Archivi giornalieri: 25 settembre 2023

Perché oggi ricordiamo Nelson Mandela

Perché oggi ricordiamo Nelson Mandela

 
mandela

Nella giornata odierna di 104 anni orsono, il 18 luglio del 1918, nel villaggio di Mvezo, nell’Eastern Cape del dominion inglese del Sudafrica, nasce Rolihlahla Mandela, del clan Madiba. Il padre era consigliere del re del popolo Thembu. Era ancora in corso la cruenta Prima guerra mondiale e in Sudafrica, a seguito del Native Land Act del 1913, che vietava agli Africani di possedere la terra al di fuori delle riserve, si creavano i presupposti del sistema dell’apartheid.

Novantacinque anni dopo, il 10 dicembre del 2013, ai suoi funerali, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama lo definirà «un gigante della storia, l’ultimo grande liberatore del Ventesimo secolo».

La famiglia di Mandela apparteneva all’élite degli Xhosa, anche se osservando la fotografia della sua casa natale, pubblicata nel documentato sito della Nelson Mandela Fondation, si constata che era poco più di un’ampia capanna. Frequenta una scuola elementare della Chiesa Battista, durante la quale la sua insegnante gli impone il nome inglese di Nelson, come da diffusa consuetudine dell’universo coloniale africano. Pur rimanendo orfano del padre a dodici anni, la sua famiglia allargata gli permette di completare la sua formazione fino all’università. Studia legge all’University College di Fort Hare, dal quale è espulso per aver partecipato a una protesta studentesca, e all’Università di Witwatersrand.

La formazione europea acquisita in questo percorso scolastico, reso possibile non dalla Stato, ma dalle istituzioni religiose, s’innesta nella sua cultura profonda africana, di tradizione orale, a partire dai racconti degli anziani sulla resistenza contro l’occupazione coloniale. Scriverà a posteriori Mandela: “Ho fatto tutto ciò che ho fatto, sia come individuo, sia come leader del mio popolo, grazie alla mia esperienza in Sudafrica e al mio background africano orgogliosamente sentito”.

Rinvio alla sua fortunata autobiografia, Long Walk to Freedom, tradotta in moltissime lingue, compresa quella italiana, con il titolo, Lungo cammino verso la libertà, nella quale con uno stile asciutto, mai retorico, ripercorre la sua straordinaria vicenda umana e politica, dall’infanzia nelle campagne del Transkei, alle township di Johannesburg; dalla militanza nell’ANC, attraverso ventisette anni di carcere, al Premio Nobel per la pace e alla presidenza della repubblica, sempre intrecciata con la storia drammatica del Sudafrica e più in generale dell’intero continente africano.

L’adesione, nel 1944, all’African National Congress, una sorta di Comitato di liberazione nazionale, è decisiva nella vita di Mandela, che ne diventa rapidamente un dirigente di primo piano, organizzando la Youth League al suo interno e sostenendo una politica di massa più radicale.

Assieme a Oliver Tambo apre, nel 1952, il primo studio legale di avvocati africani. Il riferimento a Gandhi, che proprio in Sudafrica, nei due decenni a cavallo dell’Ottocento e del Novecento, aveva esercitato la professione di avvocato per difendere gli immigrati indiani dal razzismo bianco, è d’obbligo. Lo è per comprendere l’influenza profonda che le teorie e le pratiche della resistenza passiva e della non violenza ebbero nel pensiero e nell’azione di Mandela, anche se nei primi anni Sessanta, di fronte alla sanguinosa repressione di ogni forma di protesta, aiuta a fondare il braccio armato dell’ANC, Umkhonto weSizwe (spada della nazione). Dopo alcuni anni di clandestinità, è arrestato assieme ad altri nove dirigenti dell’ANC e, nel giugno del 1964, è condannato all’ergastolo e rinchiuso nel carcere di Robben Island. Il carcere, grazie all’intelligente azione di Mandela, si configurò progressivamente come uno spazio autogestito di scambio e formazione per i prigionieri politici, anche durante il faticoso lavoro nelle cave di calce e nei pozzi delle miniere. Seguivano lezioni regolari, organizzate in segreto, durante le quali si studia la Bibbia, il Corano, il Capitale, ma anche le tragedie di Shakespeare, tanto che la prigione fu chiamata The Robben Island University e, più tardi, Nelson Mandela University. Dai dibattiti con i prigionieri e dai colloqui con le guardie bianche, nel corso degli anni, Mandela matura una maggiore consapevolezza ideologica da cui avrebbe attinto quando avrebbe discusso con il governo su una nuova costituzione sudafricana.

Nei lunghi anni della prigionia Mandela riscopre e approfondisce la filosofia e la pratica, diffusa nell’Africa precoloniale, chiamata nella comunità Xhosa, Ubuntu. Mandela stesso ne ha descritto il contenuto essenziale: “In Africa esiste un concetto chiamato Ubuntu, il cui senso profondo è che noi siamo uomini solo grazie all’umanità altrui e che se, in questo mondo riusciamo a realizzare qualcosa di buono, il merito sarà in egual misura anche del lavoro e delle conquiste degli altri”.

Proprio ricorrendo alla tradizione dell’Ubuntu, Mandela e il suo grande amico, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, nel 1995, creeranno e animeranno la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per evitare che il paese arcobaleno precipitasse in rancori e vendette per i tanti torti subiti nell’era dell’apartheid.

Un segnale in questa direzione era stata, il 10 dicembre del 1993, l’assegnazione del premio Nobel per la pace congiuntamente a Nelson Mandela e a Frederik Willem de Klerk, il presidente del Sudafrica che, tre anni prima, lo aveva rilasciato dopo la pluridecennale prigionia, concordando con lui una transizione pacifica al governo della maggioranza. Il premio Nobel per la pace, infatti, era loro: “Per il loro lavoro per la fine pacifica del regime dell’apartheid e per aver gettato le basi per un nuovo Sudafrica democratico”.

I due premiati negoziano lo smantellamento del regime dell’apartheid e l’introduzione del suffragio universale; l’anno successivo, a seguito delle prime elezioni libere, il leader carismatico dell’African National Congress (ANC) è trionfalmente eletto presidente della repubblica.

Finito il primo mandato, nel 1999, nonostante le molte pressioni del suo partito, differentemente dalla prassi diffusa nei paesi ex coloniali, si ritira dalla vita politica attiva, divenendo, grazie anche al suo prestigio interno e internazionale, un’icona della mobilitazione e lotta contro le ineguaglianze economiche e per la difesa dei diritti umani, al fine di fare del Sudafrica una pacificata “nazione arcobaleno”.

Mandela muore nel 2013, all’età di novantacinque anni, per un’infezione polmonare dovuta alla tubercolosi contratta a causa delle condizioni igieniche e alimentari degli anni della prigionia. Il 10 dicembre in una grande cerimonia pubblica, con decine di migliaia di presenti, persone comuni e, mescolati con esse, Bono degli U2 e Naomi Campbell. La cerimonia si svolge nello stadio di Soweto, il cuore, per decenni, della resistenza africana. Gli rendono omaggio un centinaio di capi di Stato e di governo di tutto il mondo. Tra questi anche George Bush e Barack Obama che pronuncia un commosso discorso. Vale la pena riprodurne un passo pregnante: «Ha reso me un uomo migliore. Non vedremo mai un altro come Mandela, ma i giovani devono ispirarsi alla sua capacità di cambiare quel che sembra impossibile. Trent’anni fa, quando ero ancora uno studente, ho conosciuto Mandela e la sua lotta. Ha mosso qualcosa in me, ha risvegliato le mie responsabilità verso gli altri e verso me stesso. E mi ha condotto verso un improbabile cammino che mi ha portato oggi qui».

Il ricordo del mio incontro con Michail Gorbaciov

Il ricordo del mio incontro con Michail Gorbaciov

 

Ho conosciuto personalmente Michail Gorbačëv, del quale ho apprezzato il tentativo di portare l’Unione Sovietica, che da tempo aveva esaurito la sua “spinta propulsiva”, verso un socialismo democratico e partecipato. Ancor più ho condiviso la sua forte convinzione della necessità di portare il mondo intero fuori dalle costrizioni del bipolarismo e della guerra fredda verso un assetto multipolare, fondato sul disarmo, la cooperazione internazionale e la pace.

Il 27 giugno del 2000 a Roma ci fu la presentazione del libro, “Agostino Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti (1963-1989)”, pubblicato da Einaudi e poi tradotto in molte lingue. Il libro era stato progettato e introdotto dal cardinale Achille Silvestrini, coprotagonista della Ost-politik vaticana e della Conferenza di Helsinki. Io ne ero il curatore assieme a Giovanni Maria Vian. Lo presentarono l’allora Segretario di Stato, card. Angelo Sodano, il card. Silvestrini, Romano Prodi e, appunto, “il signor Michail Gorbačëv”, come riportò la Sala Stampa del Vaticano, venuto appositamente da Mosca assieme alla sua bella moglie, Raisa Gorbačëva.

Nel pomeriggio il cardinale Achille Silvestrini e i due curatori del libro fummo ricevuti in udienza privata da Giovanni Paolo II. Gli portammo in dono una copia del libro e ci intrattenne a lungo, illustrando la sua pregnante metafora dell’ineludibile necessità che l’Europa respirasse con i suoi due polmoni dell’Occidente e dell’Oriente, per arrivare a una proficua ricomposizione della sua secolare divisione.

La sera fummo tutti invitati a cena in una saletta riservata di un albergo di Via Veneto, grazie a un generoso sostegno della Fondazione Agnelli che si era fatta carico anche della trasferta di Gorbačëv. Erano presenti anche la nipote di Casaroli Orietta con il marito e Walter Barberis, che aveva seguito la pubblicazione del libro per conto della Einaudi. Faceva da interprete Giulietto Chiesa e fu una serata quanto mai piacevole. A un certo punto io mi rivolsi a Giulietto Chiesa, che conoscevo da tempo: “Di’ a Gorbačëv che alcuni di noi erano iscritti al Partito comunista“. Presto fatto. Gorbačëv, rivolgendosi verso di me, con un tono solo apparentemente scherzoso, rispose subito con questa battuta: “Allora, in Italia c’erano più comunisti che in Russia“.

Come il 25 aprile è diventato festa nazionale

Come il 25 aprile è diventato festa nazionale

 

Foto di Serghei Topor da Pixabay

La Festa della Liberazione, quest’anno, è stata preceduta da discussioni e polemiche in occasione della ricorrenza dell’Eccidio delle Fosse ardeatine, il 24 marzo scorso, del quale anche “In Terris” ha ricostruito le complesse dinamiche. Se la seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, ha scambiato i giovani soldati del Battaglione Bozen che sfilavano per via Rasella, per anziani componenti di una banda musicale, uccisi dai partigiani romani, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pur definendo l’eccidio delle Fosse Ardeatine “una delle ferite più profonde e dolorose inferte alla nostra comunità nazionale”, ha parlato di “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”. Ha omesso, o forse ignorava, che tra le vittime ci furono 9 stranieri. Come da esplicita e pubblicizzata dichiarazione tedesca, furono trucidati in quanto “comunisti badogliani”, termine dispregiativo con il quale si catalogavano gli antifascisti tutti. Per il vero, poi, delle 335 vittime ben 75 erano ebrei e 42 militari delle diverse armi.

Non vale neppure il ricorso alla logica della rappresaglia in tempo di guerra, in un paese nemico occupato, perché la città di Roma faceva parte della mussoliniana Repubblica Sociale Italiana, alleata della Germania nazista. E sono state proprio le autorità italiane, il questore Pietro Caruso in testa, a compilare la lista dei condannati. Paradosso ulteriore: italiani giuridicamente erano anche i giovani del Battaglione Bozen, appartenente alla “Ordnungspolizei”, creata in Alto Adige, dopo la sua occupazione e illegale annessione alla Germania, nell’autunno del 1943, così come le province del confine orientale.

Vale la pena, allora, ricostruire preliminarmente come il 25 aprile è divenuto festa nazionale. Con la legge 260, “disposizioni in materia di ricorrenza festiva” del 27 maggio 1947, si stabiliva che oltre le domeniche, dovevano essere considerati giorni festivi (ben 15), oltre le più importanti ricorrenze religiose, anche il 25 aprile, “anniversario della liberazione”, il 1° maggio, “festa del lavoro”, il 2 giugno, “festa nazionale”, e il 4 novembre, “giorno dell’unità nazionale”. Si stabiliva anche che erano “considerate solennità civili, agli effetti dell’orario ridotto negli uffici pubblici e dell’imbandieramento dei pubblici edifici” l’11 febbraio, “anniversario della stipulazione del Trattato e del Concordato con la santa Sede” e il 28 settembre, “anniversario dell’insurrezione popolare di Napoli”.

Per il vero già il 22 aprile del 1946 a un anno quasi esatto dall’entrata vittoriosa e festante delle brigate partigiane a Milano, il governo presieduto da Alcide De Gasperi, con un decreto firmato dal Luogotenente del Regno, Umberto di Savoia, stabilisce che “a celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile è dichiarato festa nazionale”.

È significativo che anche dopo la le dimissioni del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, il 12 maggio del 1947, che portò alla fine del governo di unità nazionale e all’estromissione dalla maggioranza fine dei governi di unità nazionale e l’estromissione dei socialisti e comunisti dal governo, la ricorrenza del 25 aprile è confermata solennemente come “festa nazionale” assieme al 2 giugno, giorno della vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del 1946.

Il 25 aprile è divenuto, dunque nel tempo, giorno di vacanza a scuola, di astensione dal lavoro, di cerimonie celebrative ufficiali e anche d’incontri e manifestazioni popolari, esaltate dalla prossimità temporale e tematica con le ricorrenze del Primo Maggio e della festa della Repubblica. Si ricorda e si riflette in primo luogo sulla fine in Italia di una guerra lunga e sanguinosa, per la prima volta nella storia, totale, mondiale, che provoca ben 50 milioni di vittime, delle quali oltre la metà civili, oltre che immani distruzioni d’infrastrutture e abitazioni civili.

Una guerra che si configura come scontro politico militare e ideale, con un nuovo ricorso massiccio alla propaganda che sfrutta anche le straordinarie capacità suggestive del cinema, che vede contrapposti l’universo degli Stati democratici parlamentari assieme all’Unione Sovietica contro la Germani nazista, l’Italia fascista e il Giappone, compartecipi del terrificante progetto di un “ordine nuovo”, europeo e mondiale, fondato sull’asservimento di popoli ritenuti inferiori, come gli Slavi in Europa e i Cinesi in Asia, sullo sterminio di minoranze come egli Ebrei e dei Rom e Sinti e, in generale su modelli di Stati ostili e sprezzanti nei confronti delle istituzioni parlamentari e dei diritti delle persone e delle comunità.

La festa del 25 aprile ricorda in Italia, quindi, la finale liberazione dagli occupanti tedeschi e dai loro subalterni collaboratori della mussoliniana Repubblica sociale, dispregiativamente denominati “repubblichini”, che nel rigidissimo inverno del 1944-45 avevano inasprito la repressione della Resistenza armata e della società civile nelle regioni del Centro nord. In questo senso il 25 aprile è da considerarsi, ancor più del 2 giugno, come la data fondante della nuova Italia democratica.

Eppure il 25 aprile non è mai pienamente divenuto festa civile nazionalpopolare sul modello, per fare degli esempi comparativi, del 14 luglio in Francia, per ricordare la presa della Bastiglia, del Giorno del ringraziamento negli Stati Uniti, il quarto giovedì di novembre, per ricordare lo sbarco dei Padri pellegrini o, anche, del Giorno della vittoria della Grande guerra patriottica, il 9 maggio 1945, nell’Unione Sovietica fino al 1991 e della Federazione Russa successivamente.

Per il vero nella storia d’Italia unita diverse altre ricorrenze, in momenti diversi istituite come feste nazionali, non sono riuscite ad assurgere a questo ruolo: non il giorno della proclamazione del Regno d’Italia, 5 maggio 1861, non la presa di Porta Pia, 20 settembre 1870, non la vittoria della Prima guerra mondiale, 4 novembre 1918, né tantomeno la Marcia su Roma, 28 ottobre1922 o la firma dei Patti Lateranensi, 11 febbraio 1929.

Un dato di fondo della storia del nostro paese è stato sempre, infatti, la limitata maturazione di una identità nazionale diffusa e interiorizzata: il “paese reale”, per usare un’espressione pregnante del cattolicesimo intransigente ottocentesco, coniata da padre Carlo Maria Curci della Civiltà Cattolica, rimane separato e diffidente, talvolta addirittura ostile nei confronti del “paese reale”.  In decenni a noi più vicini, Pier Paolo Pasolini, del quale quest’anno celebriamo il centenario della nascita, ha inventato la fortunata metafora del “palazzo”, lontano dagli interessi e dai bisogni della gente per constatare il perdurare del fenomeno.

Eppure la Resistenza, la cui moralità è non compromessa ma esaltata, qualora la si rivisiti non retoricamente come “Secondo Risorgimento”, bensì, partendo dal vissuto degli Italiani, come un complesso precipitato di guerra nazionale di liberazione, lotta di classe e anche penosa guerra civile, è la stagione storica nella quale forte e sentita è stata la partecipazione alla vita politica del nostro paese e anche la convinzione di poter contare e decidere.

La Resistenza, secondo i più documentati e maturi studi – primo fra tutti la magistrale volume, del 2006, di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, non si esaurisce nella lotta armata, nella quale, in ogni caso si era sempre rigorosamente attenti a evitare il coinvolgimento della popolazione civile in feroci rappresaglie; riguarda anche la “resilienza” popolare – le donne in primo luogo – che accompagna e sostiene i partigiani combattenti: Arrigo Boldrini, il geniale inventore della lotta partigiana in pianura, ha calcolato che ogni partigiano in armi necessitava del sostegno  attivo e non privo di rischi, di almeno cinque civili. Ancor più, nelle campagne come nelle citta, di fronte alle devastazioni, alle rappresaglie, alle ripetute stragi e, soprattutto, alle penose, perduranti condizioni di scarsi approvvigionamenti alimentari e di interruzione dei servizi essenziali, la resilienza popolare permette di conservare e anche estendere creative forme diffuse di solidarietà, evitando la caduta in spirali di cannibalismo sociale.

Il modo più corretto e proficuo di ricordare e dare valore attuale al 25 aprile, che comportò la liberazione per tutti compresi i fascisti, è quello di riviverlo come fondamento di una storia comune che non annulla i contrasti ma neppure interpella continuamente una storia giustiziera, che possa insomma servire a costruire un nuovo più maturo e moderno lessico civile.

Nel tempo presente, infine, della perdurante terribile guerra nel cuore dell’Europa, nella martoriata Ucraina, di fronte alla martellante campagna dei media che solleticano pericolose pulsioni belliciste, occorre ricordare che, in Italia, in Europa e in Asia, nella Resistenza contro il Nazifascismo e il feroce militarismo giapponese, milioni di civili furono costretti a impugnare le armi per porre fine a regimi oppressivi e inumani e, sulle loro rovine, costruire un mondo di giustizia e di pace per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” come recita la Carta delle nazioni Unite. Nel nostro paese, in particolare, la riflessione comune sulla tragica esperienza vissuta spinse i padri e le madri costituenti a sancire solennemente nell’articolo 11 della Costituzione che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Cosa è cambiato dopo la strage di Capaci

Cosa è cambiato dopo la strage di Capaci

 

E’ il 23 maggio 1992 quando, lungo l’autostrada che da Trapani porta a Palermo, la mafia uccide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani con una carica di cinque quintali di tritolo. Un attentato efferato e vile che scuote il paese e s’imprime nella memoria collettiva, travolta appena due mesi più tardi dal ripetersi di quel tragico copione in via D’Amelio, quando a perdere la vita sono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Per anni la rabbia e l’indignazione per il sangue sparso dalla mafia erano durate soltanto il tempo dei funerali. Dopo la Strage di Capaci, invece, qualcosa cambia. Nel Paese, soprattutto a Palermo. La rabbia diventa pretesa di giustizia, il lutto necessità di testimonianza. Nessuno può più rimanere indifferente. Né le istituzioni, né i cittadini. È l’inizio di quella metamorfosi culturale, morale e delle coscienze che Giovanni Falcone riteneva indispensabile per poter combattere la mafia su larga scala”. Così si legge nel libro, “L’eredità di un giudice. Trent’anni in nome di mio fratello Giovanni”, pubblicato, lo scorso anno per Mondadori, da Maria Falcone e Lara Sirignano.

Quanto mai meritorie ed efficaci sono state, in tal senso, le iniziative promosse dalla Fondazione Falcone, che si propone, attraverso attività di studio e di ricerca e interventi nel sociale, soprattutto nelle scuole, di formare ai valori della legalità, mantenendo sempre viva nelle giovani generazioni la memoria di quanti per la sua affermazione hanno sacrificato la propria vita. A partire da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino, suo amico e collega, che condivise con lui non solo l’intelligenza investigativa e il rigore giudiziario, ma anche il destino crudele della morte nella successiva strage di Via D’Amelio, due mesi dopo, nella quale periscono anche ben cinque agenti della scorta, compresa Emanuela Loi, la prima donna a essere uccisa in servizio dalla mafia.

Lo storico francese Pierre Nora, nel libro «Histoite et mémoire» ha scritto che meno la storia è vissuta collettivamente più essa ha bisogno di «uomini-memoria». E tali indubbiamente sono stati Falcone, Borsellino, Alberto dalla Chiesa e, prima ancora, Pio La Torre e Piersanti Mattarella e, nel lontano 1948, il sindacalista di base, Placido Rizzotto. Impegnati tutti non solo a denunciare le attività criminose della mafia ma anche a diffondere e far maturare nella coscienza popolare e nelle stesse istituzioni la necessità della sua estirpazione, per rendere possibile il progresso civile e lo stesso sviluppo economico.

Uno dei suoi studiosi più seri della storia e della natura del fenomeno mafioso, Salvatore Lupo, sostiene che la mafia fa affari, ma non è una semplice congrega di affaristi; organizza traffici, variegati, compresi quelli delle droghe, ma non è una banda di trafficanti; interloquisce e tratta con i politici e, talvolta anche con apparati dello Stato con infiltrazioni e connivenze, ma non è un partito politico. È una struttura criminale che aspira a modellarsi sullo Stato prendendone in appalto le funzioni fondamentali, dal monopolio della violenza al controllo territoriale.

Il maxiprocesso di Palermo organizzato nell’aula bunker del tribunale, dal febbraio del 1986 al dicembre del 1987, che costò la vita a Falcone, servì proprio a disvelare anche alla pubblica opinione le “Cose di Cosa nostra”, come dal titolo di un bel libro di conversazioni tra lui e la giornalista Marcelle Padovani, moglie di Bruno Trentin, pubblicato nel 1991.

Dopo una mastodontica ma rigorosa istruttoria, condotta da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, furono rinviati a giudizio ben 474 imputati. A seguito del processo più grande della storia giudiziaria italiana, furono comminate 360 condanne in primo grado per 2665 anni di reclusione. L’impianto accusatorio trovò, dopo alcuni anni, sostanziale conferma in cassazione.

La novità non solo processuale è costituita dal fatto che per la prima imputazione è costituita dal reato, codificato – oggi sembra incredibile – solo due anni prima, di appartenenza all’organizzazione mafiosa. È sufficiente, al riguardo, ricordare che persino il cardinale lombardo Ernesto Ruffini, a lungo arcivescovo di Palermo, nonostante sollecitazioni pervenute non solo da Danilo Dolci, ma dalla stessa Segreteria di Stato, usasse abitualmente l’espressione “cosiddetta mafia”, negandone o minimizzandone, in ogni caso, sempre la forza e la penetrazione nella vita economica e sociale e, ancor più, le sue collusioni con gli ambienti politici.

Ritorna alla memoria, per fortuna, il grido di Giovanni paolo II, in visita alla Valle dei Templi di Agrigento, il 9 maggio 1983: “Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”

E la mafia ritenne che fosse un’offesa da vendicare: due autobombe, cariche di tritolo a Roma, una davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, la basilica del vescovo di Roma e l’altra davanti a san Giorgio al Velabro che arrecano gravi danni e feriscono 22 persone; assassinio di don Pino Puglisi, sacerdote palermitano conosciuto e stimato per il suo impegno evangelico e sociale.

Una densa frase di Giovanni Falcone recita: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. “Per un futuro senza mafie”, come dal sottotitolo della denominazione della fondazione che porta il suo nome e che ne conserva la memoria e la lezione.

Le complesse dinamiche storico-politiche dell’eccidio delle Fosse Ardeatine

Le complesse dinamiche storico-politiche dell’eccidio delle Fosse Ardeatine

 

L’otto settembre del 1943, a seguito dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Angloamericani, nonostante il coraggioso tentativo di gruppi civili mal armati e di militari di ostacolare l’ingresso in città dei reparti tedeschi – è considerato giustamente l’inizio della Resistenza – incominciano i dieci terribili mesi dell’occupazione nazista della capitale che ebbe termine, infatti, il quattro giugno del 1944.

Roma, come tutto il Centro Nord, è sotto il governo collaborazionista della Repubblica sociale italiana, chiamata dispregiativamente Repubblica di Salò, perché nella cittadina sul lago di Garda avevano sede gli importanti ministeri degli Esteri e della Cultura popolare (Minculpop) e dell’Agenzia stampa del regime.

La Capitale, sottoposta a un controllo rigidissimo da parte degli occupanti tedeschi e dei loro subalterni collaboratori fascisti, soprattutto negli insolitamente rigidi mesi invernali, sconta crescenti riduzioni e interruzioni dei servizi essenziali, dagli approvvigionamenti alimentari, alla distribuzione dell’acqua e del gas e degli stessi trasporti urbani.

La città impaurita e affamata assiste quotidianamente all’arruolamento forzato dei giovani e al loro invio in Germania per il cosiddetto “lavoro volontario” e alla deportazione di migliaia di uomini e donne della comunità ebraica, a partire dalla razzia del ghetto del 16 ottobre 1943. Continuano anche i bombardamenti, dopo quelli spaventosi del mese di luglio, che avevano devastato il popolare quartiere di San Lorenzo. Nonostante gli appelli e le forti pressioni della diplomazia della Santa Sede – Pio XII si propone come “defensor civitatis”  – né i Tedeschi, né gli Angloamericani rispettano lo status di “Roma città aperta”, come dal titolo del bellissimo film del 1945 di Roberto Rossellini, quasi coevo ai fatti narrati.

In questa situazione, mentre è diffusa la resilienza e la resistenza passiva, soprattutto delle donne, la lotta armata, attiva soprattutto nei quartieri periferici della città, non è particolarmente incisiva. Il CLN cittadino per inviare anche un messaggio agli Alleati che avanzano lentamente verso la Capitale, dopo lo sbarco di Salerno e quello più vicino di Anzio, incaricano i Gruppi di azione patriottica, più noti con il loro acronimo di GAP, di tentare un’azione militare eclatante nel cuore della città.

Dell’esecuzione è incaricato un gruppo di giovani del GAP, che, nel dopoguerra, diventeranno importanti personalità della politica e della cultura. Nel pomeriggio del 23 marzo del 1944, un giovane studente di medicina, Rosario Bentivegna, trasporta nascosta in un carretto per la raccolta dei rifiuti, una bomba rudimentale, assemblata da un altro giovane, il fisico Giulio Contini e da sua moglie Giulia. Il luogo scelto per l’attentato è via Rasella, una strada stretta e in salita, nel cuore del centro storico della capitale, alle spalle di via del Tritone. Qui, ogni giorno alle 14.00, passano i soldati tedeschi di ritorno dal poligono di tiro di Tor di Quinto. A fare il palo, la fidanzata di Bentivegna, Carla Capponi Franco Calamandrei, incaricato di fare un gesto convenuto all’arrivo dei soldati.

La bomba scoppia alle 15.42 e la deflagrazione uccide 26 soldati della Polizeiregiment Bozen, composto prevalentemente da giovani della provincia di Bolzano, che era stata annessa al Reich. Ne segue un conflitto a fuoco in cui i “gappisti” lanciano altre bombe e fuggono. I soldati tedeschi uccisi sono alla fine 33. Residenti e passanti sono immediatamente rastrellati e le case dei dintorni perquisite. Il generale Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, comunica direttamente a Hitler la notizia sconvolgente dell’attentato,

Nel giro di alcune ore scatta una sanguinosa rappresaglia tedesca. L’Agenzia Stefani in un esile comunicato, “l’ordine è stato già eseguito”, ripreso la mattina dopo dal quotidiano Il Messaggero, annuncia che per ogni soldato tedesco ucciso in Via Rasella erano stati già giustiziati 10 “comunisti badogliani”. A essere immediatamente trucidati all’imbocco di una cava dismessa di pozzolana, nell’allora periferia di Roma, lungo la via Ardeatina, a ridosso delle catacombe di San Callisto, sono in realtà 335: civili e militari e anche un sacerdote, comunisti, azionisti e liberali, e ben 75 ebrei. Il questore Pietro Caruso, che sarà nel settembre del 1944, processato e condannato a morte, diede un contributo decisivo per la compilazione della lista.

Tenendo conto delle poche ore intercorse tra l’attentato e l’orrendo eccidio, di là dal titolo del comunicato ufficiale dell’autorità occupante, si deduce che non fu neppure presa in considerazione l’ipotesi di annullare l’esecuzione in cambio della consegna degli esecutori dell’azione militare del giorno precedente. E ancor meno vi fu una richiesta in tal senso. Il massacro fu eseguito a 23 ore dall’attentato e fu reso noto a esecuzione avvenuta. Alcuni giorni dopo furono fatte saltare con la dinamite le volte della galleria per ostruire l’accesso alla cava, con due mila metri cubi di materiale.

Dopo la liberazione della città, da luglio a novembre del 1944, rimosso questo materiale d’ingombro, le salme, ammucchiate in due ammassi, furono esumate e identificate, non senza difficoltà per l’avvenuta decomposizione, alla presenza anche di un sacerdote cattolico e di un rabbino israelitico. Anche in rete sono, nel sito dell’Associazione nazionale famiglie italiane martiri (ANFIM), sono disponibili le immagini sconvolgenti dei corpi martoriati e del dolore disperato dei familiari, chiamati a riconoscere i propri cari. Se si ha presente la vicinanza delle catacombe, non era e non è ancora oggi difficile riconoscere in essi dei nuovi martiri.

Per comprendere nelle complesse dinamiche storico-politiche l’eccidio delle Fosse Ardeatine e dell’attentato di Via Rasella si rinvia al film documentario “Roma Occupata”, prodotto dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (AAMOD), realizzato da uno dei più innovativi registi documentaristi italiani, Ansano Giannarelli.

Alessandro Portelli nel libro, “L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria” (Donzelli, 1999) ha ricostruito con forte passione civile, raffinata scrittura e con una mole di documenti d’archivio e di fonti orali (oltre 200 interviste a familiari di più generazioni), la vicenda dell’attentato partigiano di via Rasella e della strage nazista delle Fosse Ardeatine e, attraverso le testimonianze di ben 200 intervistati di più generazioni, compresi fascisti ed ex-fascisti, la memoria che essa ha lasciato nella città.

Una memoria non pienamente condivisa, tanto che negli anni della Guerra fredda, dal 1949 al 1957, per ben tre gradi di giudizio, cinque familiari di vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, intentarono un procedimento in sede civile per risarcimento danni alla Giunta militare del CLN di Roma, nelle persone di Giorgio Amendola, Riccardo Bauer e Sandro Pertini, quali mandanti dell’attentato di via Rasella e degli esecutori, prima menzionati. La Corte di Cassazione nel maggio del 1957, confermando le sentenze dei due precedenti processi, inquadrando l’attentato di via Rasella nella Resistenza e nell’azione partigiana, ha sconfessato ogni ipotesi di illecito a carico dei partigiani e giudicato destituita di ogni fondamento giuridico la pretesa legittimità della rappresaglia tedesca.

Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, costruito nel dopoguerra nel luogo dell’eccidio, con il suo ricco Museo dei cimeli, che contiene anche opere d’arte sul tema di grande valore, come i quadri di Renato Guttuso (“Fosse ardeatine”) e di Carlo Levi (“La Liberaziome”), nonché una ricca documentazione a stampa, è divenuto nel tempo un sito di primaria importanza per visite di studio di studenti e uno spazio ideale per approfondire la cultura del dialogo e della pace.

È indicativa al riguardo la dichiarazione di Sergio Mattarella fatta il 31 gennaio del 2015, quando scelse di compiere la sua prima uscita pubblica da presidente, nel suo primo mandato, proprio al Mausoleo delle Fosse Ardeatine: “L’alleanza tra nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso”.

Giornata dei Giusti: il ricordo del bene è fondamentale

Giornata dei Giusti: il ricordo del bene è fondamentale

 

Si celebra oggi la “Giornata europea dei giusti”, istituita con la Dichiarazione del Parlamento europeo del 10 maggio 2012, fatta propria, come solennità civile, dal Parlamento italiano con la legge 212 del 20 dicembre 2017, che, all’articolo 1, recita: “La Repubblica, in  conformità alla  dichiarazione  scritta  n. 3/2012 sul  sostegno  all’istituzione di una Giornata europea in memoria dei Giusti, approvata dal Parlamento  europeo il 10  maggio 2012, riconosce il 6 marzo come Giornata dei Giusti dell’umanità, dedicata a mantenere viva e rinnovare la memoria di quanti, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno fatto del bene salvando vite umane, si sono battuti in favore dei diritti umani durante i genocidi e hanno difeso la dignità della persona rifiutando di piegarsi ai totalitarismi e alle discriminazioni tra esseri umani”.

La legge individua nelle istituzioni scolastiche i soggetti privilegiati per far conoscere alle giovani generazioni le storie di vita dei Giusti, al fine di renderle consapevoli di come ogni persona debba ritenersi chiamata in causa, in ogni tempo e in ogni luogo, contro l’ingiustizia, a favore della dignità di ogni essere umano, in difesa del valore della responsabilità, della tolleranza, della solidarietà.

La ricorrenza di quest’anno è particolarmente significativa perché nel 2023 cade il 70° della fondazione del Memoriale della Shoah Yad Vashem di Gerusalemme, nato in Israele nel 1953 per mantenere solenne e perpetua memoria dei 6 milioni di ebrei sterminati durante la Shoah e, nel contempo, nell’annesso Giardino dei giusti, anche degli uomini e delle donne “gentili”, che con sacrifici personali e, spesso a rischio della propria vita, senza alcun tornaconto personale hanno salvato almeno un ebreo. Questo in quegli anni tragici nei quali nei paesi europei occupati dalla Germania nazista o con essa alleati, in tanti sono i volenterosi collaboratori e/o indifferenti spettatori dei carnefici della terrificante macchina tedesca della deportazione e dello sterminio.

Cito solo un caso di Giusti tra le nazioni, per averli personalmente conosciuti e frequentati, Girolamo Sotgiu e Bianca Ripepi. Nel 1939, sardo lui e calabrese lei, erano emigrati a Rodi, allora possedimento italiano dalla Guerra Italo-turca del 1911-13. Insegnano entrambi, Bianca in una scuola elementare e Girolamo in un liceo. A Rodi dalla notte dei tempi è presente una forte comunità ebraica, poi rafforzata dall’arrivo degli ebrei espulsi dalla Spagna, chiamati sefarditi, alla fine del XV secolo, che trovarono rifugio nei territori dell’Impero Ottomano, di cui l’isola greca faceva parte. Girolamo, per le sue idee antifasciste, è arrestato e sospeso dall’insegnamento. il padre era stato sindaco socialista di Olbia e il figlio per sfuggire alle vessazioni dei fascisti locali aveva studiato a Roma, frequentando un gruppo di giovani destinato a segnare la vita politica e culturale della capitale: Mario AlicataPietro Ingrao, Antonio Amendola, Renato GuttusoGiuliano Briganti, Paolo Manacorda e Domenico PurificatoÈ accusato, tra l’altro di avere solidarizzato con i Greci e di essere contrario alla loro “italianizzazione”. Per contribuire al magro bilancio familiare s svolge lezioni private a ragazzi ebrei espulsi dalla scuola. Nel 1944, quando Rodi è occupata militarmente dai Tedeschi e iniziano i rastrellamenti per la deportazione degli Ebrei, Girolamo e Sotgiu sono sempre più coinvolti in iniziative in loro aiuto. Riescono a salvare una bambina di otto anni, Lina Kantor Amato, falsificando un documento e facendola passare per loro figlia. Poi, dopo qualche mese, i genitori, sfuggiti alla deportazione, tornarono a Rodi, ripresero la bambina e riuscirono a scappare in Sudafrica.

I coniugi Sotgiu, divenuti nel dopoguerra, lui parlamentare del Partito comunista e anche apprezzato storico, nonché preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari, lei insegnante, collaboratrice della RAI e dirigente dell’Unione donne italiane, con grande riservatezza e pudore non hanno mai fatto vanto dei sacrifici e dei rischi affrontati in questa vicenda.

Il riconoscimento del titolo di Giusti tra le nazioni per entrambi è avvenuto dopo la loro scomparsa, nel 2015. A farsi carico della complessa pratica e della rigorosa documentazione necessaria, è stata proprio la bambina, ormai donna anziana, che rivive la storia della propria avventurosa salvezza leggendo il libro autobiografico, Da Rodi a Tavolara. Per una piccola bandiera rossa, pubblicato per le edizioni A&D, da Bianca Ripepi nel 2002, solo dopo la morte del marito, sepolto nel piccolo cimitero della selvaggia isola di Tavolara.

Tornando al tema della Giornata europea dei giusti, occorre ricordare che il Parlamento Europeo nel 2012 aveva raccolto un appello pubblico lanciato nel nostro paese, che era stato promosso Marek Halter, scrittore e attivista per i diritti umani, Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia in Italia e da Gabriele Nissim, storico, presidente della fondazione GARIWO, acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide. La GARIWO è una onlus con sede a Milano, con solide collaborazioni internazionali e molteplici attività formative, ispirate dall’idea che la memoria del Bene sia un potente strumento educativo e serva a prevenire genocidi e crimini contro l’Umanità. Tra i firmatari dell’appello era state anche personalità come Umberto Eco, Ferruccio De Bortoli, Giancarlo Caselli.

Gabriele Nissim ha pubblicato con l’editore Mondadori il libro, Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l’uomo che creò il giardino dei giusti. Nel Giardino dei Giusti ogni albero piantato ricorda un uomo che durante la Shoah ha salvato almeno un ebreo dalla persecuzione nazista.

Moshe Bejski, nato nel 1920 in un villaggio vicino a Cracovia, fervente sionista, per ragioni di salute non realizzò il sogno di partire per la Palestina. A seguito dell’occupazione tedesca e dell’avvio della “soluzione finale” per gli Ebrei d’Europa, nel 1942 Moshe e i fratelli furono deportati in un campo di concentramento di Plaszow, alla periferia di Cracovia, così come quello più noto di Auschwitz. L’intera comunità ebraica della città, di ben 60 mila unità subì la stessa sorte. Prima di essere liberato, nel maggio del 1945, dai soldati dell’Armata Rossa, Moshe Bejski fa personale esperienza sia dell’ostilità e diffidenza dei suoi vicini ed amici polacchi presso i quali aveva sperato di trovare rifugio durante un suo tentativo di fuga dal lager, sia della protezione di Oskar Schindler – il protagonista del bellissimo film premio Oscar, Schindler List, di Steven Spielberg. Emigrato finalmente in Israele, si laurea in Legge e, come altri “salvati” di fronte all’ecatombe dei “sommersi”, soprattutto della Polonia, rimane silente per anni, tanto che pochi erano al corrente del suo essere sopravvissuto alla Shoah.

Solo nel 1961, al processo pubblico contro Adolf Eichman, a seguito del quale Hannah Arendt elaborò la stimolante categoria interpretativa della “banalità del male”, rese una testimonianza puntuale e commovente delle condizioni del campo di concentramento di Plaszov. Testimone autentico, come Primo Levi, perché come superstite, ha vissuto e attraversato la terribile storia narrata.

Divenuto giudice della Corte Suprema d’Israele, è nominato anche presidente della Commissione dei Giusti presso il Memoriale di Yad Vashem, succedendo a Moshe Landau, il giudice di Eichman. A differenza di questi, Bejski propone che i Giusti tra le nazioni non siano necessariamente eroi puri e irraggiungibili: neppure Oskar Schindler, alla cui morte pronuncia un discorso commosso, lo era stato. Per entrambi il fondamento è costituito dalla tradizione talmudica dei 36 giusti, che non si conoscono tra di loro e vivono in paesi diversi che in ogni generazione consentono al mondo di sopravvivere. Di qui l’espressione talmudica, “chiunque salva una vita salva il mondo intero”.

Per la Giornata europea in memoria dei Giusti è stata scelta la data del 6 marzo proprio perché in quel giorno, nel 2007, è scomparso Moshe Bjeski.

Con essa, come recita un passaggio della Dichiarazione del 2012 del Parlamento europeo, Giusti da onorare sono anche tutte le “persone che hanno salvato vite umane nel corso di tutti i genocidi e omicidi di massa, come ad esempio quelli di cui sono stati vittime armeni, bosniaci, cambogiani e ruandesi, e degli altri crimini contro l’umanità commessi nel ventesimo e ventunesimo secolo”.

Da onorare e anche proporre come esempio e come modello perché come recita un altro passaggio della dichiarazione, il ricordo del bene è fondamentale nel processo dell’integrazione europea, perché insegna alle generazioni più giovani che chiunque può decidere di aiutare gli altri esseri umani e di difendere la dignità umana, e che le istituzioni pubbliche hanno il dovere di rimarcare l’esempio rappresentato dalle persone che sono riuscite a proteggere coloro che hanno subito persecuzioni fondate sull’odio”.

Giorno del ricordo per le vittime delle foibe: per non dimenticare la tragedia

Giorno del ricordo per le vittime delle foibe: per non dimenticare la tragedia

 

“La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e quelli presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica e altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero” (Articolo 1, Legge 92 del 30 marzo 2004).

La persecuzione e l’eliminazione fisica di alcune migliaia di Italiani, precipitati, nei casi più tristemente noti, in profonde cavità naturali nei terreni carsici, chiamate foibe (quella di Basovizza a Trieste è stata dichiarata monumento nazionale) e l’esodo forzato di circa 300 mila persone, la maggior parte della popolazione italiana dall’Istria, Fiume e Dalmazia è uno dei momenti più drammatici e tormentati della storia contemporanea del nostro Paese. E si trattò di 300 mila Italiani. “Italiani per nascita e Italiani per scelta”, come si arguisce dal titolo del bel libro di Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo; una ferita aperta della storia italiana (Solferino, 2019).

La memoria è un documento imprescindibile per ricostruire il passato ma è anche molto fragile e deve diventare un dovere civico, anche perché, come tante persone che hanno vissuto storie tragiche, a livello individuale possono scattare i meccanismi dell’oblio o della rimozione. Ai fini della sua conservazione sono d’indubbia importanza i libri di storie vissute e, soprattutto per la formazione degli studenti, le visite guidate nei musei che nel tempo sono stati creati da comunità di profughi istriani-giuliano-dalmati.

In primo luogo a Trieste, nel Porto Vecchio, all’interno del Civico Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata, la raccolta degli oggetti quotidiani che gli esuli portarono via dalle proprie case, e la galleria dei volti senza nome che rinvia, come un drammatico memoriale a quell’umanità abbandonata al proprio destino. Sull’esempio triestino sono sorti altri piccoli archivi-musei: è il caso dell’Archivio museo storico di Fiume a Roma, collocato nel quartiere denominato Giuliano-Dalmata, dove nel dopoguerra trovò rifugio una numerosa comunità di profughi che furono ospitati nelle baracche destinate ai lavoratori impegnati nella costruzione dei monumentali edifici dell’EUR, che dovevano ospitare l’Esposizione Universale Roma per il ventennale della marcia su Roma, che non si svolse per l’inizio della guerra. Contiene anche una ricca biblioteca e promuove pubblicazioni e iniziative per l’intera cittadinanza, il suo direttore, Marino Micich, figlio di esuli dalmati, studioso e animatore culturale, è anche coautore del pregevole recente volume, Foibe, esodo, memoria. Il lungo dramma dell’italianità nelle terre dell’Adriatico orientale (Aracne, 2023).

Merita di essere menzionato anche l’Ecomuseo Egea di Fertilia, vicino ad Alghero, dedicato anch’esso alla memoria dell’esodo dei Giuliano-Dalmati, che trovò ospitalità e anche una rara buona accoglienza nel borgo agricolo sorto a seguito della bonifica attuata negli anni del Regime. Il museo è intitolato a Egea Haffner Tomazzoni, la Bimba con la valigia, ritratta nella famosa fotografia, diventata quasi un’icona della tragica storia di quell’esodo.

L’istituzione del giorno del ricordo ha costituito, dunque, un doveroso e tardivo riconoscimento delle sofferenze subite da un numero considerevole di nostri concittadini, consentendo il salvataggio di una memoria che stava sparendo, quella degli Italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara. Ha permesso inoltre, come ha giustamente sottolineato Raoul Pupo, nel recente libro, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza 2021) la reintegrazione nella storia nazionale di quella componente adriatica, che ha un retroterra importante. Anche il fatto che la legge istitutiva sia stata votata quasi all’unanimità è positivo, perché ha sottratto la tragedia istriano-dalmata a un uso di parte.

Nella storiografia più recente, che ha potuto avvalersi della documentazione archivistica non solo italiana, ma anche croata e slovena, libera da pregiudizi ideologici, gli eventi drammatici intervenuti al confine orientale tra il 1943 e il 1946/47 non sono spiegabili semplicemente come odio slavo-comunista verso gli italiani o gli italofoniné come mera reazione verso le atrocità commesse in terra jugoslava dall’Italia monarchico-fascista con l’aggressione militare in alleanza con la Germania nazista nel 1941, preceduta dalle politiche di snazionalizzazione nei confronti delle minoranze slavofone dal 1922 in poi.

Agli italiani che erano espulsi e intimiditi, in alcuni casi si aggiunsero non italiani che profittarono dell’occasione per scappare dalla Jugoslavia comunista di cui non tutti erano entusiasti, nonostante l’epopea della lotta partigiana contro l’occupazione tedesca e italiana. D’altronde nelle zone di confine il bilinguismo è diffuso e non era facile distinguere, ad esempio un croato bilingue da un italiano.

Per quanto riguarda le tristi vicende dell’esodo – gli esuli che s’imbarcavano, ricevevano il “certificato di profugo”, che dava diritto nell’Italia di allora distrutta dalla guerra, a ricevere 30.000 lire a capofamiglia, più 2.000 lire per ogni altro componente, oltre a un posto in cui dormire e ai buoni pasto.

Nella memoria di molti profughi nei decenni successivi hanno costituito indubbio motivo di sofferenza la non conoscenza della loro tragedia, la diffusa e duratura tendenza anche in ambienti acculturati a negarle o minimizzarle e, ancor più, il disinteresse per le loro storie personali e familiari che sono parte integrante della storia del nostro Paese.

La letteratura ha svolto e può continuare a svolgere una funzione importante per contrastare questo fenomeno. Ad esempio Fulvio Tomizza, che nei suoi libri, tradotti in diverse lingua – tra questi Materada (Mondadori 1960) – ha narrato non solo l’esodo degli Italiani d’Istria, ma anche la vita sofferta delle comunità slave durante il Fascismo ed è significativo che dopo la sua morte il forum a lui intestato organizza un festival di letteratura transfrontaliero che si svolge a Trieste, Capodistria e Umago.

Poi Marisa Madieri che nel suo poetico diario-memoir, Verde acqua (Einaudi, 1987), con una bellissima introduzione di Claudio Magris, divenuto suo marito, racconta, a partire dalla sua vita vissuta, che lei, nata a Fiume nel 1938, era di una famiglia ungherese, il cui cognome era stato prima Madjarić, poi Madierich, e, infine, quando arrivò a lei, Madieri, avendo optato per la cittadinanza italiana: un caso esemplare, ma non raro in quella che fu la Mittel-Europa, della quale l’area adriatica era una propaggine, di complessa identità etnica e culturale.

Merita di essere riportato l’incipit del suo racconto: “19 marzo 1982. Ci sono giorni in cui guardo volentieri indietro, altri in cui il passato si fa opaco, elusivo. Gli interessi contingenti prendono il sopravvento. Poi, d’improvviso, il filo segreto del tempo che tesse la nostra vita rivela la sua tenace continuità. Uno squarcio, un tuffo al cuore. Tutto è ancora presente”.

La Shoah: il più grande sistematico e orribile genocidio della storia

La Shoah: il più grande sistematico e orribile genocidio della storia

 

Il 27 gennaio di 78 anni orsono “Ad Auschwitz c’era la neve/il fumo saliva lento/nel freddo giorno d’inverno/E adesso sono nel vento”, cantava Francesco Guccini, ma il “grande silenzio intorno” fu finalmente rotto dall’arrivo dei primi reparti della ormai vittoriosa Armata Rossa che spalancarono il cancello di quel grande campo di lavoro forzato e di sterminio, sopra il quale campeggiava la scritta terribile e ossimorica: Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi).

La Giornata della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno al fine di commemorare le vittime della Shoah. È stata istituita dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria. In Italia l’istituzione risale alla legge  20 luglio 2000, n. 211 in cui si definiscono così le finalità e le celebrazioni del Giorno della Memoria: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, Giorno della Memoria, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

In occasione del Giorno della Memoria di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».

Con la formazione del Terzo Reich in Germania, al secolare antigiudaismo cristiano e all’antisemitismo delle correnti politiche e culturali reazionarie dell’Ottocento e del Novecento si aggiunge la suggestione di una completa concentrazione e totale distruzione degli Ebrei d’Europa. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, essi sono circa nove milioni: un universo composito e diversificato, che si colloca tra tradizione e modernità, chiusura in se stessi e assimilazione, osservanza religiosa e secolarizzazione. Un universo che ha avuto, in epoca contemporanea, un ruolo di primo piano e d’avanguardia nella produzione artistica e letteraria, nella ricerca scientifica, nelle professioni liberali e nella stessa politica.

A seguito delle leggi di Norimberga del 1935 e di susseguenti legislazioni razziali come quella italiana del 1938, la discriminazione e la persecuzione si indirizza, a partire dal 1941, nel progetto di soluzione finale, in Germania e nell’Europa occupata dai Nazisti dopo l’aggressione del 1939 alla Polonia, in cui era presente la più numerosa comunità ebraica. Milioni di uomini e donne, bambini, giovani, adulti e anziani, sono deportati, sfruttati nella macchina produttiva tedesca, consunti fino alla morte e/o fisicamente eliminati.

È la Shoah: il più grande sistematico, orribile genocidio della storia, in cui milioni e milioni di europei sono coinvolti come vittime, carnefici e spettatori, spesso indifferenti e silenti, a partire dalle autorità militari e politiche.

Ha scritto Raul Hillberg nella presentazione del suo ponderoso volume La distruzione degli Ebrei d’Europa (Einaudi 1996): “Inesorabilmente si formò una macchina destinata a condurre a buon fine lo sterminio, costituita da un dispiegamento di uffici militari e civili, centrali e periferici, all’interno dei quali ogni impiegato e funzionario rispettando le proprie responsabilità, si adoperò a definire, classificare, trasportare, sfruttare e assassinare milioni di vittime innocenti e tutto come se nulla distinguesse la soluzione finale dagli affari correnti”.

Alla Shoah occorre aggiungere anche la deportazione e lo sterminio dei dei Rom e dei Sinti durante la Seconda guerra mondiale, definito in lingua romanì “Porrajmos” (divoramento) o “Samudaripé” (sterminio) che provocò mezzo milione di vittime, per le quali da alcuni anni è stata istituita una specifica giornata del ricordo, il 2 agosto. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, infatti, nella notte del 2 agosto 1944 furono uccisi nelle camere a gas ben 4000 Rom e Sinti, chiamati con disprezzo “Zigeuner”, in maggioranza donne e bambini.

Il razzismo, stregoneria del nostro tempo, secondo la definizione di Francis Ashley Montagu (La razza. Analisi di un mito, Einaudi 1966), precipita nella discriminazione, nella persecuzione, nella deportazione, nello sterminio. La Shoah, come ha scritto Hannah Arendt è stata anche banalità del male. Marco Revelli nel libro Oltre il Novecento (Einaudi 2001) sostiene che per conoscere e comprendere nel profondo il secolo trascorso e il volto terrificante della modernità contemporanea, non si può prescindere da Auschwitz, dal Gulag e dalla Bomba atomica su Hiroshima.

Hanno scritto molti dei deportati sopravvissuti, tra i quali Primo Levi con il suo drammatico vissuto, che i loro aguzzini ripetevano loro: “Nessuno di voi uscirà vivo da questo campo e se anche ne uscirà non avra voglia di raccontare cosa è successo e se anche uscirà vivo e troverà la forza di ricordare, nessuno gli crederà“.

Walter Benjamin, il geniale intellettuale filosofo-sociologo ebreo-tedesco, morto suicida nel 1940, per sfuggire alla Gestapo, mentre cercava di fuggire dalla Francia occupata, nel suo libro, “Tesi di filosofia della storia”, ha illustrato il dipinto famoso di Paul Klee, “Angelus Novus”. Questo è rappresentato con le ali protese verso il cielo; ha il viso con gli acchi spalancati rivolti al cumulo di rovine del passato. Può costituire una illuminante metafora del Giorno della Memoria: solo non ignorando e non rimuovendo il passato si può evitare di precipitare negli abissi e negli orrori che lo hanno connotato.

La tratta degli schiavi: tragedia che ha plasmato il mondo moderno

 

La tratta degli schiavi: tragedia che ha plasmato il mondo moderno

 

Foto di Social History Archive su Unsplash

Si celebra oggi la “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione”, istituita, il 29 luglio del 1998, con una circolare del direttore generale dell’UNESCO, Federico Mayor, nella quale invita i Ministri della Cultura di tutti gli Stati membri a organizzare, il 23 agosto di ogni anno, una serie di eventi al fine di celebrare questa ricorrenza, con il coinvolgimento dell’intera popolazione e, in particolare, di giovani, educatori, artisti e intellettuali. Per la prima volta fu organizzata a Haiti e a Gorée, in Senegal, “l’isola degli schiavi”, proclamata dall’UNESCO, nel 1978, patrimonio dell’umanità, per il suo forte valore evocativo e simbolico, perché per ben quattro secoli è stata il più grande centro della tratta degli schiavi della costa occidentale dell’Africa.

Il 22 febbraio del 1992 Giovanni Paolo II visitò la sua “Maison des esclaves”, pronunciando un discorso coraggioso: “Qui si vede soprattutto l’ingiustizia. È un dramma della civiltà cristiana […]. Sono venuto a rendere omaggio a tutte le vittime sconosciute. […] Purtroppo la nostra civiltà che si diceva e che si dice cristiana, è tornata per un momento, anche durante il nostro secolo, alla pratica della schiavitù. Sappiamo cosa furono i campi di sterminio”. Affermazione quanto mai fondata. Tutte le confessioni cristiane dei paesi euro-atlantici furono coinvolte in forma concorrenziale e talvolta collaborativa nella tratta degli schiavi: i cattolici del Portogallo e della Spagna; i calvinisti dell’Olanda; i luterani della Svezia; gli anglicani dell’Inghilterra.

Nella notte tra il 22 e il 23 agosto del 1791, nella temperie della Rivoluzione francese, nella piccola colonia francese di Saint Dominique, la parte orientale dell’isola caraibica Hispaniola, una rivolta di schiavi (500 mila afroamericani contro i 25 mila bianchi), portò in pochi anni alla fine della schiavitù e alla formazione del secondo Stato indipendente delle Americhe.

La paura del contagio portò all’isolamento del nuovo Stato indipendente che assunse il nome di Haiti ma indubbiamente la rivolta svolse un ruolo cruciale nell’abolizione della tratta transoceanica degli schiavi. La Danimarca l’abolisce nel 1792, gli Stati Uniti nel 1808, l’Olanda nel 1814, la Svezia e la Francia nel 1815, anche se illegalmente, soprattutto verso il Brasile e Cuba, proseguì fino agli ultimi decenni del secolo. Per diversi decenni finisce, almeno legalmente, la tratta ma non la schiavitù degli afroamericani, specie di quanti erano occupati nelle piantagioni.

Premessa della “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione” è il Progetto UNESCO “Route of Enslaved Peoples: Resistance, Liberty and Heritage”, più noto come “Slave Route”, lanciato quattro anni prima, nel Benin, al fine di produrre conoscenze innovative, con reti scientifiche di alto livello, in grado di promuovere iniziative di memoria sul tema della schiavitù, la sua abolizione e la resistenza che ha generato. A livello internazionale il progetto ha, quindi, svolto un ruolo importante nel rompere il silenzio che circondava la storia della schiavitù e collocare nella memoria universale questa tragedia che ha plasmato il mondo moderno, analizzandone cause, metodi, conseguenze e interazioni tra Africa, Europa, Americhe.

Tra queste conseguenze anche quelle demografiche: l’Africa, che all’inizio del 1500 aveva una popolazione superiore all’Europa, nel corso dei quattro secoli successivi vive una lunga epoca di sostanziale stasi demografica, per la sottrazione plurisecolare delle sue energie più vitali e, nell’Ottocento, in più, dell’impatto terribile del dominio coloniale sull’intero continente. L’Europa nello stesso periodo vede la sua popolazione crescere di ben cinque volte, oltre a riempire di se, con le migrazioni transoceaniche, interi continenti.

La segretaria generale dell’UNESCO, la bulgara Irina Bokova, nel messaggio del 2013, ha scritto: “Attraverso le loro lotte, il loro desiderio di dignità e libertà, gli schiavi hanno contribuito all’universalità dei diritti umani. Dobbiamo insegnare i nomi degli eroi di questa storia, perché sono gli eroi di tutta l’umanità. Nel rendere omaggio, il 23 agosto di ogni anno, alle donne e agli uomini che hanno combattuto quest’oppressione, l’UNESCO desidera stimolare la riflessione e il dibattito su una tragedia che ha segnato il mondo di oggi”.

La “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione”, rapidamente ha assunto un più ampio significato. Lo possiamo constatare nelle parole del messaggio inviato ai ministri della cultura di tutti gli Stati membri dell’UNESCO, il 1° agosto del 2022, dalla nuova giovane segretaria generale, Audrey Azoulay, francese di prima generazione, di una famiglia ebrea-marocchina. Ha scritto: “È tempo di abolire lo sfruttamento umano una volta per tutte e di riconoscere la dignità uguale e incondizionata di ogni individuo. Oggi ricordiamo le vittime e i combattenti per la libertà del passato in modo che possiamo ispirare le generazioni future a costruire società più giuste”.

La storica Patrizia Del Piano, nel bel libro, “La schiavitù in età moderna” (Laterza 2011), ne ha ricostruito le origini, il consolidamento e il declino, fra l’Africa, le Americhe e l’Europa, documentando come essa abbia segnato l’Occidente e riflettendo anche come le modalità con cui si realizzò l’abolizione abbia aperto la strada a nuove forme di dipendenza personale.

A questo si aggiunge il massiccio fenomeno in crescita delle cosiddette nuove schiavitù contemporanee (restrizioni delle libertà personali, quali il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale). Nel 2021 l’Organizzazione internazionale del lavoro, Walk Free e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno congiuntamente un rapporto, “Global estimates of Modern Slavery: Forced Labour and forced Marriage” (“Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato”).

Si documenta che ben 50 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù moderna: 28 milioni sono costretti al lavoro forzato e 22 milioni al matrimonio forzato, non solo dipendente da consuetudini e pratiche patriarcali consolidate nel tempo. L’incidenza reale dei matrimoni forzati, in particolare quelli che coinvolgono minori di 16 anni o meno, è probabilmente molto più alta di quanto registrato dalle stime attuali, che si basano su una definizione maggiormente ristretta e non includono tutte le tipologie di matrimoni infantili. I matrimoni infantili sono considerati forzati perché un bambino non può dare legalmente il proprio consenso al matrimonio.

Secondo la Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio dell’Organizzazione internazionale del lavoro, del 1930, pur approvata da quasi tutti gli Stati, lavoro forzato è definito “ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente”. La maggior parte dei casi di lavoro forzato (86 %) si registra nel settore privato. Al suo interno ben il 23% è costituito dallo sfruttamento sessuale ai fini commerciali: quattro su cinque delle vittime sono donne. Una percentuale non irrilevante del lavoro forzato, il 14%, è imposto dagli Stati.

Ulteriore dato inquietante: quasi uno su otto di tutti i lavoratori forzati sono bambini (3,3 milioni) e più della metà di essi sono vittime di sfruttamento sessuale a fini commerciali. I migranti, infine, sono particolarmente vulnerabili al lavoro forzato.

La celebrazione della “Giornata internazionale per il ricordo della Tratta degli schiavi e della sua abolizione” deve certamente conservare e approfondire ulteriormente la memoria della tragedia immane della plurisecolare tratta degli schiavi ma anche, come giustamente l’UNESCO ci sollecita a fare, a conoscere e combattere, parafrasando il titolo del libro summenzionato di Patrizia Del Piano, il terribile presente flagello della “schiavitù contemporanea”.

Il senso del sacrificio della vita di Salvo D’Acquisto a 80 anni dalla morte

Il senso del sacrificio della vita di Salvo D’Acquisto a 80 anni dalla morte

 

1975 – Francobollo commemorativo del sacrificio del Vice Brigadiere Salvo D’Acquisto a Torre di Palidoro (Roma) il 23/09/1943. Foto: Carabinieri.it

Il 23 settembre del 1943 Salvo D’Acquisto, giovane vicebrigadiere della stazione dei carabinieri di Torrimpietra, vicino a Roma, fu fucilato dagli occupanti tedeschi, dopo essersi autoaccusato di essere il solo responsabile di un attentato in cui che aveva provocato la morte di un soldato tedesco e il ferimento di altri due commilitoni. Per il vero non vi era stato alcun attentato: i soldati tedeschi, rovistando una cassa di munizioni nella caserma della Guardia di Finanza della vicina Torre di Palidoro, la sera del 22 settembre, avevano involontariamente provocato lo scoppio di una bomba.

Per mascherare la propria imperizia e, ancor più, per terrorizzare preventivamente la popolazione, trasformò l’incidente in un attentato e rastrellò 22 civili innocenti a Torrimpietra per fucilarli come rappresaglia. Furono, quindi, portati in un camion davanti alla Torre di Palidoro e obbligati a scavare la propria fossa comune.

Salvo D’Acquisto, in assenza del brigadiere, dopo aver tentato inutilmente di riportare alla realtà dei fatti il comandante delle SS, con fermezza si rifiuta di fare i nomi degli autori dell’attentato mai avvenuto. Per salvare i 22 malcapitati, dopo aver ottenuto la promessa della loro salvezza, si autoaccusò di essere il solo responsabile e affrontò dignitosamente la fucilazione da parte del plotone d’esecuzione, “imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell’Arma”, come recita la motivazione con la quale gli fu concessa la medaglia d’oro al valore militare.

L’episodio tragico si colloca nel contesto del vuoto istituzionale immediatamente successivo all’otto settembre, quando Badoglio comunicò per radio la firma dell’armistizio con gli Alleati Angloamericani. Si ha, quindi, la fuga notturna ingloriosa del re, del figlio Umberto, dei vertici militari e dello stesso capo del governo verso Pescara, per dirigersi poi a Brindisi, nel Sud già occupato dagli Alleati.
“Tutti a casa” è il titolo di un film famoso di Comencini che riassume il sentimento e la reazione dei più in quel momento. Il grande giurista-scrittore sardo-mittel-europeo, Salvatore Satta, nel libro dal titolo, colto ma altrettanto emblematico, ha parlato, al riguardo, di “morte della patria”.

Gli ex alleati tedeschi, dopo l’Otto settembre procedono immediatamente all’occupazione militare del Centro-Nord, mentre i militari italiani in Italia come in Grecia, Jugoslavia, sono lasciati senza direttive e, posti di fronte all’alternativa di arruolarsi nel nuovo esercito della collaborazionista Repubblica sociale o essere deportati in Germania, optano, per la maggior parte, per questa seconda ipotesi, oppure tornano autonomamente a casa o si uniscono ai movimenti partigiani.

Carabinieri: udienza dal Santo Padre per gli 80 anni dal sacrificio del Vicebrigadiere M.O.V.M Salvo. Foto: Ministero della Difesa

Nel caso di Roma si ha uno spontaneo, coraggioso, tentativo di fermare l’ingresso truppe tedesche nella Capitale, che vede impegnati reparti dei granatieri della Sardegna e civili mal armati che danno l’avvio alla Resistenza.
La reazione rabbiosa delle SS a Torrimpietra, località alle porte di Roma, fu indubbiamente causata anche dalla constatazione che la popolazione italiana nel suo complesso non seguiva Mussolini nella sua ultima avventura di alleato-suddito dei Tedeschi e, in più, non era disposta a subire supinamente l’occupazione.
Occorre anche sottolineare che i Carabinieri, a differenza della polizia, non erano stati oggetto d’intervento da parte del regime e avevano conservato la propria identità di arma, dipendente sempre dall’Esercito e non dal Ministero degli Interni, con una forte fedeltà alla Corona e un’attenzione peculiare ai bisogni delle comunità, in specie quelle delle campagne.

Il sacrificio della vita di Salvo D’Acquisto rinvia a quello di un altro giovane carabiniere, Domenico Capannini, di Cortona che, nella notte tra l’otto e il nove settembre, fu trucidato, nella sede del Comando di Trento, per essersi rifiutato di arrendersi e consegnare le armi a un reparto di soldati tedeschi che in gran numero, dal Brennero, penetravano in Italia per punire lo Stato che aveva rotto l’alleanza. Ne parla il saggio intitolato “Domenico Capannini. Il sacrificio di un carabiniere per l’indipendenza e la dignità del nostro paese”.

La vicenda del sacrificio di Salvo D’Acquisto fu rapidamente molto nota e ha avuto anche due rivisitazioni cinematografiche: nel 1974 con un film di Romolo Guerrieri (Romolo Girolami), nel quale egli è interpretato da Massimo Ranieri. Nel film, senza enfasi, grazie anche alla sceneggiatura di Giuseppe Berto, il giovane mite vicebrigadiere, che vuole aiutare la popolazione senza il ricorso alle armi, si scontra con un militante socialista, interpretato da Enrico Maria Salerno, che spinge invece per la lotta armata.
Nel 2003, poi, la Rai ha prodotto un secondo film, diretto da Alberto Sironi, sempre con l’essenziale titolo, “Salvo D’Acquisto”, andato in onda su Raiuno in due puntate, con uno share molto elevato e oltre sei milioni di spettatori. Un grande successo di pubblico, grazie anche alla coinvolgente interpretazione di Beppe Fiorello e anche di critica, anche se L’Osservatore Romano accusò la fiction di aver “tralasciato la dimensione cristiana” del sacrificio di D’Acquisto.

Il 16 settembre scorso, Papa Francesco, ricevendo in udienza ufficiali e militari dell’Arma dei carabinieri, nell’occasione dell’ottantesimo anniversario del sacrificio di Salvo D’Acquisto, ne ha proposto un appassionato ricordo-riflessione: “Oggi siamo qui nel ricordo del vice brigadiere Salvo D’Acquisto, servo di Dio ed eroe della Patria, che pagò col sacrificio della vita il suo impegno nell’Arma dei Carabinieri e ottant’anni fa, il 23 settembre del 1943, s’immolò per salvare degli ostaggi innocenti catturati dalle truppe naziste. Ci fa bene guardare a questo vostro collega, alla missione che svolse con spirito di abnegazione, alla testimonianza estrema che ci ha lasciato. Facciamone memoria insieme, ma non per restare fissati nel passato quanto, piuttosto, per ritrovare motivazioni solide su cui costruire il futuro”. Questo intervento del Papa può costituire un autorevole stimolo per portare a termine il travagliato processo di beatificazione, avviato già dai primi anni Ottanta, durante il quale sono stati raccolti ben tre ponderosi volumi di documenti sulla sua vita esemplare: famiglia numerosa e povera, studi presso i Salesiani, militanza nell’associazionismo cattolico, arruolamento nei carabinieri, servizio militare sul fronte nordafricano, vittima volontaria e innocente per salvare 22 uomini destinati anch’essi a essere immolati innocenti.

Così come è avvenuto per Massimiliano Maria Kolbe, il francescano polacco, che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame nel campo di concentramento di Auschwitz, anche per Salvo D’Acquisto si augura che presto sia riconosciuto martire, in base “all’eroica testimonianza della carità”.

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO

 

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO
 
di Francesco Casula
 
Da sempre si è favoleggiato di Giorgio Napolitano figlio di Umberto II. Un giornalista, certo Cristiano Lovatelli Ravarino lo ha scritto esplicitamente in un articolo il 5 marzo 2012 in cui parla della madre di Napolitano che, “dama di compagnia di Maria Josè, divenne amante di Umberto II, da cui sarebbe nato il nostro pargolo”. Penso che sia una fola e comunque non mi interessa: credo infatti che appartenga al genere gossip e scandalistico che tanto piace a certa stampa italica e a certa opinione pubblica decerebrata. Mi interessa (e indigna) invece l’essere lui stato un cinico ultrasabaudo, giustificatore dello sterminio piemontese nel Meridione, in nome dell’Unità d’Italia, celebrata come foriera “di magnifiche sorti e progressive” invece che fonte di disastri e infamie e di devastante colonialismo interno, consumato sulla pelle e sul sangue dei sardi e dei popoli del Sud. Ecco cosa dichiarava in veste di Presidente della Repubblica nel Discorso al Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150ºanniversario dell’Unità d’Italia: “Fu debellato il brigantaggio nell’Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno” Pare che poco abbia imparato da uno che avrebbe dovuto essere, in quanto comunista, un suo maestro. Mi riferisco ad Antonio Gramsci che ha scritto:” “Lo stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.” Molti furono, infatti, i paesi e le città che diedero un contributo in vite umane. Da ricordare prima di tutti il massacro di Bronte da parte di garibaldini comandati da Nino Bixio, e poi San Lupo ed altri paesi completamente rasi al suolo, Casalduni e Pontelandolfo che il Generale Cialdini fece distruggere ed incendiare dopo aver fatto trucidare i cittadini inermi. La crudeltà di quella che fu una vera e propria guerra civile, si manifestò anche con gesti disumani come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri dei briganti o delle loro teste mozzate. E passi non aver ascoltato Gramsci, per lui troppo di sinistra, ma almeno da un giornalista moderato come Paolo Mieli, avrebbe dovuto imparare qualcosa. Ecco quanto ha sostenuto il prestigioso giornalista e storico :”Il Sud è vittima di una storia negata e con l’occupazione piemontese ha subito massacri e stupri indicibili, citando Pontelandolfo e Casalduni, i nazisti hanno imparato dagli italiani”. Ma tant’è: il pluripresidente ultrapatriottardo e statalista, giustifica tutto ciò in nome e per conto del superiore valore dell’Unità. Alla stessa maniera giustificò, anzi elogiò senza mezzi termini il brutale intervento dei carri armati di Mosca in Ungheria, parlando nell’VIII congresso del Partito comunista italiano, (che si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956) e sposando totalmente la linea stalinista dettata dal segretario Palmiro Togliatti. Questa volta in nome dei superiori valori dell’URSS e dell’Unità dei Paesi Comuinisti! Qui mi fermo: ma occorrerà pur ritornare al suo novennato come Presidente della Repubblica, segnato da una serie di decisioni e comportamenti nefasti: il suo ruolo nella guerra alla Libia, il suo (vergognoso) no a Gratteri ministro della Giuistizia, la nomina di Monti capo del Governo ma soprattutto i suoi comportamenti e atti, per lo meno obliqui, nei confronti della trattativa Stato-mafia