Archivi giornalieri: 27 settembre 2014

Codacons: “Sempre più cittadini non riescono a pagare le bollette” Adnkronos News

Codacons: “Sempre più cittadini non riescono a pagare le bollette”

Adnkronos NewsAdnkronos News – 2 ore 16 minuti fa

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(AdnKronos) – La crisi economica che ha colpito il nostro paese e la perdita di potere d’acquisto subita dalle famiglie, non ha prodotto solo il drammatico calo dei consumi ma anche una crescita del numero di cittadini che non riescono più a pagare le bollette, e rischiano il distacco delle forniture. E’ la denuncia che arriva dal Codacons, che calcola che siano, ad oggi nel nostro Paese, circa 19,1 milioni gli italiani che risultano morosi sul fronte delle bollette luce, gas, telefonia e acqua. Quasi un cittadino su 3, quindi, non riesce a far fronte al pagamento di tutte le utenze, e i crediti da parte delle società erogatrici hanno raggiunto nel 2014 un livello record pari a 18 miliardi di euro solo in questi quattro settori.

La regione dove si registrano le maggiori difficoltà nel pagamento delle bollette è la Sicilia, seguita da Calabria, Puglia e Molise, mentre quelle dove i cittadini appaiono più virtuosi e la concentrazione di morosi è minore sono Trentino Alto Adige, Valle D’Aosta ed Emilia Romagna.

Dal 2012 al 2014, spiega ancora il Codacons, il numero di utenti morosi su almeno una fornitura è aumentato di circa 2 milioni di individui, e parallelamente è cresciuto anche il numero di famiglie che non riesce a far fronte alle spese condominiali. Nel 2014, il 25% delle famiglie, ossia 1 su 4, risulta morosa sul fronte del pagamento del condominio per la propria abitazione.

La riforma delle pensioni

La riforma delle pensioni

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È partita la nuova campagna istituzionale ideata da Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Inps per spiegare, in modo semplice e comprensibile a tutti, i concetti fondamentali della previdenza e le novità introdotte dalla Riforma.

Si tratta di alcuni brevi cartoni animati realizzati da Bruno Bozzetto, autore di numerosi lungometraggi e cortometraggi di animazione di grande successo, in collaborazione con il giornalista Lorenzo Pinna.

visualizza il video

A partire dal 1° gennaio 2012, le anzianità contributive maturate dopo il 31 dicembre 2011 verranno calcolate per tutti i lavoratori con il sistema di calcolo contributivo.
Il sistema contributivo è un sistema di calcolo della pensione che si basa su tutti i contributi versati durante l’intera vita assicurativa
Si distingue dal sistema di calcolo retributivo, che si basa sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di vita lavorativa.
Quindi tutti i lavoratori che avrebbero usufruito di una pensione calcolata esclusivamente con il calcolo retributivo avranno una pensione in pro rata calcolata con entrambi i sistemi di calcolo.

La pensione di vecchiaia, per le donne iscritte all’AGO e forme sostitutive, a partire dal 1° gennaio 2012 si conseguirà a 62 anni ed entro il 2018 si dovrà arrivare a 66 anni di età. Ci sarà quindi parità tra uomini e donne.

Sempre da gennaio 2012 per le lavoratrici autonome e le iscritte alla Gestione separata, l’età pensionabile è fissata a 63 anni e 6 mesi e per il  2018 a  66 anni di età.

Le donne del settore pubblico iscritte a Fondi esclusivi dal 1° gennaio 2012 potranno conseguire la pensione di vecchiaia a 66 anni.

Gli uomini del settore privato e pubblico, sia dipendenti sia autonomi, già dal 2012 conseguono la pensione a 66 anni.

Tutti, uomini e donne, devono avere un’anzianità contributiva di almeno 20 anni.

Dal 1° gennaio 2012 la pensione di anzianità non esisterà più. Sarà sostituita dalla pensione anticipata. Non bastano più i 40 anni ma ce ne vogliono per l’anno 2012 41 e 1 mese per le donne e 42 e 1 mese per gli uomini.

I requisiti, oltre ad essere soggetti all’adeguamento alla speranza di vita (per l’anno 2013 pari a 3 mesi), sono aumentati di un mese per l’anno 2013 e di un ulteriore mese a decorrere dal 2014.

Il meccanismo delle quote è stato abolito così come la finestra di scorrimento di 12 mesi di attesa (finestra mobile).

Per coloro che perfezionano i requisiti per l’accesso alla pensione a decorrere dal 1° gennaio 2012 la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata decorreranno dal 1° giorno del mese successivo alla maturazione dei requisiti.

È richiesta la cessazione di qualsiasi tipo di attività lavorativa alle dipendenze di terzi alla data di decorrenza della pensione. Non e’, invece, richiesta la cessazione dell’attività svolta in qualità di lavoratore autonomo.

Sono stati introdotti dei disincentivi per chi chiede la pensione anticipata prima dei 62 anni.

Infatti, sulla quota del trattamento pensionistico relativa alle anzianità contributive maturate antecedentemente al 1° gennaio 2012 è applicata una riduzione pari a 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni; tale riduzione è elevata a 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni (ovvero rispetto ai 60 anni di età). 
La riduzione non si applica a chi matura il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017, se tale anzianità contributiva derivi esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro, inclusi i periodi di astensione per maternità, per servizio militare, per infortunio, per malattia e di cassa integrazione guadagni.

Oltre all’innalzamento dell’età viene affiancata anche una certa  flessibilità nell’uscita dal lavoro. Da 62 anni a 70 anni il pensionamento sarà flessibile con applicazione dei relativi coefficienti di trasformazione del capitale accumulato con il metodo contributivo calcolati fino a 70 anni, fermo restando il rispetto dei limiti ordinamentali nel pubblico impiego.

In via eccezionale, per i lavoratori del settore privato, iscritti all’AGO e alla forme sostitutive, è stato previsto quanto segue:

  • i lavoratori che entro il 31 dicembre 2012 maturano 36 anni di contribuzione e 60 anni di età o 35 di contribuzione e 61 di età potranno andare in pensione anticipata  al compimento dei 64 anni di età;
  • le lavoratrici  che entro il 31 dicembre 2012 maturano almeno 20 anni e alla medesima data conseguano un’età anagrafica di almeno  60 anni potranno andare in pensione di vecchiaia al compimento dei 64 anni di età.

La “riforma delle pensioni”, con l’aumento dell’età pensionabile e l’abolizione delle pensioni di anzianità, non si applica:

  • ai lavoratori che maturano  i requisiti previsti  entro il 31 dicembre secondo la normativa vigente alla predetta data del 31 dicembre 2011;
  • alle lavoratrici dipendente ed autonome,  in presenza di un’anzianità contributiva pari o superiore a trentacinque anni e di un’età pari o superiore a 57 anni per le lavoratrici dipendenti e a 58 anni per le lavoratrici autonome  per le quali, in via sperimentale fino al 31 dicembre 2015,  è confermata la possibilità di conseguire il diritto all’accesso al trattamento pensionistico di anzianità qualora optino per una liquidazione del trattamento medesimo secondo le regole di calcolo del sistema contributivo, a condizione che la decorrenza del trattamento pensionistico si collochi entro il 31 dicembre 2015.

È previsto il blocco dell’adeguamento all’inflazione per il 2012 e il 2013, per i trattamenti pensionistici che superano 1.402 euro nel 2011.

Per ulteriori approfondimenti consultare la Circolare n.35 del 14 marzo 2012


Leggi questo articolo in formato PDFTorna suall’inizio del contenuto.

 

Le poesie in lingua sarda degli alunni di Prima media di Florinas (SS)

Le poesie in lingua sarda degli alunni di Prima media di Florinas (SS)

Quando studenti della scuola media scrivono poesie in lingua sarda

di Francesco Casula

Gli studenti di una prima Media di Florinas (SS) hanno partecipato con 13 belle poesie al Premio nazionale di Poesia “Città di Iglesias”, giunto alla Sedicesima edizione. Hanno ricevuto il plauso della Giuria e saranno premiati il 18 ottobre prossimo. Riguardano i temi più vari (Sa manta, Sole e luna, Sos colores de su mundu, Sa cane mia, Sas fozas, Pasca de Abrile est…, Su bentu, Sos colores, Mama, Su colore de sa vida, Atunzu, In beranu, Deo so cuntentu), ma tutte sono accomunate da accuratezza lessicale e una grafia precisa e corretta. A testimoniare che quando i docenti, sollecitano stimolano e seguono gli alunni in un percorso didattico intelligente, la creatività poetica e scrittoria dei giovani emerge con forza e qualità.

Segno che anche nella scuola qualcosa inizia a muoversi sul versante della lingua sarda. Dopo decenni di censura, ostilità e condanna, esemplificate, plasticamente da quell’antipedagogico e antididattico :Non parlare in dialetto!

Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.

Ma c’è di più : la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico si configurano non come un fatto increscioso da correggere e controllare, ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.

Sostiene Antonella Sorace, che insegna Linguistica acquisizionale all’Università di Edimburgo, dove ha creato un centro di informazione,Bilingualism Matters,(con filiali in tutta Europa, una ha operato anche in Sardegna), che diffonde gli esiti delle ricerche fra i non addetti ai lavori,: Un bambino che parla più lingue ha la mente più flessibile. È più capace di gestire conflitti tra informazioni diverse e selezionare ciò che conta. E continua: Un bambino plurilingue è anche più capace di comprendere il punto di vista altrui. Dietro ogni lingua c’è un modo di pensare, un’intera cultura: i bambini plurilingui lo percepiscono,gli adulti spesso no. Ma ci sono aspetti sociali rilevanti. Un bimbo circondato da persone che svalutano una delle lingue, magari perché la credono inutile e superata, come accade in Sardegna, crescerà meno motivato a parlarla.

Non è necessario programmare un’educazione bilingue sin dalla nascita, ma è meglio che la seconda lingua sia introdotta quanto prima. Purtroppo  – continua Sorace – molti genitori non lo sanno, credono che il bambino possa apprendere solo una lingua per volta.E se gli idiomi diventano tre: italiano, sardo e inglese? “Nessun danno per il cervello del bambino ironizza la docente: Ma se gli studiosi sono ormai certi che è salutare parlare più di un idioma, le famiglie spesso non lo sanno. E, fatto ancor più grave, spesso non ne sono coscienti neppure i docenti.

Di qui l’urgenza che la lingua sarda entri organicamente nei curricula scolastici, delle scuole di ogni ordine e grado: anche come strumento per iniziare a risolvere i problemi dello svantaggio culturale e della stessa dispersione e mortalità scolastica come della precaria alfabetizzazione di gran parte della popolazione, evidente e diffusa a livello di scolarità di base ma anche superiore. Specie a livello comunicativo e lessicale. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, gergale.

Del resto oggi sono – almeno parzialmente – gli stessi programmi scolastici ministeriali ad indicare nelle esperienze linguistiche e nelle culture locali i fondamenti su cui costruire tutto il processo di apprendimento della stessa lingua italiana ma soprattutto la formazione della personalità dello studente: una profonda conoscenza dell’ambiente come base ineludibile e come condizione necessaria del processo educativo e didattico degli studenti e dei giovani. Certo l’ambiente naturale con i suoi monti fiumi e pianure, con la sua flora e la sua fauna, ma soprattutto ambiente come società umana con le sue specificità culturali: storiche e linguistiche in primis.

 

Mio padre #Berlinguer

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Mio padre #Berlinguer

Mio padre #Berlinguer

in News Enrico Berlinguer 20 maggio 2014

 

Intervista a Bianca Berlinguer, di Simonetta Fiori, apparsa sul Venerdì di Repubblica

“Il timone lo teneva sempre lui, nel mare di Stintino. E usciva tanto più volentieri se il maestrale era forte, le vele gonfie di vento, quando tutti gli altri gozzi rimanevano a riva. Perché nel mare cercava la libertà e nel vento la sfida.”. Il Berlinguer privato, il padre accudente e il marito innamorato, l’ironia e il gioco, le stravaganze e le passioni insolite. E’ la prima volta che la figlia Bianca apre la porta di “casa Berlinguer” (ND in realtà la seconda, la prima un anno fa), anche se non è facile parlare in pubblico di un uomo che fece della riservatezza uno stile di vita. “Ma è chiaro che questa è un’eccezione?”. Lo stesso sorriso, gli stessi occhi lievemente ripiegati all’ingiù, lo stesso movimento circolare del volto che faceva il padre nei momenti di tensione.

Un sabato mattina con Bianca, in un via vai di affetti privati – il marito Luigi Manconi, la loro figlia Giulia – e le telefonate del Tg3, di cui è direttrice.

Partiamo dalla somiglianza fisica. Come la vivi?
Ho cominciato ad avvertirla dopo la sua morte. Poi è stata la televisioni a restituirmi questa somiglianza, fin dal mio esordio in studio. Per la prima volta me lo disse anche mamma: “Certo, in tv eri identica a tuo padre.”

Caratterialmente gli somigli?
Forse la sua stessa cocciutaggine, una qualche spigolosità e quello stile famigliare di riservatezza. Dei quattro figli chi lo ricorda di più è però Marco, più introverso di noi.

Ma tuo padre era riservato anche con i figli o mostrava un’affettuosità anche fisica?
Papà è stato anche un padre fisico, soprattutto quando non c’era mia madre. Avevo due anni quando nacque Maria e andammo con lui in Sardegna per quindici giorni. Io ricordo poco, ma le mie zie mi raccontavano che gli stavo appiccicata come una tellina. E lui era molto sollecito, mi lavava, mi cambiava, mi preparava da mangiare. La stessa cosa si sarebbe ripetuta con la nascita di Laura. Avevo dieci anni, Maria otto e Marco sette e ci immergemmo nell’anarchia di Stintino. Però papà era attentissimo a certe regole: cambio di costume dopo il bagno, mai mangiare prima della nuotata. E poi la scuola del gozzo.

In che consisteva?
Si usciva con le barche a vela latina dei pescatori, e ogni fascia d’età aveva il suo gozzo. I grandi uscivano coni  grandi, e i bambini tra i dodici e i tredici anni con i loro coetanei. Prima ti insegnavano a manovrare le vele, a tenere il timone, a sentire il vento. Io l’ho imparato da mio padre.

Quella del mare è anche scuola di vita.
Chissà. il mare gli piaceva tantissimo, soprattutto quando batteva forte il maestrale. Era una sua caratteristica: quando salive il vento, lui usciva. Soprattutto il pomeriggio, con Paolo, il cugino molto amato.

Ma vi caricava a bordo con sé?
No, finché eravamo piccoli mamma glielo ha impedito. “Non t’azzardare a portarli con te…” Due o tre volte ha rischiato di brutto. Ricordo ancora un episodio drammatico, un cielo nero di tempesta, e noi a casa ad aspettarli. Mamma telefonò a zio Aldo Berlinguer, il padre di Paolo, chiedendogli se non era il caso di mandare i soccorsi. “Ma prima che qualcuno si muova… dai, ce la faranno da soli.” Tornarono a tarda sera con le vele strappate.

Il mare come un grande amore.
Sì, arrivo al punto di dire che , se avesse potuto scegliere come morire, avrebbe preferito in mare. E mia madre scherzando chiosava: e infatti ci hai provato più volte. Il mare rappresentava soprattutto la libertà. Quando era segretario, la barca era l’unico posto dove non aveva la scorta. E la sua era una vita blindata.

Non si ribellava mai?
Una volta venne con me in motorino. Avrò avuto sedici anni, tempi già pericolosi, alla metà degli anni Settanta. Arrivai prima del previsto a casa e lo trovai solo e senza scorta. “Ha chiamato il preside per i tuoi fratelli, bisogna che qualcuno vada”. Ma come, in motorino? Avevo un sellino piccolissimo e cominciò tra noi una specie di colluttazione per trovare una sistemazione. In precario equilibrio arrivammo a scuola e dopo poco di nuovo a casa. Dove trovammo una folla di compagni e poliziotti in allarme. Ma sei matto? In motorino con Bianca? Lui si fingeva costernato. In realtà era felice di essere fuggito per un’ora con me.

Dopo il sequestro e l’assassinio di Moro, le cose si fecero più complicate.
Già prima del rapimento, sapevamo che mio padre era nel mirino delle Brigate Rosse. Certo fu quello il momento più drammatico della sua vita politica. Non solo si esauriva il progetto in cui aveva creduto, ma la linea della fermezza lo metteva di fronte a una scelta che lo tormentava anche umanamente. Una linea che difese con grande determinazione, nella convinzione che la trattativa avrebbe portato a un riconoscimento politico delle Br da parte dello Stato. Tant’è vero che un giorno ci chiamò da parte: se dovesse capitare a me di venire sequestrato, voglio che non ci sia alcun negoziato. Lo dico adesso da uomo libero: e qualunque cosa dovessi mai scrivere dalla “prigione del popolo”, vi chiedo di rispettare quello che dico in questo momento.

Cosa accadde a casa vostra quel 16 marzo 1978?
Papà arrivo a casa solo a tarda sera. Era molto provato, ma come sempre consapevole. Ci spiegò l’enormità di quanto stava accadendo, ma senza cedere all’emotività e tanto meno all’evocazione della minaccia di un colpo di Stato, come avevo sentito dire quella mattina a scuola. Furono giorni davvero drammatici. La scorta triplicò e anche per noi figli si pose il problema della sicurezza. Da allora i Natali si sarebbero festeggiati in casa nostra, non più da nonna Niki, la seconda moglie di suo padre.

Com’erano i loro rapporti?
Lei è arrivata quando papà e il fratello Giovanni erano già grandi, dunque non ha avuto nessun ruolo materno nella loro vita. La loro mamma, nonna Maria, era già morta da tanti anni – papà era appena quattordicenne – ma l’encefalite letargica le aveva impedito di accudirli sin da piccolissimi. D i fatto sono cresciuti senza madre. Da qui il legame strettissimo tra loro e il padre Mario. L’unica volta che vidi piangere papà fu per la morte di nonno.

Avevano caratteri diversi.
Sì, mio nonno era un avvocato molto estroverso, burlone, anche mondano, mentre mio padre era piuttosto restio ai rituali sociali. Certo è che la morte della madre l’aveva segnato profondamente.

Forse è stato così premuroso con voi anche perché a lui era mancata la madre.
Forse. Quando Laura era piccola, papà aveva l’abitudine di tenerle la mano finché non si addormentava. Mia madre non approvava: quando lui non c’era, toccava a lei assolvere il ruolo di “reggitrice”. Così per anni avrebbe attribuito al vizio di papà il suo dolore alla spalla.

C’è un bellissimo ritratto di tua madre nel diario di zia Ines Siglienti. “Letizia polemica, com’era da bambina. Si diverte – e ci diverte – a contraddirci su tutto: Pertini, il papa, la Dc, la Malfa e perfino il Pci. E’ simpaticissima. Lei dice male se dici bene, bene se dici male. Ed Enrico, sorridendo dolcemente, cambia discorso.”
Questa è stata la saggezza dei miei genitori: il ruolo pubblico di papà rimaneva fuori di casa. E tra loro c’era la più grande parità. Mia madre non è mai stata comunista e ha sempre manifestato una totale indipendenza di giudizio. Per noi figlie femmine una lezione fondamentale. Ma di questa separazione tra vita politica e vita privata aveva bisogno anche mio padre. Il suo ruolo pubblico l’ha vissuto con dedizione massima, ma gli pesava. Era  una persona riservata, a cui non piaceva esporsi. Oltre la soglia di casa riacquistava la sua libertà.

Era innamorato di tua madre?
Sì, fu un’unione molto profonda, che si nutriva della loro diversità. Lui introverso, mite, anche un po’ timido; mamma estroversa, esuberante, desiderosa di socialità. Hanno avuto una vita intensa, felice ma – come in tutti i rapporti di coppia – tormentata e attraversata da difficoltà. E più cresceva il ruolo pubblico di mio padre, più problemi nascevano.

S’erano conosciuti da ragazzi.
Sì, a casa di zia Ines Berlinguer; forse la figura femminile che più ha contato nella formazione di mio padre. Mamma era molto amica di Lina, la figlia di Ines. Anche zia Ines era approdata a Roma con il marito Stefano Siglienti, un banchiere già ministro delle finanze e direttore dell’Istituto mobiliare italiano. la loro casa di Grottaferrata era luogo di incontri anche politi, dove papà andava volentieri. La conoscenza con mamma avvenne da giovanissimi, anche se il rapporto sentimentale sarebbe nato più tardi.

Lei cattolica, lui no.
Sì, un’altra delle differenze tra loro. Con l’accordo di mio padre, tutti noi abbiamo ricevuto un’educazione religiosa: prima il battesimo poi la Comunione, mentre per la Cresima decisero entrambi che sarebbe stata, eventualmente, una nostra scelta da adulti.

Qualcuno ha scritto che con il proprio padre non si parla mai di Dio né di sesso.
Di religione, sì, abbiamo parlato, di sesso molto meno. Ma i nostri fidanzati crescevano da noi, erano persone di famiglia. Se qualcuno non gli piaceva, si guardava bene dal dircelo. Ma traspariva con grande chiarezza.

C’è stato un momento in cui ti ha sorpreso?
Verso i quattordici anni ebbi una classica crisi adolescenziale, quelle per cui ti chiedi il perché del tuo stare al mondo. Una sera, verso le dieci, si affacciò nella mia camera e mi raccontò come la vita potesse essere bella. Ma non riferendosi ai massimi sistemi, bensì alle piccole cose. Un albero che fiorisce, un tramonto fiammeggiante, la lettura di un libro. Lui che aveva dedicato tutto se stesso a cercare di trasformare la società, voleva trasmettermi il senso pieno dell’esistenza anche nelle pieghe della quotidianità.

 Non era un padre ideologico.
Al contrario. Gli hanno cucito addosso lo stereotipo dell’uomo triste e grigio, anche per attaccarlo politicamente. Ma non c’è niente di più falso. Amava l’arte e la musica, specie Wagner. Era un lettore onnivore, I dialoghi di Platone il suo livre de chevet. Gli piaceva il calcio e quando poteva andava al cinema. All’occorrenza si improvvisava cuoco di pasta al burro e uova con la mozzarella. E non era privo di stravaganze.

Quali?
Mi viene in mente quella volte che, prima del viaggio in Cina, uscì con Laura allora tredicenne per fare delle compere. Al rientro ci mostrò fiero i suoi acquisti: camicie di taglia microscopica, pantaloni di foggia improponibile. Ma la cosa che lo rendeva più orgoglioso era il grande affare: tre maglie a diecimila lire, in più la tessera del negozio. Lo guardammo allibiti, nessuno però osò rompere il suo incanto.

Quel viaggio in Cina, nell’83, fu più sereno del precedente in Unione Sovietica.
Sì, il soggiorno a Jalta nel 1979 era stato pesante. I sovietici diffidavano di mio padre, e lui di loro. Ci avevano piazzato fisso a casa Smirnov, un russo che parlava bene l’italiano. Papà era convinto che fosse lì per spiarci. D’altra parte da anni i rapporti erano deteriorati.

Ne parlavate a casa?
Sì, certo. Credo personalmente che “lo strappo” l’avesse maturato da molto tempo, ma spettò che tutto il partito lo seguisse. Capitava in famiglia di scherzarci su: soprattutto quando ci accorgemmo che a Natale, invece di ricevere i soliti due vasetti di caviale della migliore qualità, da Mosca cominciava da arrivarci quello mediocre. E mia madre rideva: “Si vede proprio che siamo in disgrazia con l’Urss”. A Pechino invece l’atmosfera sarebbe stata più serena. Ma fu un viaggio molto stancante, così al rientro papà volle trascorrere qualche giorno a Stintino.

L’ultima estate insieme.
Sì, furono vacanze bellissime, perché a fine agosto tutte le altre famiglie erano già partite e per la prima volta restammo solo tra noi. Mi ricordo lunghi pomeriggi in barca, con papà e mamma. Dopo la sua morte a Stintino non siamo più tornati, comunque non tutti insieme: troppo doloroso.

Quando hai capito chi era Enrico Berlinguer?
Credo di averlo capitolo solo dopo la sua morte. Quando uscimmo dalla clinica, a Padova, per andare a Mestre, dove ci aspettava l’aereo di Sandro Pertini, fui travolta da una sensazione fortissima: chi lanciava un fiore, chi faceva il pugno chiuso, chi il segno della croce. Ognuno salutava alla sua maniera, in un crescendo di sentimento che avverto anche oggi, dopo trent’anni.

Vedendo le immagini dell’ultimo comizio, nel film di Walter Veltroni, in molti abbiamo pensato: forse si sarebbe potuto salvare.
Me lo sono chiesta anche io tante volte, ma non so darmi una risposta. Quando arrivammo a Padova, la mattina dopo l’operazione chirurgica, mamma ci comunicò subito la verità: i medici hanno detto che vostro padre non ha alcuna possibilità di salvarsi. Un figlio desidera sempre che il padre sopravviva in qualunque modo. Ma se papà fosse rimasto in vita ferito nella sua dignità, sarebbe stato per lui uno strazio insopportabile.

Cosa ricordi di quei momenti?
Durante l’agonia e dopo la sua morte, non ci lasciarono il tempo di restare soli con lui neanche un istante. La storia pubblica s’impadronì prepotentemente di quella privata. Oggi lo impedirei. Così come impedirei la passerella dei politici nella sala di rianimazione. Così pudico e riservato, mio padre non avrebbe mai voluto essere visto nel letto di morte da nessuno. Non solo da Bettino Craxi – cosa che fu impedita da mio fratello Marco, che in lacrime litigò con Giancarlo Pajetta – ma da qualunque altro estraneo.

Cosa non hai fatto in tempo a dirgli?
Un’infinità di cose. Però cerco di non pensarci perché è un’idea che fa male.

C’è qualcosa che ti disturba delle tante cose dette e scritte in questi anni?
Molti analisti – tra cui numerosi suoi eredi politici – tendono a interpretare gli ultimi anni della sua vita come una fase di sconfitta. La sua grave colpa sarebbe stata quella di non aver compreso la portata innovatrice del craxismo. Io ho un ricordo diverso: furono gli anni in cui rafforzò il rapporto con la base del suo partito e si confrontava con i nuovi movimenti, con la questione femminile, con il tema del rapporto tra Nord e Sud del mondo. Ed era convinto che una politica non fondata sull’etica fosse destinata a corrompersi. Ma questo non significa in alcun modo ridurre la politica a moralismo. E mi sembra che la storia successiva gli abbia dato ragione.

Le immagini dell’ultima Direzione del Pci lo restituiscono stanco.
Era uno che si spendeva totalmente per l’impegno politico. Ma non voleva fare il segretario a vita. Mentre lo accompagnavamo al congresso del 1983, disse a me e a Maria che bisognava cambiare questa regola. Ora non so esattamente con quali tempi. Non poteva certo prevedere che sarebbe morto l’anno successivo.

Nella tumultuosa rimozione dopo l’Ottantanove, Piero Fassino scrisse che morire era stata la sua fortuna politica.
Mettiamola così: alcuni hanno provato ripetutamente a cancellarne la memoria, soprattutto quelli che volevano accreditarsi nel cosiddetto salotto buono, però una parte importante del partito – elettori, militanti e quadri – lo ha impedito. Si sono dovuti fermare.

Che cosa ti manca di più di tuo padre?
Mi manca moltissimo che non abbia potuto conoscere niente della nostra vita di adulti. Non potere interpellarlo su quello che faccio. E sulla situazione politica, così distante da quella che lui ha vissuto. Ma quello che mi anca di più è che non abbia potuto conoscere i nostri figli: Letizia, Caterina, Giulia, Enrico e Abril, nata il 26 aprile a Barcellona, in Catalogna.

In Catalogna, dove la storia dei Berlinguer/Berenguer era cominciata. Ma se potessi rivivere un giorno con tuo padre: con i nipoti nel gozzo?
Con i nipoti sì, ma non in barca. Due di loro sono troppo piccoli per reggere la sfida di papà con il maestrale. E io non riuscirei certo a fargli cambiare idea.

Enrico

L’Italia ai tempi di #Berlinguer – lo Speciale su “I Siciliani” di giugno

L’Italia ai tempi di #Berlinguer – lo Speciale su “I Siciliani” di giugno

in News EB.IT 30 giugno 2014

 

Il nuovo numero de “I Siciliani” contiene uno speciale per il trentennale della scomparsa di Enrico Berlinguer, curato da Pierpaolo Farina: potete scaricarlo in formato pdf qui.

Di seguito invece gli screenshots e il testo.

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Padova, 7 giugno 1984. Faceva freddo quella sera, per essere giugno. Piazza della Frutta era spazzata via da forti folate di vento, mentre le nuvole facevano presagire pioggia. Ciononostante, migliaia di persone erano lì da ore sotto a un palco dove troneggiava un’immensa falce e martello, in attesa che un signore in giacca e cravatta prendesse la parola. Sarebbe stata l’ultima volta, ma nessuno poteva immaginarlo.

Enrico Berlinguer iniziò a parlare alle 21:30, sarebbe sceso da quel palco quasi un’ora dopo. Era stanco, provato in volto, veniva da un tour massacrante per le elezioni Europee e in ogni piazza si batteva contro la deriva autoritaria e anti-democratica del governo di Bettino Craxi, il secondo rottamatore della storia d’Italia (il primo era stato Mussolini).

Berlinguer quella sera parlò per 40 minuti, attaccando i partiti che avevano malgovernato e stavano malgovernando il Belpaese, evocando l’Italia “onesta, pulita e democratica, non quella della P2” che il suo partito voleva portare in Europa. All’improvviso la prima pausa, il primo sintomo del male che se lo sarebbe portato via. Le immagini di quegli ultimi minuti sono laceranti e danno, da sole, la cifra di che uomo realmente fosse Enrico Berlinguer.

«Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando». Si spense così, davanti alla sua gente, con un messaggio di speranza e fiducia. Lui, così schivo e riservato, per un beffardo scherzo del destino finì con l’offrire all’Italia e al mondo intero la morte più terribilmente pubblica che ci potesse essere. Qualcuno ha scritto che è morto sul campo di battaglia, altri sul posto di lavoro: quel che è certo è che Enrico Berlinguer si spese fino all’ultimo minuto della sua vita per un ideale. Era, per usare le parole di Max Weber, “il politico con la vocazione, cioè il vero Politico, quello che serve una causa”.

Il Partito Comunista Italiano, sotto di lui, toccò percentuali di consenso mai raggiunte da nessun altro partito comunista d’Occidente: con Berlinguer, un italiano su tre votava comunista ed era convinto che la politica fosse una cosa bella. Roberto Benigni scrisse una volta: “Non mi piace la politica, mi piace Berlinguer”, dando voce a un sentimento collettivo che culminò in quella manifestazione per la pace al Pincio nel giugno ’83 quando lo prese in braccio, “per ricambiare tutte quelle volte che mi sono sentito sollevato da lui”.

Berlinguer era sardo ma si sentiva italiano (come scrisse nell’immediato dopoguerra lui stesso a un compagno), era comunista ma difese con le unghie e con i denti la democrazia (e per questo i sovietici tentarono di farlo fuori nel 1973 a Sofia), credeva nell’Europa dei popoli e dei lavoratori ma si sentiva cittadino del mondo. Era nato a Sassari il 25 maggio 1922: oggi avrebbe avuto 92 anni. È morto invece a 62, nel pieno delle forze, stroncato da un ictus, dopo 90 ore di agonia.

Protagonista di quel dramma, che sconvolse l’Italia intera, fu, suo malgrado, un signore d’altri tempi che avrebbe conquistato il cuore degli Italiani: era stato partigiano, di fede socialista, ed era anche in quel momento il Presidente della Repubblica. Il caso volle che Sandro Pertini si trovasse a Padova proprio lo stesso giorno di Berlinguer e non appena venne ricoverato, si fece subito dare una camera vicino alla sua in ospedale, vegliando sul leader comunista fino alla morte.

Alle 12:45 dell’11 giugno 1984, in un italiano stentato che tradiva l’emozione per quella perdita che sconvolse le vite di milioni di italiani veniva dato l’annuncio che “L’onorevole Berlinguer è mancato di vivere.”

Quando lo riportò a Roma con l’aereo presidenziale, Pertini dichiarò alla stampa: «Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta». E per tutti fu come se fosse mancato un caro amico, un fratello, un padre, un pezzo di se stessi: da Padova all’aeroporto di Venezia, lungo tutto il tragitto del feretro, oltre 40 km, cittadini di ogni età e orientamento politico affollarono i bordi della strada per recargli l’ultimo saluto, fermi, immobili, completamente bagnati dalla pioggia che cadeva incessante, come se anche la natura si ribellasse alla tragedia. In effetti, come scrisse Roberto Benigni, «morire a 62 anni è come nascere a 24 mesi: uno non ci crede».

A Roma, in quel caldo 13 giugno, vennero da tutta Italia e da tutto il mondo a rendergli omaggio: capi di stato e di governo, leader politici di maggioranza e opposizione, ma soprattutto gente qualunque. Alla fine furono in due milioni a partecipare ai più grandi funerali della storia d’Italia. A rendere omaggio alla salma del leader del partito contro cui si era scritta la storia della Prima Repubblica ci andò anche il nemico per eccellenza, quel Giorgio Almirante capo dei fascisti del MSI, a cui Enrico non rivolgeva nemmeno la parola, perché, come disse in una tribuna politica del ’72, «Io coi fascisti non parlo». Eppure Almirante andò lo stesso, senza scorta, mettendosi in fila come gli altri. Rispose ad un giornalista: «Sono venuto a rendere omaggio ad una persona onesta che credeva nei suoi ideali». Quando si sparse la voce, gli andò incontro Giancarlo Pajetta, che aveva passato i migliori anni della sua vita nelle carceri fasciste: nessuno fiatò o protestò per la sua presenza, un rispettoso silenzio accompagnò quell’evento straordinario per la storia politica italiana. Per un attimo l’Italia parve riconciliarsi con se stessa.

Enrico Berlinguer aveva deciso di diventare comunista nel giugno ’43. Sul valore di quella scelta anni dopo avrebbe detto: “Io ho fatto una scelta di vita: stare dalla parte dei più deboli, degli sfruttati, dei diseredati, degli emarginati. E lo farò fino alla fine della mia vita.” Per loro si fece arrestare nel gennaio ’44 per aver guidato i moti del pane di Sassari, assieme ad altri 30 compagni: passò 100 giorni in galera, ma alla famiglia scrisse: “Non drammatizzate la mia situazione. C’è chi sta peggio di me.”

Conobbe Togliatti a Salerno e da lì fu un crescendo: entrò nella direzione del partito nel ’48, l’anno successivo divenne segretario della Fgci, nel ‘56 direttore della scuola di partito (le mitiche Frattocchie), dal ‘57 segretario regionale della Sardegna, finché nel ’60 assunse l’incarico di responsabile dell’organizzazione. Nel ’66 lo fecero anche segretario regionale del Lazio e nel ’68 lo costrinsero a candidarsi alla Camera dei deputati: raccolse 151.134 preferenze, contro le 80.080 di Longo a Milano, le 42.441 di Ingrao in Umbria, le 98.354 di Pajetta a Torino e le 131.469 di Amendola a Napoli. Fu la prova per tutto il partito che si trattava della persona giusta a succedere a Luigi Longo, colpito da un ictus, da cui si era ripreso a fatica: il 15 febbraio 1969 Berlinguer sarebbe stato eletto vicesegretario del partito, finché il 17 marzo 1972, al XIII congresso, arrivò l’elezione a segretario.

Non voleva fare il leader Berlinguer: assunse il suo incarico come una missione, un dovere da assolvere per quella scelta di vita, non facile, che aveva intrapreso. Avrebbe potuto fare l’avvocato di successo in Sardegna, la sua era una famiglia benestante: invece, tutto quello che ereditò dal padre andò al partito, perché pensava fosse giusto così.

Per il suo carattere chiuso e riservato qualcuno lo chiamò il sardo-muto, eppure quando apriva bocca non aveva rivali. La sua oratoria e il suo parlare chiaro e semplice riuscivano a scaldare le masse: curioso per uno che, stando al suo medico personale, era tagliato per il lavoro di bibliotecario. Aveva un sorriso splendido, che diceva più di mille parole, che raccontava meglio di tante biografie. Fumava le Turmac e, quando furono tolte dal mercato, si adattò a fatica alle Rothmans. Si scriveva sempre tutto da solo, a mano, e solo i discorsi destinati alla pubblicazione venivano poi battuti a macchina dalla sua segretaria, Anna Azzolini. Non esisteva allora il ghost writer e in ogni caso non ne avrebbe mai accettato uno. Il suo ufficio era sobrio come lui: scrivania, tre sedie, la foto di Gramsci alle spalle, null’altro. A volte lavorava a casa, sul tavolo rotondo del tinello, con le figlie che gli giocavano intorno. La sua macchina era un’A112, non certo di lusso: era quasi sempre da Mario Benedetti, il suo meccanico, in riparazione. La prima volta che andò a ritirarla decise di mettersi lui alla guida, ma l’auto non si mosse di un millimetro: si era dimenticato di mettere la prima.

Odiava il privilegio: agli aeroporti rifiutava sempre le salette riservate alle autorità, facendosi interminabili file per uscire dal terminal. Una volta a Catania Gava lo mandò a chiamare per fargli notare che da lì si poteva salire per primi sull’aereo: «Dica a Gava» – rispose Berlinguer – «che lo saluterei volentieri, ma dovrebbe venire qui lui perché io, se mi muovo, perdo il posto nella fila». Allergico allo sperpero di denaro pubblico, prediligeva sempre il mezzo di trasporto più economico: una volta costrinse gli uomini della scorta a farsi Torino-Milano in macchina in mezzo ad una bufera di neve per prendere da lì un aereo che li portasse a Roma, alla direzione del partito, la mattina successiva, perché l’aero-taxi che gli volevano far prendere costava troppo. Riuscirono a convincerlo a prenderne uno per la sua ultima campagna elettorale, facendogli vedere, conti alla mano, che tra spostamenti in macchina e alberghi il partito con quella soluzione avrebbe risparmiato un bel po’ di quattrini. Benché deputato, il suo stipendio era equiparato a quello medio di un operaio: quello che avanzava andava al partito.

Sempre a Torino sbottò contro i membri della Direzione che non ritenevano opportuna la sua partecipazione, sia pure dal marciapiede, ad una manifestazione di metalmeccanici, per non offendere la sensibilità di qualche sindacalista: «Sono un cittadino comunista con diritto di libera circolazione, e per di più sono il segretario del partito che conta nelle sue file una maggioranza di operai: nessuno può impormi di stare alla finestra quando gli operai sono in piazza. E dicano pure che sono operaista, tanto lo dicono lo stesso.»

In vita sua non salutò mai a pugno chiuso: considerava quel gesto «un segno d’ostilità». E pensare che il giorno dei funerali, di pugni alzati ce n’erano quante erano le bandiere rosse.

Non era affatto triste: come ha scritto sua figlia Bianca, era introverso, ma anche capace di essere molto estroso, soprattutto coi bambini. Epico il racconto della partitella a calcio di fronte al ministero degli Esteri con suo figlio Marco, gli uomini della scorta e altri ragazzi: quando si trovò a passare Aldo Moro, il presidente Dc fece fermare la macchina e guardò tra il divertito e lo stupito quel Berlinguer così fuori dall’etichetta da non sembrare nemmeno lui. Coi figli cercava di passare tutto il tempo che poteva: insegnò loro ad andare in bicicletta, a nuotare, ad andare in barca a vela. Li aiutava nei compiti, soprattutto storia e filosofia. Mi racconta Bianca che quando gli disse che voleva fare la giornalista, suo padre rimase un attimo in silenzio e poi rispose: «Allora impara l’arabo. Se vuoi raccontare il mondo di domani, dovrai partire da lì». Giusto per parlare della sua lungimiranza, a proposito di politica internazionale.

Il rapporto con i giornalisti non era affatto facile. Per loro si intende. Berlinguer non era solito infatti concedere battute per strada: non amava le semplificazioni, non faceva dichiarazioni estemporanee, che poi magari finiva per smentire qualche ora dopo, come si usa fare oggi. Si trincerava in un mutismo tale, al di fuori degli incontri ufficiali con la stampa, che una volta un esasperato corrispondente del New York Times gli chiese: «Ma ci può dire almeno quanti anni ha?». E lui, geniale: «Credo che rivolgendosi all’ufficio stampa del partito ella potrà avere una mia biografia comprensiva dei dati anagrafici che desidera conoscere». Un giornalista del calibro di Giampaolo Pansa, per dire, dovette aspettare mesi prima che gli venisse concessa quella famosa intervista in cui Berlinguer dichiarava di sentirsi “più sicuro sotto il cappello della NATO”. La stampa e la satira, di contro, si vendicavano dipingendolo grigio e triste, inventandosi la leggenda del “marchese rosso” (in realtà i Berlinguer avevano semplicemente ottenuto il “privilegio” di fregiarsi del titolo di “Don”, in quanto al loro arrivo dalla Catalogna avevano piantato un ulivo).

Eppure lo stile di Berlinguer, come verrà chiamato dopo, si diffuse enormemente dentro e fuori il partito, anzitutto perché manteneva nei rapporti personali così come nelle occasioni pubbliche, lo stesso comportamento che lo aveva contraddistinto prima della sua elezione. Non avrebbe mai detto: «lei non sa chi sono io.» Non lo disse neppure, e ne aveva tutte le ragioni, quando lo dipinsero come un molle borghese che stava in ciabatte alla finestra, mentre in strada gli operai manifestavano. La difesa arrivò da Paolo Spriano, lo storico ufficiale del Pci: «Ma avete un’idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente come Berlinguer?»

Non ce l’avevano, se la sarebbero fatta dopo, quando oramai era troppo tardi per chiedere scusa. Luigi Pintor scrisse che fece di un ideale un modo d’essere, Vittorio Foa che era in violento contrasto con l’immagine consueta dell’uomo politico. In effetti, se ancora oggi è così amato e rimpianto da chi c’era ed è preso ad esempio da noi giovani che non c’eravamo penso sia proprio per queste sue qualità: Berlinguer finì per avere il dono della profezia pur senza essere un profeta, quello della modestia pur essendo un leader carismatico, quello della saggezza e della misura in un mondo che era impazzito e fuori misura.

Nei primi anni Ottanta era riuscito a mettere a fuoco i grandi temi di una nuova politica di Sinistra, al di là della tradizione comunista, che abbracciava il pacifismo, l’ambientalismo e, soprattutto, quell’idealismo che i comunisti hanno sempre rifiutato per un materialismo storico che non poco ha contribuito alla loro disfatta: basti pensare alla proposta di investire sull’energia solare nel 1983, alla fede nel ruolo dell’Europa (da contrapporre “sia al decrepito comunismo reale sia al neoliberismo portatore di ricchezze per pochi e di ingiustizie per molti”), così come al progetto di un’economia mondiale con Olof Palme, alla valorizzazione della diplomazia dei popoli, ai movimenti per la pace, al ruolo dei giovani e delle donne in politica e nella società, da non usare come bandierine da sventolare in vista delle elezioni.

Ma è quella sua capacità di anticipazione che oggi lascia stupiti: soprattutto con la Questione Morale, aveva intuito la degenerazione che stavano vivendo i partiti, la loro trasformazione in macchine di potere e di corruzione. E aveva capito che la mancanza di fiducia dei cittadini nelle istituzioni è il centro del problema italiano, perché ha portato e porta “alla formazione di poteri occulti ed eversivi, la mafia, la camorra, la P2”, che fanno affondare la democrazia in una palude, nell’attesa del nuovo uomo della Provvidenza.

Berlinguer era l’austerità nello spirito e nel fisico, l’onestà delle mani pulite, il coraggio dello strappo da Mosca, la complessità del compromesso storico, la speranza di un mondo nuovo, la profondità dei pensieri lunghi e l’eredità di Antonio Gramsci. Berlinguer era un poeta (Benigni), ma non era la Madonna (Scalfari). Berlinguer era, infine, la Sinistra quando questa parola aveva ancora un senso.

Dunque, perché mai ci si dovrebbe stupire del fatto che Enrico Berlinguer nel 2014 ha raccolto attorno alla sua figura più di 400mila persone, di cui un terzo sotto i 30 anni, in un sito web gestito da ventenni,www.enricoberlinguer.it? Si dovrebbe essere stupiti di chi è stupito.

Quando l’Italia, quella sera, perse Berlinguer, il PCI sarebbe diventato il primo partito d’Italia, con il 33,3% dei voti. Berlinguer aveva vinto, ma era morto; gli altri, a partire da Craxi, avevano perso, ma erano vivi. Per la seconda volta nella breve vita della Repubblica la storia d’Italia fu cambiata dalla morte di un uomo: prima Moro, nel 1978, poi Berlinguer, nel 1984. Non sapremo mai come sarebbe andata, se il destino e le forze oscure di cui parlò Italo Calvino non avessero remato contro: sappiamo però come è andata senza di loro. E non è stato un bello spettacolo.

Eppure non tutto è perduto, per noi giovani nati dopo la caduta del Muro di Berlino e che abbiamo ereditato questo disastro. Perché Berlinguer, da morto, è molto più vivo di tutti quelli che hanno tentato di sotterrarlo invano negli ultimi 30 anni. E oggi, più di ieri, sta a noi riannodare i fili di quella sfida interrottasi così tragicamente su quel palco a Padova. Oggi, più di ieri, è vero che “se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia.” Ora tocca a noi. Nel nome di Enrico.