Archivi giornalieri: 7 dicembre 2016
LA STAMPA
Sant’ Ambrogio
Di nobile famiglia romana, nacque a Treviri nelle Gallie ove suo padre era prefetto e a pochi mesi di vita uno sciame di api portò alla sua bocca del miele. Ancora giovane, per la sua grande prudenza ed imparzialità, fu mandato governatore a Milano.
Essendo in quel tempo rimasta vacante quella sede episcopale, vi erano grandi discordie tra cattolici ed ariani per l’elezione del nuovo Vescovo. Ciascuno lo voleva secondo la propria fede, e fu necessario l’intervento del governatore Ambrogio per pacificare gli animi. Ma appena Ambrogio comparve in mezzo alla folla, un bambino si diede a gridare: Ambrogio vescovo, Ambrogio vescovo, e subito dopo di lui, cattolici ed ariani unanimemente vollero l’elezione di Ambrogio.
Essendo egli solamente catecumeno, dovette prima ricevere il battesimo, poi il sacerdozio e finalmente malgrado la sua umile riluttanza, la consacrazione episcopale.
Eletto dunque vescovo, con cuore di padre governò le anime a lui affidate.
Amorevole con tutti, si mostrava nello stesso tempo severo ed intransigente verso i nemici ostinati della Chiesa.
Con la sua straordinaria perspicacia nella scelta dei pastori di anime, diede il colpo di grazia alla setta degli ariani. Questi eretici, riconoscendo Gesù Cristo solo come uomo, negavano recisamente la sua divinità.
Ma se potenti erano gli eretici, più potenti furono i difensori suscitati da Dio per la integrità della fede.
Frutti insperati raccoglieva il Santo coi suoi sermoni : va ricordata in modo speciale la conversione di S. Agostino.
Stando una volta l’imperatore Teodosio nel presbiterio della chiesa, posto riservato unicamente ai sacerdoti, coraggiosamente mandò ad avvertirlo, ma con tale carità, che Teodosio ringraziò il santo vescovo di tale avvertimento.
Allorché lo stesso imperatore osò entrare in chiesa dopo la strage di Tessalonica, Ambrogio glielo impedì, e quando l’imperatore per scusarsi addusse l’esempio del re Davide, il santo Vescovo coraggiosamente rispose : Se avete imitato Davide nel peccato, imitatelo anche nella penitenza.
Finalmente, dopo molte lotte e sacrifici, andò a ricevere la corona delle sue fatiche in cielo, il 4 aprile dell’anno 397.
PRATICA. Facciamo penitenza dei nostri peccati finchè siamo in vita, se non vogliamo farla in Purgatorio.
PREGHIERA. O Signore che nell’elezione e nella vita del vescovo Ambrogio hai dato al tuo popolo un esempio della tua immensa misericordia e provvidenza, fa’ che per i meriti di Gesù Cristo un giorno siamo compagni di colui che ora veneriamo in terra
759 del 7 dicembre 2016
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Gramsci e la Sardegna- Università della Terza Età di Quartu
Gramsci e la Sardegna- Università della Terza Età di Quartu
a cura di Francesco Casula
1.Gramsci e il suo primo sardismo.
Nelle sue prime esperienze politiche in Sardegna fu fortemente antipiemontese e fu attratto da un Sardismo molto radicale e contiguo al separatismo, tanto da far propria la parola d’ordine “A mare i continentali!” che in qualche modo significava rivendicare l’indipendenza e la separazione della Sardegna dall’Italia.
2.Gramsci e il colonialismo
Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere– ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica.
Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile 1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo I dolori della Sardegna. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”.
E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911– ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”.
In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)” .
3. Gramsci, l’autonomia, il federalismo e Lussu
Gramsci pur abbandonando le iniziali e giovanili posizioni “separatiste”, fin dai tempi de “L’Ordine Nuovo” nel 1919, si pone il problema dell’Autonomia e del Federalismo anche se mancherà nei suoi scritti –ad iniziare dai Quaderni– una tematizzazione del problema e dunque uno sviluppo specifico,organico e compiuto della Questione istituzionale e dello stato federale. Gramsci pensava a uno Stato federale con 4 repubbliche socialiste:Sardegna, Sicilia, repubblica del Nord e del Sud.
Questa divisione susciterà il dissenso aperto di Emilio Lussu che obietterà: “Repubblica sarda e repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia continentale, nettamente, in due sole parti? E dove finisce il Nord e incomincia il Sud? L’Italia centrale dovrebbe tutta andare al Nord sicché la Repubblica del Nord diventerebbe, a un dipresso, ciò che è la Prussia nella Confederazione germanica dove <chi tiene la Prussia tiene il Reich?> Assolutamente no. O dovrebbe tutta andare col Sud? Inconcepibile… mi pare insomma che l’Italia peninsulare non possa dividersi in due soli raggruppamenti di regioni così differenti, senza viziare fin dalle basi il concetto fondamentale del federalismo” .
4. Gramsci e la Questione Meridionale.
Nella elaborazione gramsciana la “Questione meridionale” assume il valore di una vera e propria questione nazionale, anzi la più importante questione della storia italiana. Essa viene sviluppata segnatamente nel saggio Alcuni temi della questione meridionale ma è anche presente in molti appunti che si trovano nei Quaderni dal carcere
In Gramsci il “meridionalismo” per intanto si trasferiva da elitari circoli intellettuali alle masse e si ricomponeva così l’unità della teoria e della prassi, alla base di tutta la sua riflessione, perché per l’eroe antifascista occorre certo conoscere il mondo ma –marxisticamente- per cambiarlo e non solo per capirlo e interpretarlo.
In secondo luogo –per così dire come premessa– Gramsci rifiuta con sdegno le tesi delle cosiddette tare criminogene dei sardi e dei meridionali, sostenute allora persino in certi ambienti socialisti impregnati di positivismo –è il caso di Enrico Ferri, direttore dell’Avanti, organo del Partito socialista, dal 1904 al 1908 e deputato dello stesso partito per molte legislature- secondo le quali le popolazioni meridionali erano inferiori “per natura”. Questa ideologia pararazzistica aveva fatto breccia anche tra le masse lavoratrici del Nord: in qualche modo ne è testimonianza un’orrenda ma significativa espressione di Trampolini, massimo esponente del socialismo emiliano, secondo il quale gli italiani si dividevano in “nordici” e “sudici” .
Ma anche quando non sfociano in queste espressioni al limite del razzismo, le posizioni complessive dei Socialisti –e dunque non solo quelle di Filippo Turati e dei riformisti– sono di totale sfiducia nelle possibilità del proletariato meridionale: il loro interesse infatti è rivolto esclusivamente alla classe operaia del Nord e alle sue organizzazioni. Di qui l’abbandono sdegnato del Partito socialista da parte di Gaetano Salvemini, che al PSI rimprovererà proprio di essere “nordista”, ovvero di interessarsi solo delle oligarchie operaie delle industrie settentrionali mentre rimane estraneo quando non ostile rispetto agli interessi dei contadini meridionali.
Nell’affrontare la Questione meridionale l’intellettuale di Ghilarza pone in prima istanza la necessità di un’alleanza stabile e storica fra gli operai del Nord e i contadini del sud e dunque manda gambe all’aria non solo il positivismo razzistico di certo socialismo ma la sfiducia generale che si nutriva dei confronti dei contadini. In questa posizione si sente fortissimo il suo essere sardo, il legame con la sua terra, la conoscenza e la consapevolezza dei mali dell’Isola; insieme l’elaborazione che fa della “Questione meridionale” è strettamente legata alla strategia rivoluzionaria del Partito comunista di allora.
Gramsci nella sua elaborazione parte dalla considerazione che l’esistenza delle due Italie –una sviluppata e l’altra sottosviluppata- erano il risultato inevitabile del processo risorgimentale, di come si era realizzata l’unità, senza la partecipazione e il coinvolgimento delle masse contadine. Si era trattato in buona sostanza di una “rivoluzione passiva” che aveva visto protagonista e vincente il cosiddetto blocco storico conservatore, costituito dagli industriali del Nord alleati e complici con gli agrari del Sud e con gli intellettuali che facevano da cerniera fra le masse sfruttate e i grandi latifondisti meridionali.
5. Gramsci e la lingua sarda: la lettera a Teresina (del 26 Marzo del 1927),
(….) Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non si deve fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sè, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro.
6. Gramsci e le tradizioni popolari.
Sì, le tradizioni popolari: “ ….le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana … le gare poetiche…. le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio …. le feste di Sant’Isidoro”. “Sai – scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927 – che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa”.
In altre opere ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così –fra l’altro– l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore è ciò che è e “occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita“, “riflesso della condizione di vita culturale di un popolo“ in contrasto con la società ufficiale.
7.Gramsci e il “folclorismo”.
Quello che invece Gramsci critica è il “folclorismo“, ovvero l’abbandono all’isolamento storico e a una cultura arbitrariamente privata di ogni residua mobilità, che definisce , malattia mortale di una cultura disattenta ai significati progressivi della esperienza popolare e invece esaurita nel rispecchiamento della vita passata, nella celebrazione di quei“ valori” che disturbano meno la morale degli strati dirigenti e rendono in questo senso più facili tutte le “operazioni conservatrici e reazionarie” legando vieppiù il folclore “alla cultura della classe dominante “.
8. Gramsci e le “pardulas”.
In altre lettere – per esempio in quelle del 16 Novembre del 1931 alla sorella Teresina– chiede notizie su parole in sardo logudorese e campidanese e alla madre – nella lettera del 26 Febbraio del 1927 – si figura di rinnovare una volta libero e tornato al paese il “grandissimo pranzo con culurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu siccada”. In un’altra lettera del 27 Giugno 1927 le chiede di mandargli “la predica di fra Antiogu a su populu de Masullas”.E al figlio Delio che parlava russo e italiano e cantava canzoncine in francese avrebbe voluto insegnare a cantare in sardo: “lassa su figu, puzzone”.
9. Gramsci e l’utilizzo della Lingua sarda.
Ma il “sardo“ di Gramsci non si ferma qui: alle pardulas e ai bimborimbò delle feste paesane, pure importanti. Il suo rientrare insistente nella lingua materna non è un fatto sentimentale. Va ben oltre. Voglio ricordare per inciso che nei primi mesi di vita studentesca nella Facoltà di Lettere a Torino i suoi interessi si rivolgono in modo particolare agli studi di glottologia di qui le sue ricerche sulla lingua sarda e il suo proposito di laurearsi, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, proprio in glottologia. O basti pensare che si fa scrivere da due bolscevichi della “Sassari“ lo slogan della futura rivoluzione in Sardegna: “Viva sa comune sarda de sos massajos, de sos minadores, de sos pastores, de sos omines de traballu” (Avanti ,edizione piemontese del 13 Luglio 1919).
Conclusione
“Tu Nino sei stato molto più che un sardo, ma senza la Sardegna è impossibile capirti”:Lettera a Gramsci di Eric Hobsbawm pubblicata sull’Unione sarda il 24 aprile 2007
Hobsbawm è lo storico britannico, autore celebre de “Age of the Estremes” tradotto in Italia e pubblicato dalla Rizzoli con il titolo di “Secolo breve”
LA STAMPA
La STAMPA
San Nicola di Mira (di Bari)
S. Nicola fu uno dei più illustri santi che fiorirono nella Chiesa orientale nel secolo IV. Nativo di Pataro nella Licia, dimostrò fin da bambino di essere predestinato a grandi cose. Prestissimo si innamorò della vita religiosa, e si ritirò in un monastero nelle vicinanze di Mira.
Mirabili furono quivi i suoi slanci d’amore al Signore ed il progresso quotidiano nella virtù. Praticava la carità materiale e spirituale verso il prossimo, e di lui rimase celebre il seguente fatto.
Trovandosi tre giovanette in grave pericolo di perdere l’innocenza, non potendo a causa della loro povertà trovare un onesto collocamento, per tre notti consecutive Nicola si portò vicino a quella casa, ed ogni volta vi gettò dalla finestra una borsa contenente il necessario per la dote di una figlia.
La sua grande devozione lo spinse a visitare la Terra Santa. Durante il viaggio, quando la nave su cui era montato si trovava in alto mare, si scatenò una tempesta tale che i marinai disperavano della salvezza.
Ma Nicola, rassicuratili, si mise in ginocchio: ed il mare divenne calmo e si arrivò felicemente in porto. Ritornato dal pellegrinaggio, trovò vacante la sede episcopale di Mira, capitale della Licia. Nicola, già celebre per i suoi miracoli e per la sua vita esemplare, fu eletto ad occupare quella sede, e la resse sapientemente per molti anni. Fu grande benefattore dei poveri, padre degli orfani, sostegno delle vedove.
Durante la persecuzione di Diocleziano, fu deportato e confinato. Restituita la libertà alla Chiesa, il santo vescovo ritornò tra il suo popolo. Partecipò al Concilio Ecumenico di Nicea ed ebbe parte assai attiva nella confutazione di Ario.
Il Signore lo preavvisò della prossima sua morte ed il Santo, raccomandatosi alle preci del suo buon popolo, radunò il clero, e prese a recitare il salmo: In te Domine, speravi, fino al versetto: In manus tuas, commendo spiritum meum, e col sorriso sulle labbra, spirò. Era l’anno 342.
Il suo corpo si conserva a Bari, nella Basilica del suo nome.
PRATICA. Perdoniamo le offese e preghiamo per coloro che ci fanno soffrire.
PREGHIERA. O Signore, che hai voluto onorare il tuo vescovo Nicola con insigni miracoli, fa’ che per la sua intercessione siamo liberati dalle pene del fuoco eterno.
Approfondimento
I protestanti, come si sa, non ammettono il culto dei santi. Tuttavia, c’è un santo che è popolare anche e soprattutto nei paesi protestanti, benché non tutti sian capaci di riconoscere, sotto le fattezze e l’abbigliamento del bonario Babbo Natale, uno dei santi più celebri della Chiesa cattolica: San Nicola.
Ma non c’è dubbio. Il cappuccio foderato di pelliccia del nordico Babbo Natale, non è altro che la mitria del barbuto vescovo orientale. Infatti, in Germania e in Svizzera, Babbo Natale si chiama Nikolaus, e il 6 dicembre è festa grande per i ragazzi. Nikolaus, con la gerla colma di doni, ha varcato l’Oceano sulle navi dei coloni olandesi, e in America è diventato ” Santa Claus”, re della tradizione natalizia, e anche pubblicitaria del Nuovo Mondo.
E dall’America, Santa Claus è rimbalzato con nuova fortuna in Europa; ma pochi l’hanno riconosciuto per San Nicola. San Nicola da Bari, il secolare amico degli scolaretti e di tutti i bambini.
Questo non è l’unico segno della popolarità di San Nicola, uno dei santi più venerati in Oriente e in Occidente. Per tutto l’alto medioevo, egli è stato, per la sua delicata carità, qualcosa di simile a ciò che San Francesco è stato ed è ancora per l’evo moderno. E spesso appare vicino a San Francesco nelle pitture delle chiese francescane.
Per la storia, San Nicola fu vescovo di Mira, nella Licia, ai tempi di Costantino. A Mira le sue reliquie furono venerate finché non sopraggiunse l’invasione turca. Allora vennero poste in salvo da 62 soldati, devoti corsari della città di Bari. E il 9 maggio del 1087, con immensi onori, furono poste nella celebre, vetusta cattedrale del grande porto pugliese, e Bari, dopo una vivace contesa con Benevento, divenne il centro del culto di San Nicola, patrono, tra l’altro, della Russia.
Numerose leggende narrano i particolari della sua vita: “Niccolaio trasse il suo nascimento da ricche e sante persone. Il primo die che fue bagnato, stette per se medesimo ritto nel bacino, e due dì della settimana, cioè il mercoledì e il venerdì, solamente una volta per die prendeva il latte. E. fatto giovane, schifava le dissoluzioni e le vanità e usava la chiesa maggiormente”. Non seguì però la carriera ecclesiastica. Salì alla cattedra vescovile per soprannaturale ispirazione dei vescovi riuniti in Concilio, che decisero di eleggere il primo che entrasse in chiesa e avesse il nome di Nicola. Fu presto noto per i suoi prodigi: “Uno die, alquanti marinai pericolavano nel mare. Feciono questa orazione con lacrime: `Niccolaio, servo di Dio, se vere sono le cose le quali udiamo di te, piacciati che noi ora le proviamo’. Incontanente apparve e disse: ‘Ecco, io sono presente’, e cessò la tempesta”.
Perciò i marinai lo considerano loro protettore, ma soprattutto è patrono degli scolari. Tra le molte leggende è infatti celebre quella dei tre scolaretti che un feroce macellaio di Mira aveva sgozzato e messo in salamoia, come porcellotti. Il Santo compì la strepitosa resurrezione dei tre fanciulli, convertendo, per giunta, anche il macellaio.
L’episodio ha dato origine a canti popolari, poco noti ma spesso suggestivi, dei quali citiamo quello raccolto e riportato da Gerard de Nerval nelle Figlie del fuoco
che andavano a spigolare in un campo.
Arrivano una sera da un macellaio
“Macellaio, potresti ospitarci?”
“Entrate, entrate, piccoli,
c’è posto senz’altro.”
Erano appena entrati,
che il macellaio li ha ammazzati,
li ha fatti a pezzettini,
li ha messi a salare come maialini.
San Nicola dopo sette anni,
San Nicola arrivò in quel campo.
Se ne andò dal macellaio
“Macellaio, potresti ospitarmi?”
“Entrate, entrate, San Nicola,
posto ce n’è, non ne manca davvero”
Era appena entrato,
che chiese da cena.
“Volete un pezzo di prosciutto?”
“Non ne voglio, mi sembra brutto”
“Volete un pezzo di vitello?”
Non ne voglio, non è bello!
Voglio proprio il salamino,
che sta a salare da sette anni!
Quando il macellaio lo senti,
fuori dalla porta se ne fuggi.
“Macellaio, macellaio, non fuggire,
pentiti, Dio ti perdonerà.”
San Nicola posò tre dita
sull’orlo del salatoio.
Il primo disse: “Ho dormito bene!”
Il secondo disse: “lo pure!”
Rispose il terzo: “Credevo d’esser già in paradiso!”
Ancor più suggestivi sono gli innumerevoli episodi di carità del Santo. “Un suo vicino” narra la Legenda Aurea “pervenuto a grandissima povertà, tre sue figliole vergini ordinò di mettere al peccato, acciò che di quella vituperosa mercatantia potesse nutricare sé e le sue figliuole. Per la qual cosa, sentendo il Santo Niccolaio così scellerata intenzione, mosso da zelo di pietade, tolse una massa d’oro, e così legata in un panno, di notte tempo gittolla segretamente per la finestra, e partissi di celato”.
L’uomo poté così maritare la prima figlia, e il misterioso dono si ripete finché tutte e tre le ragazze furono onestamente accasate. Solo allora, il padre, appostatosi, poté riconoscere in San Nicola lo sconosciuto benefattore. In tempo di carestia, ottiene dai marinai delle navi frumentarie dell’imperatore una parte del carico, e distribuisce il grano ai bisognosi, senza che poi gli esattori possano riscontrare nessuna mancanza. Appare in sogno a Costantino e impedisce l’esecuzione di tre ufficiali ingiustamente condannati. Ma più spesso, San Nicola è il protettore dei bambini, sempre pronto ad esaudire le preghiere dei genitori a lui devoti.
Doni preziosi; episodi di carità: fanciulli beneficiati. Ecco ciò che spiega l’universale popolarità di San Nicola, e perché lo si ritrovi oggi con le sembianze di Babbo Natale: per ricordare, oltre tutte le apparenze superficiali, il dovere delle carità e il comandamento dell’amore, quell’Amore che nel Natale la sua espressione più alta.