delle relazioni produttive e nelle costruzioni ideologiche del neocapitalismo.

L’altra lettura, ribadita rigidamente da Amendola e da Emilio Sereni, poneva al centro l’arretratezza del capitalismo italiano anchilosato dalla sua rigida e angusta struttura monopolistica. Ne sgorgava – per ambedue – il grande compito ‘progressivo’ del movimento operaio di trarre il Paese da quello storico ritardo nello sviluppo. Da ciò l’aspro scontro con Lucio Magri che evocava invece la lotta all’«opulentismo» del capitalismo maturo, con Rodolfo Banfi che contestava le vecchie letture della questione meridionale e con Vittorio Foa che sollecitava l’impegno contro le nuove forme dell’alienazione del lavoro e, soprattutto, concentrava lo sguardo sui conflitti che si aprivano nelle cittadelle industriali e sui compiti inediti a cui veniva chiamato il soggetto sindacale.
Mi pare che i grandi giornali non dettero una riga di quel dibattito. In generale allora essi pubblicavano solo indiscrezioni sulle vicende di vertice, sulle dichiarazioni dei capi o sottocapi. Sembravano credere veramente all’idea di un Pci come macchina di ferro, come plotone sempre in riga, salvo gli scontri di pochi capi. Invece il conflitto politico nel gruppo dirigente del Pci si accelerò. Ed esplose di nuovo alla Conferenza del Partito a Genova, nel luglio del 1965, che, con la relazione di Luciano Barca, rilanciava ostinatamente il discorso sui caratteri del nuovo sviluppo capitalistico italiano e sulle ipotesi di un possibile modello alternativo. Barca fu incenerito nelle sue conclusioni da Amendola, che chiamava a un sano realismo evocando l’importanza dei «soldoni» contro le sofisticherie sull’«opulentismo» e sul «modello di sviluppo», in cui tanti, troppi di noi della sinistra gli sembravamo impigliati. (…).

 

La proposta di Amendola per un nuovo partito

In ogni modo, prestissimo, dopo la morte di Togliatti la battaglia politica e anche – bisogna dirlo – la ricerca nel Partito si riaccesero con ricchezza di passioni e, anche, con violenza. Amendola, che era orgogliosamente consapevole della sua forza di leader, lanciò all’improvviso la proposta di un nuovo partito, socialista o laburista che fosse. Ci fu subito clamore. «Rinascita» (mi sembra) pubblicò una dura replica di un giovane compagno, Romano Ledda, e qualcuno subito disse – non so perché – che Longo era d’accordo. Cominciò un dibattito serrato. Ad aprile intervenne Longo in prima persona, con uno scritto che era senza dubbio di critica e di distanza da Amendola e che, allora, venne classificato – secondo i moduli praticati – di sinistra. Fu nominata una nuova commissione (o un gruppo di lavoro?) che cominciò a lavorare a un testo, il quale partendo da un’analisi di segno marxista (e distante ormai dal leninismo) tentava di formulare un’ipotesi di transizione sociale e di nuovo soggetto politico. Ci lavorarono molto Rossana Rossanda ed altri di noi, con il consenso di Longo. Sembrava si fosse aperta di nuovo una ricerca reale sulle vie possibili di un cammino, sia pure graduale, verso il socialismo, come si poteva vederlo in Italia, all’inizio, ormai, della seconda metà del secolo.

Non ho riletto quei testi. Non so dire quanto vi fosse ancora di utopico o di survalutazione degli eventi o di verifica severa, realistica delle forze in campo. A distanza, a cose fatte, penso che quello scritto fosse interessante ed utile per come leggeva le novità sociali in atto e per come spingeva a leggere i mutamenti, per così dire «strutturali» ormai sulla scena. Ma era di un ottimismo infondato riguardo alla maturazione di una possibile alternativa. La proposta era, assolutamente, oltre che da costruire, da verificare, anche analiticamente. E poi l’Italia era solo un tassello di un Occidente in vorticoso e contraddittorio mutamento. Ad ogni modo, tutto fu presto bruciato senza nemmeno una discussione nel Partito: neppure fra i quadri di vertice. Giorgio Amendola – ma anche Alicata, Pajetta ed altri – lessero subito l’inclinazione di sinistra che era in quel documento e accelerarono la battaglia politica che, presto, divampò. Ed essa fu senza nessuna dolcezza.

 

La sconfitta dell’XI congresso

Una battaglia di frazione. Io ne ero del tutto consapevole, e mi tutelavo anche, perché sapevo che quel tipo di battaglia era proibita, illecita nel Partito comunista di allora, anche se era praticata in modi e a livelli diversi. Il testo che io lessi alla tribuna dell’XI Congresso del PCI che si tenne a Roma nel 1966, esprimeva o tendeva ad esprimere una posizione collettiva, e l’avevo verificata con alcuni compagni della sinistra con cui consapevolmente ragionavo, cercavo e lottavo insieme. Non so darle altro nome se non quello di battaglia di frazione, per usare un termine classico del mondo socialista e comunista (chissà se i giovani di oggi afferrano il senso di questa parola – così delicata e anche rischiosa – del nostro vocabolario d’allora…). Ma non lo dissi alla tribuna del congresso perché, subito, la discussione politica si sarebbe mutata in una secca questione di disciplina. E a me invece premeva di aprire, nel corpo del Partito e anche in pubblico, una questione di merito.

Si potrebbe obiettare che un caso di disciplina fu aperto subito, ugualmente, un attimo dopo, e tanta parte delle critiche furenti che mi furono rivolte prima di tutto ad essa si appellarono: frazionismo. Un compagno di grande intelligenza, Renzo Laconi, la formulò nel modo più sottile: nella riunione di Commissione congressuale, che seguì subito al mio discorso, mi imputò di aver violato la corresponsabilità che sempre doveva esistere nel gruppo dirigente; se capii bene, le decisioni dovevano essere prese insieme. Di fatto, io volevo esattamente rompere quel rito e quel recinto: per me la costruzione collegiale di una linea politica esigeva in radice la libertà e la pubblicità, direi la normalità del dissenso; e questo era uno dei punti preliminari, ma essenziali, da affermare. Di fatto soprattutto su di esso si scatenò la bufera della destra del Partito, trascinando anche Longo (anni più tardi, in un incontro privato a Genzano mi disse con grande onestà che era stato ingannato sulle ambizioni mie di diventare segretario – questione che invece stava nella luna: per conto mio sapevo benissimo di essere parte di una piccola minoranza).

Oggi, a tanta distanza, quella disputa appare persino barocca e ovvia. E difatti altri compagni, pure di orientamento di sinistra, quadri sindacali per esempio, non furono convinti: la questione del dissenso finiva per soprastare e cancellare tutto il discorso sulla proposta sociale che, invece, sempre più occupava la scena e, poi, sarebbe stata la grande o principale ardente questione del Sessantotto alle porte. Io tuttora ho dei dubbi su questa posizione. Per un motivo: in quel crogiuolo degli anni Sessanta, non era possibile una ‘indifferenza’, per meglio dire una separazione tra i nuovi contenuti della lotta sociale e le forme dell’agire politico. C’era una domanda sociale che chiedeva voce e che non stava più nei vecchi contenitori e nei loro codici. Non è casuale che in quegli anni esploda nella società politica italiana il «movimentismo» (…).

 

Che fine ha fatto la “transizione al socialismo”?

Ma alla fine, guardando oggi quelle vicende, da tanto lontano, che senso, che sugo ebbero quei duri contrasti interni e travagli del Pci, nella prima metà degli anni Sessanta, di cui l’avversario politico nemmeno s’accorse? Con quella disfatta della sinistra interna il discorso sulla «transizione al socialismo» (o sulle tappe intermedie, in qualsiasi modo le si voglia chiamare) nel PCI comunque si chiuse. Continuò nel gruppo de «il manifesto». Riemerse in tutt’altre letture e, in modo confuso e fluttuante, nelle invenzioni e nelle escatologie e in alcuni lampi dei movimenti sessantottini che, però, in larga parte, furono orientati dall’invocazione del tutto e subito e, in ogni modo, di uno scontro dove il problema del potere si poneva a breve, su nodi decisivi. Il tema della transizione fece ancora un’apparizione nelle discussioni fugaci sulla «terza via». O tornò rapsodicamente nelle riflessioni eretiche di Riccardo Lombardi.

Ma, nel grosso corpo del PCI, nonostante le parole in corso in certi casi e in certi luoghi, la questione stessa, si potrebbe dire l’ipotesi – per eventuale e dubbia che fosse – di una transizione al socialismo morì o, più esattamente, si dileguò allora, si spense senza dichiararsi, sino alla sepoltura ufficiale della Bolognina. Restò sul campo, stranamente, la parola «socialismo», sulla bocca – che so? – di Enrico Boselli o, a volte, di Giuliano Amato, o (mi pare) a strappi anche su quella di Massimo D’Alema. Ma è chiaramente un residuato bellico, un fronzolo. Sicuramente allude ad altro. Ammesso che alluda. In fondo si rompeva, o si scioglieva, quell’ambiguità che aveva sospinto Togliatti a parlare del Partito comunista italiano come di una «giraffa». Il comunismo italiano, nonostante le nefandezze e le colpe che gli hanno imputato via via i suoi avversari, si recinge e riassume nel compito di sostenere l’evoluzione democratica di un capitalismo segnato da passioni e rigurgiti autoritari, da violenze antiche e moderne e da lunghe angustie e salti improvvisi. Giunto, in sostanza, a questa scelta e autolimitazione, alla metà degli anni Sessanta, è chiaro che il PCI subirà il Sessantotto, anche se fornirà ad esso – è stupido dimenticarlo – quadri, truppe, passioni. E fecondità di ricerche, capacità di scoperte. E quando l’onda sessantottina e l’«autunno caldo» si frangeranno e rifluiranno, il PCI apparirà ancora come speranza di cambiamento prima di tutto a un’onda di giovanissimi che avanzavano sulla scena, quasi scavalcando i sessantottini, e alle masse femminili che venivano proclamando la loro alterità. Apparirà come la forza politica in campo che può mettere in discussione in Italia l’eterna preminenza della Democrazia cristiana. Moro stesso parlerà della forza comunista (il nome è ancora quello) come una possibile alternanza.

Eppure anche questo esito prudente, quasi tutto rinchiuso nel compito di un allargamento della democrazia politica e di un ammodernamento del capitalismo, apparirà inaccettabile a forze e a gruppi della società italiana: tanto era difficile la normalità democratica in un Paese come l’Italia. Verrà il tempo dello ‘stragismo’, le scie di sangue degli attentati ignoti, e anche la congiura disperata dei «brigatisti». Chissà perché (o meglio: lo sappiamo anche) la normalizzazione democratica sarà difficile in Italia. Il secolo, avviandosi al tramonto, preparava altri eventi e svolte clamorose. L’impero sovietico si sfrangiava quasi di colpo. E nella ‘società civile’ avanzava una straordinaria rivoluzione dei saperi recando i nuovi paradigmi produttivi cui daremo il nome approssimativo e incerto di «postfordismo». Tutto il calcolo misurato di Berlinguer e il compromesso politico (appunto: il «compromesso storico») con cui egli si prova ad affrontare quel crinale della storia italiana ne saranno scossi. Tanto è vero che egli, pur così attento alla tattica politica, a un certo punto, farà appello alla risorsa etica. Ma tutto questo viene dopo. Prima c’è il grande tumulto – in Italia più lungo che altrove – della fine degli anni Sessanta.

(Questo brano è tratto dal libro di Pietro Ingrao Memoria (Ediesse), che raccoglie saggi inediti del leader comunista scomparso nel 2015. Il volume, da oggi in libreria, contiene uno scritto di Alberto Olivetti che è anche il curatore dell’opera)