Recensione. Richard J Evans: Il terzo reich al potere. 1933-1939

Il secondo libro della triologia di Evans sul nazismo. Un libro magistrale e illuminante.


Il Terzo Reich al potere. 1933-1939

Nell’interrogarsi sulle origini della seconda guerra mondiale, Eric Hobsbawm nel suo “Secolo breve” con una battuta afferma che si potrebbe rispondere in due parole: Adolf Hitler. Subito dopo precisa che, naturalmente, le cose sono un po’ più complesse, ma la battuta mantiene il suo valore di fondo. Anche Richard J. Evans in questo libro magistrale dimostra abbondantemente che la guerra fu fin dall’inizio l’obiettivo fondamentale di Hitler e del nazismo.

Evans è autore di una triologia di grande successo di pubblico e di critica. Iniziare a parlarne dal secondo volume può essere discutibile, ma la scansione dei tre volumi li rende, benché connessi, indipendenti uno dall’altro. Semplicemente mi è capitato tra le mani prima il secondo volume, incentrato sul “Terzo reich al potere. 1933-1939” del primo volume.

Evans ha scelto una suddivisione tematica del libro: le sette parti che lo compongono prendono in esame repressione e polizia; propaganda e cultura; religione e educazione; economia e società; vita quotidiana e antisemitismo e politica razziale e, infine, politica estera.

Questo taglio tematico fa sì che alcuni argomenti si ripresentino più volte all’interno del testo ma le grandi capacità di scrittore di Evans mantiene costante e vivissimo l’interesse del lettore.

Discutere di ogni singolo aspetto comporterebbe scrivere parecchie pagine. Perciò, anche per lasciare al lettore il gusto della lettura, mi limito a indicare alcuni temi che mi sono parsi centrali e importanti nel libro.

Continuità e innovazioni

Il primo dato su cui è bene soffermarsi è dato dal fatto che le componenti dell’ideologia nazista non erano nuove e si trovavano tutte, più o meno, nella società tedesca molto prima del 1933. La novità portata dal nazismo consistette nell’integrarle in un insieme coerente. Altrettanto importante è il richiamo dell’attenzione di Evans sulle somiglianze spesso eclatanti tra alcune delle politiche del Terzo Reich e quelle perseguite altrove in Europa e non solo negli anni Trenta. Evans sottolinea il rapido ed esteso cambiamento operato dal regime nazista, ma sottolinea anche la continuità con il passato. L’argomento centrale è che mentre lo Stato è stato portato sotto il totale controllo nel giro di pochi mesi, per molti versi la società è cambiata molto poco in questi anni, almeno per l’ampia massa della popolazione abbastanza fortunata da non rientrare nelle odiate categorie del governo. Amministrazione, burocrazia e per certi aspetti la vita delle università (che conobbero comunque un consistente calo di iscrizioni almeno in alcune facoltà), seppur “nazificate” almeno negli organismi direzionali e epurate dal personale di origini ebraica, e talvolta in contrasto con gli enti del partito, mantennero sostanzialmente le proprie posizioni precedenti.

La stessa “notte dei lunghi coltelli” che ridimensiona drasticamente il potere delle camicie brune è una brutale operazione di “normalizzazione” del regime il quale, cancellando nel sangue la possibilità di una seconda, radicale ondata rivoluzionaria, apre la strada a patteggiamenti di Hitler col mondo industriale, affaristico e con l’esercito. L’A. presenta questo evento come una strategia volta a distruggere qualunque forma di opposizione, sia interna che esterna. Evans vi vede una interconnessione delle persecuzioni del regime contro tutti i suoi nemici, che dovrebbero essere affrontate nel loro insieme. Questa strategia si inserisce anche nella più ampia tesi dell’autore, che sottolinea il terrore nazista laddove alcuni storici l’hanno minimizzato: il regime intimidì i tedeschi per ottenere l’acquiescenza; “la minaccia di essere arrestati, accusati e imprigionati […] incombeva su ogni cittadino del Terzo Reich, perfino […] sui membri del Partito nazista stesso” (p. 111). Il terrore è uno dei tratti distintivi del terzo reich. La stessa Gestapo era in realtà un organismo molto piccolo: a renderla tenutissima dai cittadini era la convinzione diffusa tra la gente che, all’opposto, la polizia segreta fosse ramificata capillarmente e disponesse di spie e informatori in ogni luogo.

Ambiguità

Questa forma di “catalogazione” dei nemici del nazismo apre considerazioni in diversi aspetti. In primo luogo “nemici” non erano soltanto coloro che vi si opponevano per ragioni politiche, ma anche per motivi razziali: il razzismo biologico dei nazisti formava uno spartiacque tra cittadini beneficiari di tutele, assistenza e benefici e coloro che ne erano esclusi: la chiusura di attività (industriali, commerciali ecc.), la confisca di beni e liquidità, l’esclusione da posti di lavoro degli ebrei, se da un lato spalancava la porta degli inferi di una vita di stenti, privazioni e rischio a coloro che non volevano o non potevano emigrare, dall’altro favoriva l’inclusione di quanti potevano dimostrare di avere le carte in regola dal punto di vista razziale. Cattedre nelle scuole e nelle università, eliminazione della concorrenza nelle attività commerciali, rilevamenti nell’industria e in ambito bancario e finanziario o in altri ambiti lavorativi legava i beneficiari al regime trasformandoli in sostenitori fedeli e sottomessi.

Si tratta di un fenomeno che inevitabilmente generava molte ambiguità tra la popolazione: non tutti i beneficiari si sentivano antisemiti in senso stretto; molti continuarono a rifornirsi nei negozi ebrei finché questi sopravvivevano, più per convenienza che per solidarietà, anche se questa in molti casi non venne a mancare. Ma questo significava anche chiudere gli occhi su quanto avveniva nei campi di lavoro, o sulla aberrante politica del regime nei confronti di quanti, afflitti da tare genetiche, malformazioni e altro, venivano percepiti e presentati come un peso economico inutile per la comunità, privati di ogni sostegno, spesso sterilizzati e poi eliminati e, comunque, sulla brutalità generalizzata dei nazisti. Il razzismo biologico costituisce un salto qualitativo rispetto a quelli culturale o religioso. Con le leggi di Norimberga il regime entrava nell’intimità, negli affetti, nei sentimenti della popolazione arrogandosi il diritto di annientarli e prepara il terreno alle atrocità di qualche anno più tardi. (In questi anni non si pensa ancora di eliminare gli ebrei ma di espellerli).

La creazione di un “welfare” ad hoc per quanti avevano sangue sufficientemente ariano aveva anche altre implicazioni. Il taglio di risorse destinate a marginali, vagabondi, oppositori e razzialmente inferiori aveva, per il regime, il duplice vantaggio del risparmio da un lato e di una zavorra considerata inutile e dannosa dall’altro. E si connetteva a quello che era il vero motore dell’economia tedesca di quegli anni: il riarmo.

Evans respinge l’idea che un “miracolo economico” sia avvenuto sotto l’egida nazista, sostenendo che i guadagni economici in questo periodo furono, nel migliore dei casi, parziali e frutto di politiche avviate da precedenti amministrazioni, in particolare da Franz von Papen (pp. 313 ss.gg.). Tutti i settori legati in qualche modo al riarmo conobbero incrementi spettacolari: l’industria pesante e l’innovazione, la chimica e la medicina godettero di finanziamenti corposi e garantiti (su un aspetto della medicina durante il terzo reich, in un libro molto discusso e discutibile, vedi: Norman Ohler: Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista). Ma il riarmo fu finanziato con un disavanzo sempre lievitante che, nell’ottica dei nazisti, sarebbe stato poi riallineato dall’espansione territoriale e quindi economica del reich. Inoltre, se il riarmo trascinò la ripresa economica, non si deve affatto pensare che si sia trattato di un fenomeno accuratamente preparato e organizzato. Evans chiarisce molto bene che rivalità personali, lotte intestine, sostituzioni e la volubilità di Hitler crearono confusione e sperperi.

Hitler aveva ben in mente le privazioni e la denutrizione patite dalla popolazione durante la prima guerra mondiale. Cercò di evitarla, ma l’autosufficienza alimentare fu raggiunta solo parzialmente ed anche per questo motivo l’economia era intimamente connessa alla conquista di uno spazio vitale in Europa orientale che avrebbe garantito l’autosufficienza alimentare alla Germania.

Per certi aspetti, dunque, il terzo reich corrispose a una modernizzazione (comunque già in corso) del Paese; modernizzazione che strideva con le fumose e del tutto infondate teorie che vedevano i tedeschi eredi di antiche tradizioni, soprattutto nelle campagne. Non soltanto il lavoro nelle fabbriche venne militarizzato, anche la società lo fu. Evans tuttavia non vede affatto nel nazismo una forma di religione politica. Certamente desiderava un’adesione attiva al regime, ai suoi organi, alle manifestazioni e alla sua politica. In questo senso la sua visione non è distante da quella di Kershaw in All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949, ma è condivisibile la sua convinzione nel considerare il nazismo come religione politica troppo generica e poco illuminante, tanto più che le due chiese – protestante e cattolica – riuscirono a mantenere sostanzialmente le proprie posizioni precedenti.

Consenso al regime?

D’altra parte, la consapevolezza di governare un paese in cui i lavoratori dell’industria superavano quantitativamente i contadini e nel quale i partiti di sinistra, benché annientati e ridotti al silenzio, erano stati fortissimi e ben organizzati, generò nel regime il tentativo di accaparrarsene i favori. Anche in questo ambito Evans è maestro nel mostrare contraddizioni e ambiguità. La sempre più accelerata politica di riarmo aumentava i ritmi di lavoro; la politica edilizia popolare del regime fu nettamente inferiore a quella degli anni di Weimar e la corruzione dilagante negli organi del regime, che raggiungeva vette spettacolari in alcuni alti papaveri, indignava una classe operaia che si vedeva restringere o annullare tutta una serie di servizi sociali. Ma è anche vero che attraverso le organizzazioni di partito godette di benefici (concerti, abbonamenti a teatro, viaggi, escursioni…) e, in una certa misura, di una maggiore stabilità.

Anche la politica estera era strettamente legata a quella interna. I successi di Hitler nella sua politica espansionistica raggiunti senza colpo ferire a danno dell’Austria e della Cecoslovacchia – ottenuti anche grazie alla fallimentare politica di Francia e Gran Bretagna e a quella cinica di Stalin – garantirono a Hitler grande ammirazione anche tra molti che avevano mantenuto un certo riserbo. La questione naturalmente pone il problema del consenso al regime. Domanda scontata ma fuorviante sia perché, come è ovvio, è complicato misurarlo all’interno di una dittatura in cui è bene fingere per tutelarsi; sia perché “di tutte le componenti che determinano la modernità della dittatura nazista, la sua incessante richiesta di legittimazione popolare fu una delle più singolari” attraverso plebisiciti i cui risultati erano naturalmente falsati  (p. 116).

Più che di consenso, fu la stanchezza accumulata negli anni precedenti dovuta alle turbolenze sociali e politiche e gli effetti devastanti della grande depressione da un lato (sugli anni Trenta si può vedere Philipp Blom. La Grande frattura. L’Europa tra le due guerre (1918-1938)) e la spietata durezza del regime dall’altro dimostratosi capace di annientare le forze di sinistra e di opposizione a garantire la remissività della maggioranza della popolazione e l’assenza di un’opposizione di qualche rilievo. “Nei primi anni Trenta”, chiarisce l’A., “la disoccupazione di massa aveva minato la coesione la coesione e il morale della classe operaia” e quindi indebolito anche i partiti che la rappresentava (p. 423).

A ogni grande evento del regime – la “notte dei lunghi coltelli”, le “leggi di Norimberga”, la “notte dei cristalli” – corrisposero ondate di violenza terrificante. Violenza e intimidazione – chiarisce giustamente Evans in contrapposizione ad altre interpretazioni secondo cui la società tedesca durante il nazismo fu una società dedita all’”autosorveglianza” – erano parte integrante “dei meccanismi di funzionamento del terzo reich” (p. 109).

L’importanza di un libro

Infine, come riesce l’A. a mantenere incollato il lettore alle quasi 600 pagine di testo? Evans dimostra di padroneggiare una letteratura sconfinata mescolando analisi, fonti e narrazione: articoli di giornale, testimonianze, diari, rapporti della Gestapo o di militanti social-democratici intercalano e connettono la narrazione che scorre fluida e avvincente.

Il pericolo di un approccio così personalizzante, che si presterebbe all’accusa di sentimentalizzare il soggetto, è sventato dall’A.  mantenendosi attento a non perdere mai di vista le questioni più ampie e mettendo fortemente in relazione la sua discussione sugli individui con un’analisi della società più in generale. La sua partecipazione empatica e emotiva con le vittime, che pure traspare, non gli fa smarrire l’obiettività dell’analisi e la facilità nel narrare. Non è la semplice applicazione di tecnica narrativa. le testimonianze e gli esempi ripresi da diari e rapporti esemplificano stati d’animo, modi di pensare, atmosfere più generali, che oltrepassano l’esperienza del singolo. Certo, è possibile il rischio di una generalizzazione eccessiva, ma l’A. ne è pienamente consapevole e avverte il lettore. Evans usa questi incisi per aprire considerazioni più ampie e argomentare la sua analisi coniugando egregiamente partecipazione emotiva – sua e di chi legge – con rigore del metodo storiografico.

Il terzo reich al potere è un libro splendido che meriterebbe un posto in ogni libreria.

Buona lettura.

Riviste dei principali municipi italiani – II

Una serie di riviste delle città italiane dalla Emeroteca della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

Tempo fa, sul finire di giugno 2019 pubblicai un articolo in cui segnalavo alcune Riviste dei principali municipi italiani: Riviste dei principali municipi italiani

Le pubblicazioni provengono dall’Emeroteca della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Ora il progetto si è ampliato e con esso anche l’offerta di altre riviste riguardanti le principali città italiane.

Disponiamo di: Alessandria, Alexandria. Rivista mensile della provincia per gli anni 1933-1939; Bergamo, La rivista di Bergamo mensile illustrata, dal 1922 al 1927; Bologna, con Il comune di Bologna rassegna mensile di cronaca amministrativa e di statistica, dal 1925 al 1934 (lacunoso per gli anni 1929 e 1931-32); Cremona. Rivista mensile illustrata della Città e Provincia dal 1929 al 1943; Genova con due pubblicazioni; la prima Il Comune di Genova bollettino municipale mensile disponibile dal 1921 al 1927; la seconda, La grande Genova bollettino municipale per il biennio 1928-29; La Spezia, Il Comune della Spezia. Atti e statistiche dal 1923 al 1940; Lecco, con La rivista di Lecco dal 1924 al 1933; Monza, con Rivista di Monza. Rassegna mensile di vita cittadina e bollettino di statistica del comune di Monza dal 1933-1939; Napoli con il suo Annuario statistico del Comune di Napoli per il solo 1936; anche Piacenza presenta il proprio Annuario della provincia di Piacenza  dal 1882 al 1899 e per il 1904; Taranto, Taranto rassegna del Comune  per il biennio 1937-38.

Assieme alle altre riviste segnalate nell’articolo precedente abbiamo a disposizione un bel corpo di materiale.

Buona consultazione: Emeroteca della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

Una rivista francese sulla storia della Shoah

Unico periodico europeo dedicato alla storia della distruzione degli ebrei d’Europa, e prima rivista storica sull’argomento, la Revue d’histoire de la Shoah  è essenziale per ogni studente o ricercatore che lavori a questa svolta storica. Essa intende fornire una panoramica dell’attuale lavoro sulla storiografia dell’Olocausto.

La Revue d’histoire de la Shoah apre il suo campo di studio anche alle altre tragedie del secolo. Ad esempio vi si trovano studi sul genocidio dei Tutsi in Ruanda, quello degli armeni dell’Impero Ottomano e il massacro degli zingari.

La Revue d’histoire de la Shoah è on line gratuitamente sul sito cairn info per le annate dal 2005 al 2016: Revue d’histoire de la Shoah.

Tra i molti numeri interessanti mi preme segnalare il 1° fascicolo del 2016 n° 204 dedicato a L’Italie et la Shoah, con saggi di affermati studiosi italiani.

La rivista può essere così utilmente affiancata ai Quaderni del centro di studi sulla deportazione e l’internamento realizzati dall’Associazione Nazionale Ex Internati nei lager nazisti (ANEI) e all’Holocaust Encyclopedia indicati qui: Giorno della memoria. Una rivista e un’enciclopedia .

Buona lettura.

Recensione. Antonio Gibelli: La Grande Guerra degli italiani. 1915-1918

Un ottimo libro su come gli italiani vissero la prima guerra mondiale. Una lettura facile e preziosa.

Il valore di cesura epocale della Grande Guerra è un dato di fatto ormai comunemente accettato: Hobsbawm ha fatto iniziare il suo “Secolo breve” col 1914; in un libro discutibile e discusso Arno Mayer ha fatto finire l’Ancien régime alla stessa data e, più recentemente, Richard J. Evans ha chiuso la sua grande sintesi sull’Ottocento con l’inizio della prima guerra mondiale (vedi, Alla conquista del potere. Europa 1815-1914).

Che la Grande Guerra segni la fine del mondo aristocratico come ha sostenuto Mayer, o del mondo formatosi attorno all’ascesa della borghesia, come ritengono Hobsbawm e Evans, poco importa. Ciò che conta è il fatto che la Grande Guerra chiude un’epoca e ne apre un’altra.

La apre all’insegna della novità più sconvolgente: la capacità di produrre morte in modo seriale, anonima e su scala inimmaginabile fino a quel momento. Il progresso tecnologico che si innesta nella produzione bellica introduce per la prima volta la possibilità di produrre armi e munizioni a getto continuo e, conseguentemente, la possibilità di uccidere indefinitamente. Ma in realtà, in quella guerra, per la grande massa di fanti-contadini abituati alla vita dei piccoli paesi, tutto appare sovradimensionato, impressionante: il numero dei proiettili e delle armi, la quantità di derrate alimentari o della posta e… quello dei cadaveri: “i soldati parlano spesso della massa dei morti come se fosse merce accatastata e imballata” (p. 143). La guerra produce anche una morte qualitativamente diversa che inverte il percorso fatto fino allora fin almeno dalla fine del Settecento. Da due secoli si tendeva a rendere la morte più asettica, depurata, meno invadente (si pensi alla costruzione dei cimiteri al di fuori dei paesi); ora, in trincea, i soldati sono costretti a guardare continuamente i cadaveri immobili nella “terra di nessuno”, le loro carni entrare in putrefazione, marcire mutando lentamente in materiale organico e a sentirne il fetore (p. 337).

Il mito risorgimentale dell’eroismo del soldato cade miseramente e questi viene introdotto in un “tritacarne” che lo rende anonimo, lo trasforma in semplice carne da macello, lo spersonalizza inserendolo in un contesto in cui egli diventa e si sente come infinitesima parte, del tutto ininfluente, di un meccanismo infinitamente più grande di lui, avvertito come incontrastabile e inarrestabile.

Si tratta di un processo del tutto nuovo che ha ricadute su molti versanti. La “quantità” impressionante, continua, infinita di morte produce assuefazione: la morte (non soltanto quella provocata dalle armi, ma anche dalle malattie) diventa una costante, una presenza quotidiana che dà vita a reazioni molteplici: dal rifiuto della guerra e alla sua denuncia, a forme di “spaesamento” e smarrimento della propria personalità, all’esaltazione della morte e della violenza. A medici e psichiatri si presenta una psicopatologia inedita: lo “shell shock”, lo “shock da combattimento” (un tema sul quale Gibelli ha scritto un libro importante).

L’esaltazione della morte e della violenza rivestono una particolare importanza nel caso italiano. Gibelli illustra come la Grande Guerra sia stata l’incubatrice del fascismo. Un aspetto interessante di questo fenomeno, analizzato con finezza dall’A. è lo scadimento del linguaggio. In alcuni giornali il linguaggio diventa volgare, violento, diretto a screditare l’avversario non nella sfera delle idee ma con argomentazioni che escono dalla politica e che spesso riguardano perfino i connotati fisici dell’avversario. Anche in questo caso si tratta di un processo di incubazione: il disprezzo volgare dell’avversario e la violenza verbale diventano premessa per la futura violenza fisica delle squadre fasciste (vedi ad es. pp. 326 e ssgg.)

Il passaggio dalla violenza verbale a quella futura dei manganelli è solo uno degli aspetti della maturazione del fascismo. In realtà, e l’A., lo dimostra ampiamente, la guerra sviluppa una serie di “torsioni” che sboccano inevitabilmente nel prossimo regime.

In primo luogo la netta maggioranza degli italiani è contraria alla guerra e la decisione di entrare nel conflitto viene presa da un manipolo di personalità nel completo disprezzo di una volontà popolare di segno opposto sebbene perfettamente conosciuta. Siamo quindi di fronte ad una evidente forzatura al limite del “colpo di stato” per affermare la volontà di un’infima minoranza sulla stragrande maggioranza della popolazione. La spaccatura tra interventisti e neutralisti diventa così una frattura che attraversa tutto il conflitto e prosegue ben oltre. Il nemico non è soltanto quello esterno degli eserciti nemici, ma ne esiste anche uno interno: sono i pacifisti e le forze politiche neutraliste (socialisti e, in una certa misura, cattolici), accusati di sabotare lo sforzo bellico.

Il prevalere delle idee nazionaliste a favore della guerra fu dovuto alla messa a punto di una propaganda ossessiva e capillare – che fu indirizzata a tutti, perfino ai bambini – ma anche alle posizioni oggettivamente deboli delle forze pacifiste. Le posizioni neutraliste del socialismo internazionale si dissolsero: tranne quello italiano tutti i partiti socialisti dei paesi coinvolti nel conflitto votarono i crediti di guerra ai loro governi. L’interventismo democratico, che vedeva nella guerra l’occasione per fare piazza pulita della società esistente, vide le proprie idee clamorosamente smentite dai fatti. E lo stesso partito socialista finì paralizzato dalla propria posizione espressa nell’ambigua formula “nè aderire nè sabotare”.

Gli scenari aperti dalla Grande Guerra pongono sotto pressione la classe dirigente liberale che si rivela incapace di governarli. Uno dei più importanti e decisivi è il fatto che la guerra fa irrompere definitivamente le masse nella vita politica e civile del Paese. Oltre al bisogno incessante di soldati, il protrarsi e le dimensioni del conflitto richiedono interventi dello Stato in molti ambiti. Dall’organizzazione e direzione di alcuni settori dell’economia e della produzione (la Mobilitazione Industriale arriverà a controllare quasi 2000 stabilimenti per un totale di 571.000 occupati, più del 70% concentrati a Milano, Torino e Genova, p. 179), al proliferare della burocrazia, alla messa a punto di una propaganda diversificata, efficace e martellante.

Un ruolo centrale viene ricoperto dalle donne: esse entrano negli uffici e nelle fabbriche, nelle organizzazione di volontariato e negli ospedali. Per molte di loro la guerra apre un periodo di emancipazione e di relativa libertà dai molti vincoli e limiti nei quali erano costrette in precedenza. Sulle donne di campagna grava il peso del lavoro dei campi in sostituzione degli uomini, ma la direzione degli affari di famiglia le rende più autonome e sicure di sé. Non è un caso se alcune delle proteste più importanti contro il caro-viveri vedano in primo piano le donne.

Se le donne si pongono come soggetto che i governi non possono sottovalutare, l’incapacità delle classi dirigenti di comprendere le situazioni nuove prodotte dalla guerra sono visibili perfino nel fastidio che la parte della classe politica favorevole alla guerra dimostra verso le manifestazioni interventiste nella primavera del 1915. Abituata a governare dall’alto il Paese, la classe dirigente liberale non sa maneggiare e controllare la piazza e ne diffida.

Il ridursi della distanza tra “paese legale” e “paese reale”, tra governanti e governati e la scarsa conoscenza dei primi nei confronti dei secondi provoca un atteggiamento vessatorio delle élites nei confronti della popolazione. Se lo scatenarsi del conflitto ha colto di sorpresa i governi dei paesi coinvolti nel 1914, l’Italia ha avuto un anno a disposizione per valutare lo scenario che la guerra stava delineando. Al momento dell’entrata in guerra era già evidente che si trattava di un conflitto diverso e ben più micidiale di quelli precedenti.

Eppure quella distanza viene continuamente ribadita. Lo si vede nella implacabile disciplina di guerra; nell’abissale differenza di trattamento tra graduati e soldati semplici; nella odiata e temutissima pratica delle “decimazioni” (il sorteggio casuale di condanne a morte in caso di ammutinamenti e rivolte dei soldati, vedi p. 123); nella devastante e sempre più insensata strategia militare, imposta dall’inflessibile Cadorna, degli assalti che costano migliaia e migliaia di vittime e feriti per pochi palmi di terra. E ancora, lo si riconosce nella generale incomprensione dei medici sulle ragioni che portano non pochi soldati a procurarsi lesioni e ferite e in quella degli psichiatri di fronte ai traumi di guerra. Lo si constata nella durissima legislazione di guerra vigente nelle fabbriche impegnate nella produzione bellica (mentre alcune grandi industrie crescono enormemente sia in termini di addetti che di profitti). Lampante poi, in questo senso è l’atteggiamento dei governi nei confronti dei prigionieri di guerra: mentre le potenze dell’Intesa raggiunsero accordi con gli Imperi centrali per far avere rifornimenti ai prigionieri, “il governo italiano, convinto a lungo di non poter contare sulla fedeltà dei combattenti” proibì e ostacolò “in ogni modo la pratica degli aiuti organizzati” (pp. 130-131 e 265-66).

L’entrata delle masse nella vita del Paese ebbe anche altri effetti. Parafrasando il titolo di un libro importante sulla Francia, Gibelli titola un capitolo: “da contadini a italiani”. Per moltissimi soldati la guerra significò uscire dagli angusti limiti del paese in cui erano nati e avevano vissuto e lavorato fino a quel momento: conobbero città, usi e costumi nuovi; mentalità diversissime entrarono in contatto e si confrontarono (p. 162). La guerra fu anche, per moltissimi fanti-contadini, una grande scuola nel vero senso del termine: moltissimi impararono a leggere e scrivere. Da questo punto di vista “si trattava insomma del primo, grande esperimento di pedagogia di massa, della prima operazione su larga scala di condizionamento e di formazione dell’opinione pubblica in chiave nazional-patriottica. Quel che non aveva potuto o voluto fare la scuola veniva tentato ora in quella scuola sui generis che era l’esperienza di trincea” (p. 134)

Tuttavia, il passaggio da contadini a italiani o, in altri termini, da sudditi a cittadini, avvenne in modo distorto. Tra i ceti dominanti era diffusa l’idea che al popolo italiano fosse necessario passare attraverso una sorta di cerchio del fuoco per maturare e acquisire la piena cittadinanza. In altri termini, quel passaggio avvenne all’insegna della coercizione imposta dall’alto: “le classi dirigenti non solo gettarono milioni di uomini al massacro, ma contemporaneamente offrirono e imposero alle classi popolari le parole per dare un nome e un senso a ciò che ai loro occhi non ne aveva” (p. 151). Se espressioni di patriottismo, ancorché incerte (e spesso non del tutto sincere) si affacciano nella corrispondenza, segno di una certa efficacia della propaganda, tuttavia “quel che […] non emerge mai nelle testimonianze dei soldati è un’identificazione (e men che meno una fiducia) nello stato e nelle istituzioni” (p. 158).

Dunque il processo di nazionalizzazione delle masse avvenuto durante la Grande Guerra si presenta monco, incompiuto. Lo testimonia la vicenda tragica di Caporetto, in un certo senso punto di arrivo della storia dall’unificazione in poi e ripartenza di quella successiva (tra Caporetto e l’8 settembre 1943 si sono non poche analogie (pp. 260 e ssgg). Se è vero che dalla coercizione pura e semplice si passò ad una più sofisticata strategia di persuasione e di attenzione alla vita dei soldati, non di meno le responsabilità militari degli alti gradi dell’esercito furono occultati. Gli interventisti considerarono Caporetto come prova evidente della propaganda “disfattista” dei neutralisti – e a testimonianza di un’altra “torsione” la prosecuzione della guerra fino alla vittoria veniva giustificato proprio col fatto che la guerra aveva richiesto immensi sacrifici e innumerevoli vittime che dovevano essere onorati a tutti i costi. Ma Caporetto evocava lo spettro di masse armate le quali, anziché subire docilmente un “salutare processo di disciplinamento [e di] omologazione […] passando così dall’esclusione all’inclusione subalterna nella nazione”, si dimostrava pronta a dirigersi verso obiettivi diversi da quelli indicati. In breve: con Caporetto “si presentava insomma il problema del controllo sociale in una società rimescolata” dalla guerra e i cui vecchi equilibri venivano profondamente intaccati. La reazione delle classi dominanti fu quella di ricorrere agli schemi interpretativi della criminologia di stampo positivistico, ai temi dell’inferiorità biologica della plebe, evidenziando così la particolare arretratezza della società italiana (pp. 274-75). (Su Caporetto vedi anche Caporetto sul web).

Contrariamente a quanto è stato talvolta sostenuto, Gibelli ritiene che Caporetto non compattò affatto la società italiana che si riscuote di fronte allo spettro dell’invasione: questa interpretazione rischia di essere “più un mito che una verità accertata […]. L’idea della guerra come cosa propria […] non era mai diventata una convinzione davvero diffusa né tra le truppe né nel paese” (pp. 303-304). Al contrario, Caporetto rafforzò la contrapposizione tra interventisti e neutralisti convincendo i primi della necessità di imbavagliare “Parlamento e oppositori, liquidando le libertà e ristabilendo in maniera ferrea le gerarchie sociali” (p. 308). Da Caporetto si sprigionano pulsioni forcaiole e reazionarie che si espandono e coinvolgono i ceti medi, cresciuti numericamente anche grazie alla guerra, ma declassati dall’inflazione, dall’avvenire incerto e quindi attraversati da profonda irrequietezza. Questi ceti trovarono qualche rassicurazione proprio dall’intensa mobilitazione patriottica. In breve: il fascismo era alle porte.

La disfatta di Caporetto fu oggetto di una inchiesta che però occultò la responsabilità delle gerarchie miliari (Badoglio ne uscì indenne nonostante  avesse gravi responsabilità) e venne chiusa in fretta in quanto aveva accresciuto la spaccatura tra neutralisti e interventisti. Il vento di destra che iniziò a spirare nel Paese e l’avvento del fascismo misero a tacere il fatto che migliaia di uomini erano stati portati al massacro contro la loro volontà provocando così non solo una ulteriore sconfitta dei neutralisti, ma una nuova distorsione nel dar forma alla memoria dell’evento. Molto opportunamente l’A. rimarca che  “i combattenti non si sentivano affatto eroi […]. ll mito della guerra eroica è una costruzione culturale elaborata soprattutto a posteriori dai volontari per nobilitare la morte di massa” (p. 208).

Con La Grande Guerra degli italiani Gibelli ha scritto una storia di come gli italiani vissero e si comportarono durante il conflitto. Un angolo visuale del genere implica rispondere ai vari interrogativi insiti nella domanda più generale avvalendosi di una documentazione che consenta di studiare l’animo degli italiani di fronte e all’interno del conflitto. Per questa ragione alla letteratura e alla documentazione archivistica, Gibelli affianca epistolari, diari, testimonianze – esaminandoli con le dovute cautele e grande finezza. Ciò di consente da un lato di illustrare le molte sfumature  dei pensieri e delle posizioni via via assunti dai combattenti, dai loro famigliari, amici e dai protagonisti; dall’altro di illuminare dal basso le loro vicende.

Ne emerge un libro di grande finezza, scritto con una penna leggera e sensibile che pone in risalto il lascito di un evento che continua ancora oggi ad agire: dopo la Grande Guerra nessun conflitto di medie dimensioni avrebbe fatto contare le vittime in migliaia, ma a decine, centinaia di migliaia, se non a milioni. Senza possibilità di uccidere in serie, cioè senza la Grande Guerra, i campi di sterminio non sono immaginabili. Così come un percorso probabilmente diverso avrebbe preso la rivoluzione russa: la militarizzazione della società in URSS – certamente accresciuta e alimentata da una feroce guerra civile – aveva le sue radici nella prima guerra mondiale. E purtroppo anche la nostra assuefazione alla visione della morte e di violenza di ogni genere proviene da quel terribile evento.

Pubblicato più di vent’anni fa, La Grande Guerra degli italiani di Antonio Gibelli è ancora un libro importante e davvero bello.

Buona lettura.

Il progetto Marengo: decine di riviste digitalizzate

Decine di riviste digitalizzate nel Progetto Marengo.

Il progetto Marengo, ideato dalla Università degli studi di Milano e sostenuto dalla Regione Lombardia e dalla Fondazione Cariplo, ci regala decine di riviste digitalizzate.

A una corposa serie di testate umoristiche e satiriche edite tra Otto e Novecento, sono state affiancate via via riviste di vario genere: da alcune testate rivolte ai soldati durante la prima guerra mondiale (sulle quali si può consultare Prima Guerra Mondiale – Giornali di Trincea e altro) a riviste per ragazzi (altre si trovano anche nella Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, vedi: Periodici e giornali digitalizzati Parte I e nella Biblioteca digitale del Senato); da periodici di moda a riviste d’arte (sulle quali si possono vedere BiASA. Una emeroteca per l’Archeologia e la Storia dell’ArteUna miscellanea di riviste d’arte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma).

Omnibus

Mi sembra opportuno segnalare la presenza di riviste americane, francesi e tedesche, mentre tra le riviste italiane mi limito a indicare rotocalchi come Gioia, Omnibus Oggi e altri ancora nonché, su tutt’altro versante, una serie di riviste post-sessantottine.

Sebbene le riviste non siano state digitalizzate per intero (le annate sono spesso incomplete), il progetto Marengo è senza dubbio uno dei più interessanti tra quelli finora realizzati: Progetto Marengo.

Buona lettura.

Recensione. Angelo Ventrone: La strategia della paura.

Un libro che porta una interpretazione molto interessante sulla strategia della tensione.

La tesi di questo libro di Angelo Ventrone è chiarissima: L’Italia repubblicana non ha corso il pericolo di subire ripetutamente un colpo di stato, come spesso si è pensato. In realtà la strategia della tensione era parte integrante di una più ampia e articolata strategia della paura.

C’è un dilemma nella nostra storia repubblicana: come mai tutti i tentativi di colpo di stato furono bloccati all’ultimo minuto? E chi e perché li bloccò? La risposta di Ventrone è interessante. Non si trattava di attuare un colpo di stato, ma di farlo credere possibile all’opinione pubblica. In altre parole, di fronte alla costante crescita della sinistra – e in particolar modo del Partito comunista – che spaventava larghi settori della società, l’obiettivo era quello di creare e ingigantire la paura della presa del potere da parte di una destra in gran parte ancora ancorata al fascismo e decisamente impresentabile. In questo modo veniva creata l’immagine di un paese accerchiato a sinistra da un Partito comunista che solo sulla carta si dichiarava democratico mentre in realtà era un cavallo di Troia dell’Unione Sovietica e a destra, da movimenti neo-fascisti. Perciò gli unici garanti della salvaguardia della democrazia erano i partiti moderati di governo.

Da ciò ne deriva che coloro che nell’estrema destra volevano veramente la presa del potere e instaurare una qualche forma di dittatura – sull’esempio greco o cileno – erano una minoranza esigua. E soprattutto, questa galassia di grupposcoli di estremisti furono in realtà ampiamente usati e manipolati da coloro che non intendevano assecondarli:

Per evitare […] che gli attentati, con il loro successo, finiscano per rafforzare le ali estreme dello schieramento politico, si opera in un duplice modo: si depotenzia il messaggio delle organizzazioni terroristiche creando confusione e incertezza sulla loro colpevolezza e sulla effettiva capacità d’azione (per esempio con l’alto numero di attentati falliti e con il parziale successo delle forze dell’ordine); e se ne bilancia la potenzialità enfatizzando la minaccia tanto dall’estrema destra quanto dall’estrema sinistra.
Questo è appunto lo schema […]: la realizzazione di attentati da attribuire alla sinistra, facendo però filtrare l’ipotesi che è stata la destra ha l’obiettivo di impedire che […] il successo ottenuto dall’attentato possa in realtà giovare al prestigio della sinistra rivoluzionaria. Denunciare le responsabilità della destra neo-fascista, i cui esponenti sono arrestati e processati già nei primi anni Settanta, ha lo scopo inverso: evitare che la destra possa approfittare degli attacchi terroristici per far precipitare la situazione e, nel caos che ne seguirebbe, andare al potere (pp. 182-83).

Viene così messa in atto una serie di azioni estremamente complesse che presuppongono una organizzazione estremamente sofisticata, che impone una ulteriore domanda: di chi fu la regia di tutto questo?

L’A. esclude che vi sia stata un’unica mente, un “grande burattinaio” che ha tenuto le fila degli avvenimenti. Con l’aprirsi della guerra fredda iniziò anche un gioco di scatole cinesi: in funzione anti-sovietica e anticomunista fu recuperato parte del personale che aveva militato nella Repubblica Sociale. Lo fecero i governi a guida democristiana (vedi, ad es. pp. 66-67), ma lo fecero anche gli USA nell’ambito della NATO; dal regime furono recuperati strutture e metodi di azione concreta (il “servizio informazioni” e la schedatura di decine di migliaia di militanti comunisti e socialisti e attivisti sindacali). Fu cercata e messa a punto la collaborazione di giornalisti (Montanelli e molti altri, alcuni giornalisti del periodico “Il Borghese” sono implicati in varie trame); com’è noto, la P2 di Licio Gelli ebbe molti addentellati.

A mettere a punto e ad alimentare la strategia della paura vi fu la sinergia di molti compartecipi. Attori capaci anche di modificare la strategia. A un certo punto fu evidente che la lunga serie di attentati non indeboliva il Partito comunista. Infatti i tentativi della destra estrema di provocare continuamente la sinistra per indurla a reagire per poi avere la giustificazione per schiacciarla, caddero nel vuoto (p. 153). Il Pci riuscì a mantenere sempre i nervi saldi e la sua ascesa proseguì fino al 1976 e questo portò a cercare di indebolirlo non più attaccandolo da destra, ma cercando di screditarlo e di metterlo sotto pressione infiltrando e manipolando il variegato (e al negli anni Settanta numeroso) mondo della sinistra extra-parlamentare, spingendo i gruppi più decisi ad azioni sempre più radicali.

Il nostro paese ha avuto un “deficit di democrazia”? Nel paese che ha dato i natali al fascismo il problema è stato posto e si pone. A leggere La strategia della paura di Angelo Ventrone il dubbio che la storia della prima repubblica sia quella di un paese a “libertà limitata” diventa molto forte. Ma il dato interessante che l’A. non manca di sottolineare è che il rifiuto di frange delle forze armate, delle forze dell’ordine e del mondo politico di riconoscersi nella democrazia nata dalla Resistenza ha radici molto più profonde della storia repubblicana.

Certo, lo stesso riproporsi, quasi immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, del Movimento Sociale ne è una prova eloquente, ma è lo stesso avvento delle masse nella vita politica del Paese ad essere avvertito come un problema. Ventrone mostra in modo convincente che già nel corso della Grande Guerra si manifestò da più parti l’idea di schiacciare il Partito Socialista, le forze che erano contrarie alla guerra e lo stesso Parlamento, descritto da Mussolini come un “bubbone pestifero” da estirpare.

Secondo quest’ottica la volontà popolare non ha alcun valore e così come una popolazione che non voleva la guerra fu costretta a combatterla, così, in ambito democratico, il fatto che una larga parte degli aventi diritto al voto scegliesse il Pci era ritenuto un pericolo mortale che doveva essere fermato  ad ogni costo, anche attraverso le stragi.

In conclusione, la strategia della paura ha avuto successo? A mio parere la risposta non è univoca. Se da una parte il Pci non arrivò mai al potere, dall’altra l’intuizione di Togliatti in creare un forte partito ben radicato sul territorio si rilevò decisivo per la salvaguardia della democrazia: la tentazione da parte di molti di mettere il Pci fuori legge (ben documentate dall’A.) affiorarono di quando in quando, ma nessuno ebbe il coraggio di attuarla. Ma anche l’azione di esponenti della magistratura e delle forze dell’ordine non inquinati da “deviazioni” e decisi a non far deragliare il Paese verso derive autoritarie è meritevole di ammirazione.

Resta da fare i conti, storicamente, con i traumi subiti da chi rimase vittima di quelle stragi (un costo enorme, senza dubbio). Intanto Ventrone ci regala un libro molto interessante su cui riflettere.

Buona lettura.

Estense Digital Library

Una nuova Biblioteca digitale italiana: la Estense Digital Library

Coloro che seguono questo blog sanno bene come più volte abbia lamentato l’assenza di una grande biblioteca digitale come GallicaDeutsche Digitale BibliothekDigital Public Library of America e altre grandi biblioteche digitali che ho segnalato nella pagina Biblioteche Digitali.

Senza dubbio alcuni progetti notevoli sono stati realizzati: Biblioteca Europea di informazione e cultura, l’Emeroteca Digitale Braidense e altre ancora che ho indicato sono belle realtà, tanto più encomiabili perché realizzate con mezzi molto più limitati rispetto a quanto viene praticato in altri Paesi.

Ora però questa lacuna si appresta ad essere colmata grazie alla Estense Digital Library, “il progetto di Digital Humanities realizzato da Gallerie Estensi con il supporto di Fondazione Modena nell’ambito di AGO Modena Fabbriche Culturali”.

Al momento – la Estense Digital Library è stata appena resa disponibile al pubblico – sono disponibili online 700 mila pagine tra manoscritti e libri rari provenienti dalla Biblioteca Universitaria.

Il progetto è ripartito in due grandi sezioni: Estense e Open, a loro volta suddivisi in: Libri antichi e rari, Fonti musicali, Mappe, Manoscritti, Fascicoli per quanto riguarda la sezione Estense.

La sezione Open: Immagini, Mappe, Spartiti Musicali, Libri Digitali, Periodici.

La Estense Digital Library è un progetto di grande respiro e di enormi potenzialità. Finalmente!

Recensione. Richard J Evans: Alla conquista del potere. Europa 1815-1914

Alla conquista del potere è un affresco maestoso. Evans racconta e spiega l’Europa del XIX secolo in modo magistrale

 

Alla conquista del potere di Evans è molto più facile da leggere che da recensire perché questo libro di quasi 1000 pagine di testo si legge con una facilità sorprendente. Merito della penna sensibile di Evans che ci regala una storia d’Europa nel lungo Ottocento in buona parte innovativa.

Innovativo, Alla conquista del potere lo è sicuramente nell’impianto. Gli otto lunghi capitoli che compongono il libro (debitamente suddivisi in paragrafi) si aprono con brevi cenni biografici di personaggi oggi in gran parte dimenticati: da uno scalpellino all’uomo “più forte del mondo” che si riciclò come mercante d’arte saccheggiando le piramidi egizie, passando per biografie di donne solitamente sfortunate e infelici che spesso suppliscono la scarsa avvenenza fisica con un tenace impegno culturale e sociale.Sfruttando l’ampliamento delle tematiche studiate dagli storici negli ultimi decenni, Evans si sforza di farci sentire oltre che vedere il XIX secolo: l’odore fumoso e pungente delle bettole e delle osterie, quello acre delle manifatture che faceva ammalare di tisi le operaie, l’aria plumbea o opprimente di Londra o quella carica di odori della natura dei terreni di caccia e dei boschi… e ancora piazze, mercati, esposizioni universali, canali, fiumi, paludi…

In altri termini l’A. prende per mano il lettore per portarlo a spasso in un secolo carico di innovazioni, mutamenti, permanenze e contraddizioni.

Nessun secolo ha visto l’Europa al centro del mondo come l’Ottocento. La Rivoluzione francese e la rivoluzione industriale cominciano a plasmarlo. È un mondo che si amplia – nelle conoscenze geografiche ad esempio – e si restringe – le navi a vapore, le ferrovie, il telegrafo ne collegano i continenti e lo restringono: la fiumana di europei che se ne andarono dall’Europa verso le americhe e l’Australia sarebbe stata impensabile nei secoli precedenti. L’orizzonte limitatissimo dei contadini, che fino ad allora raramente uscivano dai loro villaggi si amplia, se non altro alle zone del circondario, a mercati più vicini.

Sebbene l’A. offra una trattazione comparata, all’interno di quell’Europa si possono notare grandi differenze. l’Europa non è un continente delimitato geograficamente: a est sfuma nell’Asia; lo è e lo era in senso culturale: per fare un esempio, il francese era la lingua delle classi colte anche in Russia. Un confine ideale che il lettore potrebbe inserire riguarda proprio la distinzione tra l’Europa occidentale e quella orientale. Nella prima, ad eccezione della penisola iberica, l’industrializzazione procede più spedita e con essa le città si trasformano e si ingrandiscono con tutto il corollario di problemi urbanistici, abitativi, sanitari ecc. (che si esemplificano e si manifestano, ad esempio, nelle epidemie di colera). Nella seconda, il dominio delle campagne persiste e con essa quella di una nobiltà terriera che, invece, a Ovest sta cedendo il passo: la condizione dei contadini e dei servi in quelle zone fa inorridire i visitatori. L’aristocrazia arretra ovunque, ma la sua forza rimane notevole.

Ma il vero spartiacque del secolo Evans lo colloca nella primavera del popoli del 1848. È da lì che decollano almeno due degli elementi che avranno un’importanza centrale nei decenni successivi: nazionalismo e questione sociale. Ma, giustamente, Evans avverte che il nazionalismo che si affaccia col ‘48 non corrisponde “alla volontà sovrana di un particolare popolo”. In realtà, “la maggior parte dei nazionalisti […] voleva solo una maggiore autonomia all’interno di una struttura politica più ampia, o semplicemente il riconoscimento della propria lingua e della propria cultura” (pp. 241-42).

I terribili anni Quaranta, gli “anni della fame” portarono sul tappeto le condizioni disperate del proletariato non solo nella Manchester descritta da Engels. Lo “spettro del comunismo” del Manifesto di Marx ed Engels rimase tale, così come non si verificò la spaccatura in due della società tra capitalisti e proletari. Al contrario, emersero ceti intermedi di professionisti e nella stessa classe operaia gli operai specializzati raggiunsero livelli di vita sicuramente migliori rispetto agli inizi della rivoluzione industriale. Movimenti operai però si organizzarono e il marxismo (o le sue varianti) si affermò nei partiti operai e nei sindacati e divennero una realtà con la quale, a partire dagli ultimi due decenni del secolo, i governi dovettero fare i conti. Ad eccezione della Gran Bretagna, dove i governi cercarono accuratamente di evitare lo scontro con le organizzazioni operaie e promossero, in diverse tappe, varie riforme, negli stati in cui la classe operaia era forte e organizzata i governi promossero i primi interventi a formare il welfare state allo scopo di sottrarre loro consensi.

Il giudizio di Evans sul ‘48 è positivo:

“i troni europei erano stati scossi fin dalle fondamenta. Figure come Metternich e Luigi Filippo [erano state scacciate]. I sovrani erano stati costretti ad abdicare, a cedere una parte sostanziale dei loro poteri o a rinunciare alla loro pretesa di governare per diritto divino […]. In tutta Europa erano sorte assemblee rappresentative […]. Il principio dell’autodeterminazione con successo in un paese dopo l’altro. Si erano avviate ampie e decisive riforme economiche e sociali con una spettacolare manifestazione dell’uguaglianza davanti alla legge” (p. 269).

E ancora:

“se la democrazia nella sua forma moderna si basa soprattutto sul suffragio universale maschile e sulla responsabilità dei governi nei confronti del Parlamento e dell’elettorato, allora il flusso della storia nella seconda metà del XIX secolo sembrava dirigersi inesorabilmente in questa direzione. La marcia indietro nella rivoluzione del 1848 non significò la sconfitta del liberalismo; al contrario” (pp. 766 e sgg).

Per Evans anche le condizioni delle donne conobbero un consistente miglioramento lungo il secolo: “Nonostante il persistere di molte disuguaglianze, uno degli aspetti più straordinari del XIX secolo fu la graduale affermazione dei diritti delle donne [e] anche nella sfera privata [i loro diritti] fecero passi avanti” (pp. 679 e 681). Sono giudizi complessivi condivisibili, ma l’A. stesso mostra come invece per almeno metà secolo (e nell’Europa meridionale e centro-orientale anche oltre) in confronto al Settecento la condizione delle donne dei ceti medio alti regredì, mentre col lavoro di fabbrica, la proliferazione e ampliamenti delle città e il conseguente aumento della prostituzione la loro condizione divenne infernale (sulla prostituzione, pp. 654 ssgg.). A metà secolo gli uomini che avessero confrontato il loro mondo con quello dell’Antico regime avrebbero ancora trovato molte somiglianze; ma se la stessa cosa avessero fatto gli uomini nel 1900 in rapporto al 1850 avrebbero notato molti più cambiamenti che continuità: la fotografia, l’automobile, la macchina da cucire, l’aspirina, l’ascensore (perfino le ancora poco affidabili scale mobili), la più modesta ma rivoluzionaria bicicletta annunciavano la modernità del XX secolo.

Alcuni progressi sono spettacolari. Carestie ed epidemie continuarono a manifestarsi, ma la più micidiale di tutte – la peste – sparì e le altre si fecero sporadiche; la mortalità infantile e l’analfabetismo in alcune zone diminuirono drasticamente; la speranza di vita iniziò ad allungarsi; la possibilità di spostarsi coinvolse sempre più persone (per non dire della comodità dei trasporti). Non si può non rimanere ammirati ancora oggi di fronte a interventi come la costruzione del Canale di Suez,  la Transiberiana o la bonifica di immense paludi.

Alcuni di questi progressi modificarono per sempre la vita delle persone: l’illuminazione ne è un esempio, mentre la costruzione di grattaceli testimonia l’affermarsi di una nuova concezione dello spazio.

Fatta eccezione per terremoti ed eruzioni vulcaniche il controllo dell’uomo sulla natura si fece pressoché completo. Evans collega questo tema alle ripercussioni sull’ambiente: i boschi si restrinsero; la caccia, passione di gran moda tra i ceti abbienti, portò all’estinzione di alcuni animali; l’inquinamento cominciò a manifestarsi. La vita, soprattutto quella di città, divenne frenetica provocando i primi malesseri e disturbi psichici. I manicomi iniziarono a proliferare. L’introduzione dell’istruzione obbligatoria, l’emergere di nuove professioni e l’urbanizzazione modificarono le strutture famigliari: in molti casi e per alcuni ceti professionali i figli smisero di essere considerati fonte di reddito e quindi  le famiglie divennero meno numerose. Una seconda conseguenza fu che la vita urbana allentava il controllo delle famiglie su componenti che soffrivano di disturbi psichici (pp. 552 e 578-79). I manicomi risposero ad una seconda necessità della borghesia: si affiancarono alle carceri per il controllo sociale di quelle classi che cominciarono ad essere percepite dalle élites come pericolose. (Le varie branche della medicina conobbero progressi spettacolari anche per quanto riguardava il risanamento delle città dotandole di reti fognarie e migliorando le condizioni abitative degli slums, ma come testimonia la vicenda di Jack lo squartatore, moltissimo restava ancora da fare. Vedi Paul Begg Jack lo squartatore. La vera storia). Infine, la loro presenza rimanda anche a cambiamenti profondi nella sfera dei sentimenti: la fredda ragione illuministica lascia il passo alle tempeste interiori del romanticismo che poi, più avanti nel secolo, saranno represse con l’accentuazione dei caratteri sessuali secondari nell’uomo – che diventa baffuto e barbuto – e nella capacità di reprimere le lacrime nelle donne.

Per illustrare questi e molti altri fenomeni e cambiamenti Evans saccheggia letteratura e arte. Del resto l’Ottocento produsse una quantità di scrittori e artisti di tale levatura che potrebbe essere studiato anche utilizzando esclusivamente questo genere di fonti.

Pur restando una componente importante del libro, la storia politica (della diplomazia, delle guerre ecc.) non è l’asse portante del testo. Evans colloca la storia d’Europa sul più ampio scenario mondiale, ma il libro fa emergere e illustra il modo di vivere degli europei. Da questo punto di vista allora un interrogativo lo pone il titolo del libro: chi va “Alla conquista del potere”? Se si trattasse soltanto del colonialismo e dell’imperialismo l’A. non avrebbe avuto bisogno di quasi 1000 pagine; sarebbe stato sufficiente l’ultimo capitolo. La borghesia? Certamente sì, tanto che l’autore titola un paragrafo l’età della borghesia. Ma in un certo senso tutti i protagonisti vanno alla ricerca del potere: le donne per una pari dignità con gli uomini; i lavoratori per condizioni di lavoro decenti e diritti; banchieri e industriali per i mercati; stati per raggiungere l’indipendenza o per l’impero; giornalisti e masse popolari per influire la vita politica… l’Ottocento e un secolo ascendente; il progresso – stimolato, ammirato, temuto o ostacolato – è, forse, il vero protagonista delle pagine di Evans.

Quel percorso ascendente si arresta con la Grande Guerra e con essa non finisce solo il “lungo Ottocento”, ma cala il sipario su un’intera epoca.
Con Alla conquista del potere Evans ci regala un libro straordinario che incatena letteralmente il lettore alle pagine. Ed è un libro che si presta magnificamente per chi è a digiuno della storia o per quelli che la ritengono noiosa. Un capolavoro.

 

Visitare Roma tra Seicento e Ottocento

Andarsene a zonzo per Roma tra il Seicento e l’Ottocento servendosi delle guide per turisti e appassionati d’arte

Avevo in mente di preparare un articolo sulle guide alle città. Se ne trovano molte on line. Dopo la lettura del libro di Attilio Brilli: Il viaggio nella capitale. Torino, Firenze e Roma dopo l’Unità e altri che ho in lettura, mi sono reso conto che la faccenda è molto più complessa di quanto supponessi inizialmente.

Anche se il viaggio per piacere rimase qualcosa ad appannaggio di pochi (per chi vuole può vedere Gran Tour e viaggiare in ItaliaViaggiare nei secoli passati coi fondi della Beic), i gusti dei viaggiatori mutano. Naturalmente, per i secoli qui presi in esame, l’arte giocava – come gioca tutt’ora – un ruolo importante (infatti basta sfogliare, ad esempio, BiASA. Una emeroteca per l’Archeologia e la Storia dell’Arte), ma non vi è solo questo aspetto.

 

 

Ne fa testo, ad esempio, quanto afferma l’autore di una di queste guide, L’antiquario, o sia La guida de’ forestieri pel giro delle antichità di Roma:

È cosa maravigliosa che mentre tanti forestieri continuamente a vedere le antichità di Roma e altre magnificenze di questa città non vi sia stato mai alcuno che abbia pubblicato un libro proprio a soddisfare la loro curiosità Io non intendo di dire non vi sia alcun libro su questo soggetto giacchè so benissimo che ne sono varj benchè in realtà non siano che uno solo essendo copiati l’uno dall’altro. Infatti questi differiscono o nell’ordine o nella lunghezza, tutti i medesimi comuni ragguagli, le medesime inconsistenti osservazioni, le medesime inconvenienti lodi i medesimi errori e tutti mancano di esattezza di brevità di erudizione Per questa ragione risoluto di comporre una piccola opera.

C’è una qualche pretesa in questa prefazione. Se confrontata ad una guida di metà Seicento le indicazioni tutto sommato non sono molto dissimili: Descrittione di Roma antica e moderna: nella quale si contengono chiese, monasterij, hospedali, compagnie, collegij, e seminarij, tempij, teatri, anfiteatri, naumachie, cerchi, fori, curie, palazzi, e statue, librerie, musei, pitture, sculture, & i nomi de gli artefici: indice de’sommi pontefici, imperatori, e duchi: con due copiosissime tavole. Semplicemente il lettore trova nel titolo quanto può trovare all’interno.

Simile è l’Accurata, e succinta descrizione topografica e istorica di Roma moderna di Ridolfino Venuti, più volte ristampata (qui si rimanda al secondo volume dell’edizione del 1767).

Non a caso sono ancora l’arte e l’architettura, e in particolar modo le chiese, a farla da padrone nella Descrizione itineraria di Roma di Giovanni Battista Alberti.

Arricchita di piante dei XV rioni è la La città di Roma, ovvero, succinta descrizione di questa superba città: con due piante generali di essa e de’ XIV rioni di Dominique Magnan, nell’edizione del 1826 ma più volte ristampata anche nel secolo precedente.

La Nuova e succinta descrizione di Roma antica e moderna: e de’ monumenti sacri e profani che sono in essa e nelle sue vicinanze di Francesco Archini, nell’edizione del 1825 presenta la novità di scandire le giornate dei lettori/visitatori in giornate per ottimizzare i tempi.

Con un taglio più turistico, con indicazioni di alberghi, trattorie, bagni ecc. ma anche a piazze, librerie, teatri, feste principali è la Descrizione di Roma e contorni (S. I. A.).

Anche il Vaticano, ovviamente, esercitava una attrazione particolare. Ad esso sono dedicati gli otto volumi di Erasmo Pistolesi: Il Vaticano descritto ed illustrato.

Come si vede si tratta di un materiale composito che può essere utile per capire meglio i gusti delle varie epoche, ma anche per ritrovare informazioni utilizzabili per ricerche di altro genere oppure per semplice piacere di visitare una Roma in parte scomparsa. (Le opere si trovano in Internet ArchiveGoogle libri; le immagini sono consultabili e scaricabili nella Digiteca della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma e da Europeana – Art).

Buona lettura.

 

 

Recensione. Laura Spinney: 1918. L’influenza spagnola

“Quel che ci ha insegnato l’influenza spagnola è che un’altra pandemia influenzale è inevitabile, ma che se farà dieci o cento milioni di vittime dipende solo da come sarà il mondo in cui si scatenerà”

“La pandemia che cambiò il mondo”, recita il sottotitolo del bel libro di Laura Spinney sulla pandemia di spagnola del 1918. Possibile che la pandemia più devastante e mortale della storia sia in gran parte un enigma?

Dalla ricostruzione fatta da Spinney parrebbe proprio di sì. Non sappiamo con certezza chi o cosa l’abbia provocata, né dove si originò. I maggiori indiziati sono gli uccelli, ma anche i maiali e i cavalli; c’è chi sostiene che sia apparsa per la prima volta negli Stati Uniti, chi indica la Francia e chi punta la propria attenzione sulla Cina. Tutte queste ipotesi si basano su prove interessanti, ma nessuna è in grado di stabilire con certezza l’origine della pandemia.

Resta il fatto che la spagnola è la pandemia più letale della storia: c’è chi suppone l’incredibile cifra di 100.000.000 di morti (l’influenza spagnola ebbe una mortalità “venticinque volte più alta” rispetto alle altre pandemie – p. 205). Che siano 100, 50 o 30, quando i morti si contano a decine di milioni stabilire la cifra esatta ha poco senso. Da questo punto di vista ha ragione l’A. quando pone la domanda fondamentale: come mai un evento così sconvolgente e globale ha attirato di rado l’attenzione degli storici? Dall’Alaska al Cile, dalla Russia al Sud Africa, dalla Persia alla Francia, dalla Cina al Portogallo… nessun paese, nessuna regione è rimasta immune dal contagio. Furono le navi a portare in giro per il mondo il virus (p. 101). L’unica certezza che abbiamo è che la spagnola “non ebbe inizio in Spagna” (p. 179).

Il fatto è che l’enorme importanza della Grande Guerra ha offuscato l’importanza di questo fatto e la spagnola è rimasta “accodata” (per così dire) alla Prima Guerra Mondiale, una sorta di strascico luttuoso insomma.

Che una pandemia di quelle proporzioni abbia inciso sugli eventi in corso e futuri è fuori discussione. Eppure è proprio quando l’A. “entra” nella storia e ne valuta l’impatto sugli avvenimenti che sorge qualche dubbio. Ad esempio, che il generale Ludendorff abbia incolpato il dilagare della spagnola tra le truppe tedesche quale motivo della sconfitta della Germania non stupisce: Ludendorff era un uomo incline a dare la colpa a chiunque o a qualunque cosa pur di non prendersi le proprie responsabilità. Una cosa è sostenere, come fanno molti storici e l’A. lo rileva, che la spagnola accelerò la fine del conflitto, altra – e mi pare discutibile – è lasciare intendere che la Germania perse la guerra a causa della pandemia (pp. 268 e ssgg).

Così pure qualche perplessità suscitano le argomentazioni sullo stato di salute del Presidente americano Wilson nel corso della Conferenza di pace e delle ripercussioni che potrebbero avere avuto sugli eventi successivi. Molto più degli Stati Uniti, erano la Gran Bretagna e, soprattutto, la Francia a voler punire in modo esemplare la Germania. Anche la ricostruzione dedicata alla creazione della sanità pubblica in Inghilterra mi pare per certi aspetti discutibile: più che la spagnola, la creazione del welfare fu il riconoscimento tangibile del governo nei confronti di coloro che avevano sostenuto lo sforzo bellico (si veda, ad esempio, Ian Kershaw: All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949).

Non si tratta di fare le pulci al libro. Anzi, la Spinney ha il merito di aver posto il problema. Semplicemente, come sempre, non tutti i fenomeni indicati sono riconducibili ad un solo evento – per quanto sconvolgente sia stato.

Farei un torto se indicassi esclusivamente gli aspetti che mi sembrano più deboli. Il libro offre moltissimi spunti  di ricerca. Perfino la malattia non è uguale per tutti. Spinney dimostra che povertà, sovraffollamento e malnutrizione facilitarono il lavoro mortale del virus (vedi, ad es., p. 221). Le pagine dedicate a certi quartieri di New York,  Odessa, Rio de Janeiro sono esemplari.

Tanto più che Spinney non ha scritto una storia della spagnola. La sua ricostruzione si muove tra scienza, storia, sociologia e giornalismo. I capitoli che ricostruiscono il dibattito scientifico e le ipotesi su come si trasmette il virus oltre ad essere molto belli sono fondamentali. Altrettanto interessanti sono le pagine dedicate alle reazioni delle persone comuni di fronte alla pandemia, più o meno le stesse che stiamo vivendo oggi, sono importanti anche per la situazione attuale non solo perché, tra l’altro, l’uso delle mascherine viene indicato come uno strumento di prevenzione tra i più efficaci  (p. 223), ma anche per la “tenuta” delle popolazioni in rapporto alla quarantena: la gente accetta le restrizioni, ma ha una capacità di sopportazione limitata.

Se dal punto di vista editoriale poche pubblicazioni possono vantare un’uscita più indovinata – con ogni probabilità il libro è stato scritto per il centenario – visto che la pandemia di Covid ha indubbiamente stimolato la curiosità verso epidemie precedenti, non di meno questo libro ha molti meriti. Tra gli altri, la dimostrazione di come eventi di questo genere possono sconvolgere fino a far deperire culture locali (come nel caso dell’Alaska e delle sue popolazioni).

Non ultimo tra i meriti la grande capacità di scrittura dell’Autrice. Le lunghe digressioni su regioni e città sono splendide e la penna di Spinney sa essere chiara e avvincente al tempo stesso.

Che si tratti di uno studio serio e affidabile mi pare dimostrato dalla seguente affermazione:

“Quel che ci ha insegnato l’influenza spagnola è che un’altra pandemia influenzale è inevitabile, ma che se farà dieci o cento milioni di vittime dipende solo da come sarà il mondo in cui si scatenerà” (p. 187).

Solo chi ha studiato – e capito – a fondo l’argomento può esporsi ad una dichiarazione così perentoria. E i fatti le hanno dato ragione.

(Per un parallelo con l’Italia, vedi Alcuni articoli sulla “spagnola”).

Buona lettura.

 

 

ultima modifica: 2020-09-21T11:56:33+02:00da vitegabry
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