Archivi giornalieri: 15 dicembre 2017

INCA


Tutela della maternità


Premio alla nascita negato alle immigrate


Tribunale di Milano, condotta discriminatoria di Inps 

di Lisa Bartoli

Il premio alla nascita spetta indistintamente a tutte le future madri, a prescindere dalla loro nazionalità e titolo di soggiorno, così come prevede la legge che lo ha istituito. Senza esitazioni, la magistratura torna ad occuparsi della condotta discriminatoria di Inps a danno degli immigrati, regolarmente presenti nel nostro paese, ordinando anche all’Istituto previdenziale “una idonea pubblicizzazione al riguardo (…) da effettuare a attraverso la pubblicazione di una nota informativa sull’home page del sito internet dell’Inps”, ma anche modificando i moduli di presentazione delle richieste di accesso al beneficio.  

La sentenza n. 6019 è stata emessa dal Tribunale di Milano il 12 dicembre, dopo un ricorso avviato da A.S.G.l. (Associazioni Studi Giuridici sull’immigrazione) e Fondazione Guido Piccinni per i Diritti dell’Uomo Onlus che accusavano l’Inps di “aver limitato, per mezzo di tre circolari, l’accesso al beneficio economico denominato ‘premio alla nascita’ a solo alcune ‘categorie’ di donne straniere”, in pratica soltanto a coloro che possono dimostrare di essere in possesso del permesso per lungosoggiornanti. Una scelta del tutto arbitraria e discriminatoria, neppure contemplata dalla legge n. 232/2016 (art. 1 – comma 353), che stabilisce espressamente come il beneficio economico di 800 euro debba essere corrisposto dall’Inps in unica soluzione, su domanda della futura madre, al compimento del settimo mese di gravidanza o all’atto di adozione, senza nessun’ altra aggiunta.

La vicenda di per sé non è nuova: l’Inca ha avviato numerose azioni legali per riaffermare il diritto degli immigrati e immigrate alle prestazioni di welfare, che continuano ad essere negate a coloro che hanno permessi di soggiorno di altra natura, pur essendo persone regolarmente presenti in Italia, che lavorano e pagano le tasse come e forse più degli atri, considerando lo scarto tra ciò che versano all’Inps, circa 8 miliardi di euro ogni anno, e la scarsità delle risorse spese in prestazioni in loro favore (3 miliardi di euro), che lascia nelle casse dell’Istituto previdenziale circa 5 miliardi di euro. L’ultima sentenza, di due settimane fa (30 novembre), è del tribunale di Bergamo che, riconoscendo a 24 donne di diverse nazionalità il diritto al premio alla nascita, ha richiamato l’Inps al rispetto dello stesso principio di non discriminazione.

La novità di questo ultimo verdetto del Tribunale di Milano semmai consiste nel fatto che questa volta la sentenza si sofferma sulla pretesa di Inps “infondata” di far prevalere interpretazioni rese attraverso le sue circolari, anche quando sono palesemente in contrasto con le leggi vigenti. Afferma la sentenza “(…) in merito all’insussistenza di un potere dell’Inps di restringere o identificare i potenziali aventi diritto alla prestazione assistenziale in questione, è sufficiente osservare che : a) l’articolo 1, comma 353 della legge n. 232 del 2016 individua espressamente i presupposti fattuali per beneficiare della prestazione economica; b) non sussiste alcuna disposizione normativa che attribuisca all’Inps il potere di derogare ad una fonte normativa di rango primario; c) la circolare, anche quella cosiddetta regolamentare, indipendentemente dalla considerazione circa la sua natura normativa o meno, non può in alcun caso modificare una legge”.

“Insomma ce n’è abbastanza per pretendere dall’Inps di essere conseguente – commenta Claudio Piccinini, coordinatore dell’Area Migrazioni e mobilità internazionali di Inca -. L’Istituto deve abbandonare la condotta discriminatoria rimuovendo ogni ostacolo che impedisce ai cittadini stranieri di poter usufruire di tutte le prestazioni di welfare, e non solo del premio alla nascita. Nell’immediato, come recita la sentenza, l’Istituto ha il dovere di modificare le informazioni fornite agli utenti sul suo sito istituzionale e modificare i  moduli telematici per la presentazione delle domande di accesso al premio alla nascita, così come impone la sentenza di Milano. Dal canto nostro, continueremo la nostra battaglia in sede legale fino all’affermazione del diritto, nel rispetto del principio di uguaglianza e di universalità dei diritti”.   

 

INCA


Controversie previdenziali

Nessuna sanzione se non si indica il valore della prestazione  

di Rosa Maffei, consulente legale di Inca

La Corte Costituzionale giudica illegittima la sanzione di inammissibilità del ricorso privo di indicazione del valore della prestazione previdenziale richiesta (sentenza n. 241 del 20 novembre scorso). Dopo la bocciatura della norma che destinava alla decadenza triennale anche i giudizi pendenti in materia di  ricostituzioni pensionistiche, la Corte Costituzionale si pronuncia ora su un’altra disposizione varata con decreto legge dal governo Berlusconi nell’estate 2011 (art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del D.L. n. 98/2011). Una disposizione dai contenuti pesantemente punitivi del contenzioso previdenziale che sanziona come inammissibile il ricorso giudiziale ove nell’atto introduttivo non fosse indicato il valore della prestazione domandata. Anche  stavolta però la norma non ha retto al vaglio di costituzionalità ed è stata  dichiarata illegittima perché  giudicata irragionevole e sproporzionata rispetto al fine perseguito dal legislatore.

L’intento era quello di scoraggiare fenomeni di abuso del processo previdenziale e di contrastare prassi anomale consistenti nell’omettere di precisare il valore specifico della prestazione oggetto del contendere al fine di ottenere la liquidazione di spese incoerenti con tale valore. Si trattava in sostanza di porre fine ad un contenzioso seriale  dilagato negli anni e incentrato su somme di minima entità  rivendicate  a vario titolo sulla  indennità di disoccupazione  agricola in delimitate  province del Meridione, contenzioso che aveva dato luogo a succulente liquidazioni di spese del tutto spropositate rispetto alle differenze giudizialmente accordate.

Se questo era lo scenario in cui si collocava  la norma va anche osservato che  la finalità poteva già dirsi soddisfatta con un accorto utilizzo da parte dei magistrati  del criterio di   congruità tra l’importo richiesto in domanda e la liquidazione delle spese di lite, introdotto nel 2009 con la legge di riforma del giudizio civile. Eppure, nella strategia difensiva dell’Inps l’eccezione di inammissibilità del ricorso ove non fosse specificato il valore della prestazione, ora giudicata spropositata ed eccessiva dai giudici della Consulta, è stata utilizzata in modo improprio, indiscriminato e non selettivo.

Non è stata riservata, cioè, alle finalità moralizzatrici e di contenimento dei fenomeni di abuso del processo per i quali, seppur maldestramente, era stata introdotta, bensì come pretestuoso e ridondante strumento di contrasto rispetto a domande giudiziali ad alto contenuto giuridico e sociale. Nel caso esaminato dalla Corte di Appello di Torino, che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità, si trattava di decidere se un minore affidato al nonno poi deceduto avesse diritto o meno alla pensione di reversibilità. Altro che causa di valore irrisorio.

 

INCA


Disoccupazione agricola


Cassazione, garantire indennità a operai a tempo indeterminato

di Lisa Bartoli

La Corte Costituzionale viene sollecitata nuovamente a pronunciarsi sulla legittimità della disciplina del trattamento di disoccupazione involontaria dei lavoratori agricoli a tempo indeterminato, licenziati il 31 dicembre, ai quali è negata qualsiasi forma di tutela contro la perdita del lavoro. A chiamarla in causa questa volta è la Cassazione, con l’ordinanza emessa il 24 novembre n. 28110, che ha esaminato la posizione di due lavoratori agricoli a tempo indeterminato, licenziati il 31 dicembre 2008, ai quali è stata negata l’indennità di disoccupazione agricola per il 2009, sulla base del fatto che nell’anno in cui l’hanno richiesta non risultavano le 102 giornate di contribuzione, necessarie per il riconoscimento.

L’Alta Corte ha dichiarato “non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’articolo 1, comma 55, della legge 247/2007”, che ha riformato profondamente la tutela della disoccupazione agricola per i soli operai a tempo determinato, escludendo quelli a tempo indeterminato, ma anche della legge n. 264/1949, che definisce il meccanismo per il conseguimento delle misure di sostegno al reddito, in caso di perdita involontaria dell’occupazione. Per Inca e Flai, il sindacato di categoria dei lavoratori agricoli, che dal 2010 hanno promosso e patrocinato numerose azioni legali ivi  comprese  quelle di questo secondo procedimento, “quella della Cassazione è una decisione importante, che può portare a rimuovere definitivamente una grave discriminazione ai danni dei lavoratori agricoli a tempo indeterminato, ai quali viene negato il diritto agli ammortizzatori sociali”. “L’insieme delle norme – spiega Francesco Baldassari, del patronato della Cgil – che hanno regolato nel tempo la disciplina della disoccupazione agricola hanno prodotto il risultato aberrante di creare gravi disparità di trattamento non solo tra gli operai agricoli a tempo indeterminato e la generalità dei lavoratori dipendenti, ma anche tra gli stessi operai agricoli, distinti tra quelli a tempo indeterminato e a tempo determinato”.

Nell’ordinanza, la Cassazione precisa che “la specificità del sistema di protezione contro la disoccupazione agricola e la discrezionalità del legislatore in materia non può consentire, alla luce della Costituzione (artt. 3 e 38), che si arrivi alla mancanza di una qualsiasi tutela contro lo stato di disoccupazione involontaria, come accade per i lavoratori agricoli a tempo indeterminato licenziati verso la fine dell’anno”.

Il nuovo rinvio alla Corte Costituzionale nasce dal fatto che il primo verdetto (sentenza n. 194/2017) ha lasciato porte aperte ad interpretazioni opposte. Tant’è che l’Inps, con il messaggio n. 3180/17 del primo agosto, ha confermato il suo orientamento restrittivo specificando che un operaio agricolo assunto a tempo indeterminato e licenziato il 31 dicembre non può percepire né l’indennità di disoccupazione agricola perché “non residuano giornate indennizzabili” nell’anno  in cui ne fa richiesta (cosiddetto di competenza), né la NASpI, per esplicita esclusione normativa dettata dall’articolo 2, comma 3, legge 92/2012.

Non è così per Inca, che mette in evidenza la grande portata innovativa della sentenza della Consulta, che mostra a tutti la strada per una diversa interpretazione della disciplina della disoccupazione agricola affermando che “(…) il lavoratore agricolo a tempo indeterminato potrà infatti ottenere l’indennità di disoccupazione agricola per l’anno «per il quale [essa] è richiesta»” e introducendo per la prima volta il principio che anche in agricoltura si può ottenere l’ammortizzatore sociale per i periodi di disoccupazione involontaria successivi alla cessazione del rapporto lavoro. L’Inps sembra non conferire alcun peso a tale interpretazione della Corte Costituzionale che pure è chiara ed esplicita: “(…)potrà ottenere l’indennità…”.

Secondo  la Consulta, quindi, già nel suo primo pronunciamento, l’ostacolo della indennizzabilità della disoccupazione agricola è ampiamente superato. Secondo Inca e Flai, la “sentenza della Corte Costituzionale ha dunque il grande merito di aver scardinato, a livello interpretativo, la pedissequa interpretazione della norma da parte dell’INPS che, di fatto, escludeva ed esclude un gran numero di lavoratori e lavoratrici dall’accesso a qualsiasi forma di disoccupazione indennizzata.”

Oggi tale interpretazione è espressamente confermata dalla stessa Cassazione, che nell’articolata ordinanza di rinvio alla Consulta, precisa che: “(…) Non è esatto quindi che la Corte Costituzionale abbia negato l’indennità di disoccupazione agricola ai lavoratori agricoli a tempo indeterminato licenziati il 31 dicembre, come afferma l’INPS in questo giudizio (richiamando quanto sostenuto nel messaggio n.3180 del 1.8.2017). Al contrario, l’indennità di disoccupazione spetta perché la sentenza n. 194/2017 ha correttamente individuato il meccanismo di computo del requisito contributivo ed ha poi aggiunto che “in situazioni analoghe a quella del giudizio a quo – che sono all’origine del dubbio di legittimità costituzionale del rimettente – il lavoratore agricolo potrà infatti ottenere l’indennità di disoccupazione agricola per l’anno per il quale (essa) è richiesta” …(…)”.

Il caso esaminato nel primo verdetto della Consulta riguardava un dipendente agricolo assunto a tempo indeterminato e licenziato il 31 dicembre 2012, al quale sono state rifiutate sia la domanda di indennità ordinaria di disoccupazione, presentata a gennaio 2013 (perché agricolo), sia quella per disoccupazione agricola, inviata due mesi dopo, a marzo. Motivo del rigetto: la mancanza del requisito contributivo di 102 giornate lavorative nell’ultimo biennio, compreso l’anno in cui ha fatto la richiesta di ammortizzatore sociale, e del meccanismo assai complesso a base per il calcolo delle giornate indennizzabili, così come è previsto dalla legge 264/1949.

Per la Cassazione, quindi, la nuova questione non è più la ricerca del diritto alla disoccupazione, ormai ritenuto dalla Corte Costituzionale pacificamente sussistente, considerando l’anno di lavoro svolto e i contributi effettivamente versati, ma come garantire, in concreto, “l’individuazione e l’erogazione di un trattamento protettivo per chi ha lavorato, nel 2008, fino alla fine dell’anno e comunque oltre le 270 giornate”.

Il giudice di legittimità, quindi, aggiungendo ulteriori argomentazioni a quelle già esaminate dalla Consulta, sembra suggerire alla Corte Costituzionale la strada per completare il percorso intrapreso: dopo aver riconosciuto che spetta un trattamento per l’anno per il quale è richiesta la prestazione (l’anno di competenza è quindi  successivo alla prestazione lavorativa), individua le modalità con cui dovrebbe essere riconosciuto il quantum; vale a dire cioè che devono essere indennizzate tante giornate quante sono quelle lavorate, nella stessa misura riconosciuta agli operai a tempo determinato e nello stesso limite annuo (365). Così facendo dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 32 co.1 lett. a) della legge 264/49 e (come argomento aggiunto dalla stessa Cassazione) dell’art. 1 comma 55 della legge 247/2007 in relazione agli art. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui escludono la protezione dello stato di disoccupazione degli operai agricoli a tempo indeterminato licenziati il 31 dicembre dell’anno.

 

Santa Virginia

Nome: Santa Virginia Centurione Bracelli
Ricorrenza: 15 dicembre

Virginia Centurione nacque a Genova da Giorgio Centurione e Lelia Spinola il 2 aprile 1587. Il padre avrebbe poi ricoperto la carica di Doge Biennale. All’età di quindici anni Virginia venne data in sposa a Gaspare Braeelli dal quale ebbe due figlie Lelia e Isabella. La nostra rimasta vedova nel 1607 all’età di vent’anni, dopo aver deciso di non passare a seconde nozze si ritirò con le due figlie a casa della suocera, Maddalena Lomellini. La scelta di dedicarsi all’attività caritativa e poi ad una forma di vita religiosa non è in Virginia un dato spiegabile solo attraverso il suo cammino spirituale; si tratta della corrispondenza ad un elemento della cultura genovese del tempo. 

Dopo la presenza di Caterina Fieschi Adorno la scelta della vedovanza come stile di vita dedito alla pietà ed alla carità divenne a Genova una prassi comune nel richiamo alla figura della Fieschi. Vittoria de Fornari Strata che esercitò un profondo influsso sulla Centurione, avrebbe seguito lo stesso percorso fondando poi le monache «turchine»; l’agiografia locale, specie nella sua tradizione manoscritta, ci ha lasciato esempi di questo tipo fino al secolo XVIII. Ci troviamo pertanto di fronte alla rispondenza delle scelte individuali ad un modello divenuto riferimento sociale. All’insegna di una carità familiare ebbe inizio quindi l’attività della Centurione Bracelli che si diede al recupero e alla protezione delle ragazze orfane o in pericolo di essere avviate alla prostituzione. La questione si poneva in maniera urgente perché la situazione di crescente crisi economica assediava dall’interno le strutture della repubblica aristocratica. 

Con l’invasione piemontese del 1625 quello che era stato un flusso migratorio dalle campagne e dalle riviere verso la capitale divenne un’urgenza improrogabile, aggravata dal fatto che in una città portuale come Genova la situazione della prostituzione si caricava di una particolare urgenza. È in quest’epoca che prende forma su iniziativa della Centurione l’attività delle Cento Dame; si trattava di un’ istituzione che si basava sull’aiuto economico dato da dame del patriziato genovese alle donne povere e in difficoltà. Questa realtà si veniva a trovare in concorrenza con altre strutture sia pubbliche che private della Genova del tempo: l’Ufficio dei Poveri, il Magistrato di Misericordia e le Dame di Misericordia, otto nobildonne quest’ultime, che si dividevano l’assistenza di altrettante zone della città con particolare attenzione per le fanciulle in pericolo. Con la Centurione si assiste ad una privatizzazione e familiarizzazione della carità in un ambiente, quello genovese, nel quale lo stato aveva strutture proprie e i privati si inserivano in forme di assistenza o già collaudate o che si sarebbero istituzionalizzate successivamente. Nel 1630, nel momento in cui i disordini interni (una serie di congiure dal 1627 al 1629) e la crisi economica mettevano in pericolo la stessa sopravvivenza della repubblica, la Centurione si dedicò con attività al sostegno delle donne povere. La sua azione, che si pone sotto il segno di una forte identificazione femminile, superava le strutture medioevali sopravvissute fino a metà cinquecento, come ad esempio le Maddalenine, monasterireclusori finalizzati a rieducare le ex prostitute ed altre forma di marginalità femminile. 

È nel 1631 che veniva dalla nostra preso in affitto un convento in località Monte Calvario. La struttura che raccoglieva donne e ragazze raccolte dalla Centurione venne presto sdoppiata in una seconda casa, dello S. Santo, che avrebbe accolto le più «ricuperabili» nella val Bisagno, fuori dalla città. In queste strutture le ricoverate conducevano una vita semimonastica con obbedienza, povertà, un abito uniforme, senza però emettere voti. Chi voleva poteva andarsene a patto che avesse un recapito e una fonte di sostentamento. Con un editto del 13 dicembre 1635 il Senato della repubblica di Genova riconosceva le due strutture come una sola opera di pubblica utilità. Nel 1641 aveva luogo il trasferimento delle assistite, arrivate ormai al numero di trecento, nella casa di Carignano dove sarebbe continuata l’opera.

Nel 1632 l’Ufficio dei Poveri aveva affidato, come da lei richiesto, a Virginia la cura del Lazzaretto di Genova che, se all’epoca non aveva più una funzione direttamente collegata alla lebbra, rimaneva con i suoi seicento internati un elemento basilare delle strategie di controllo e di assistenza della repubblica. Da un lato i conservatori che recuperavano le donne e le ragazze, dall’altra il Lazzaretto costituiscono due momenti portanti dell’opera della Centurione con la coesistenza di selettività sessuale e internamento di massa. La Centurione avrebbe esercitato una forte influenza sulle costituzioni riformate del Lazzaretto riorganizzandolo dal punto di vista dell’ascesi e del lavoro, insistendo in particolare sulla separazione delle età e dei sessi dei ricoverati. È qui da rilevare come sia proprio con la morte della Centurione che il Magistrato di Sanità deciderà lo sgombero del Lazzaretto, primo passo verso la costruzione dell’Albergo dei Poveri. 

L’attività della Centurione per il suo interesse sociale venne posta sotto la protezione della repubblica, in particolare, quando nel 1641 Virginia venne colpita da una grave malattia i protettori dell’istituto presero definitivamente in mano le redini dell’attività dell’opera del Rifugio, come era stata chiamata dalla fondatrice. A fianco di Virginia si trovò così a collaborare Emanuele Brignole, membro dell’Ufficio dei Poveri che divenuto anche protettore dell’opera poté, nella sua duplice veste, coordinarla con le altre attività caritative cittadine. La situazione della Genova della prima metà del seicento era segnata da un reticolo di conflitti: quelli interni al patriziato tra nobili vecchi e nuovi, le ripetute congiure contro l’assetto stesso repubblicano dello stato, le pressioni militari sabaude. Tutto ciò poneva l’antica repubblica in una situazione di stallo conflittuale. Con l’elezione all’episcopato di Stefano Durazzo si ebbe un’epoca di duro scontro tra chiesa e senato, significativo in una città che non aveva mostrato una specifica insofferenza verso l’autorità ecclesiastica. 

Quando nel 1642 il senato tolse il contributo governativo al seminario, Virginia Centurione si prodigò in un’opera di pacificazione tra cattedra episcopale e autorità civile; la sua situazione di nobile, figlia di doge, la metteva in una posizione di privilegio per essere ascoltata. Una riconciliazione tra il Durazzo e il senato si ebbe tra il 1645 e il 1648, poi i conflitti ripresero. Nella sua opera di riforma il Dura7zo aveva trovato forti ostacoli non solo nello stato ma nel clero che mal sopportava le sue richieste di denaro; è in questo quadro che si iscrive l’azione della Centurione nel sostegno alla riforma della chiesa oltre che nell’assistenza alla povertà. Va qui segnalato l’impegno per favorire la diffusione della celebrazione delle Quarantore che Virginia sostenne attivamente. È da rilevare peraltro che fu il Durazzo ad erigere canonicamente la compagnia a questa devozione consacrata. Questa pratica di pietà, del resto, è attestata a Genova già nel 1496 ed ebbe fin dal cinquecento un forte sviluppo. 

Un dato interessante è che sarebbe stato proprio Emanuele Brignole, protettore dell’opera della Centurione, a sviluppare a partire dal 1655-1656 la costruzione dell’Albergo dei Poveri, gigantesca struttura AssistenziaLeReclusiva che nell’intento di radunare e recuperare tutti i diseredati della città si poneva su di una linea di compimento e alternativa rispetto alle realizzazioni settoriali della Centurione. L’ideologia centralizzatrice del Brignole, apparsa già nel suo protettorato dell’opera del Rifugio, si sviluppava nell’Albergo dei Poveri che realizzava in una sola struttura quella segregazione educativa, rivolta con particolare attenzione ai fanciulli e alle donne, tentata in strutture meno totalizzanti da Virginia Centurione Bracelli. 

L’azione della Centurione si può qui iscrivere in una fase di passaggio dalla carità privata come scelta scaturita da relazioni familiari (vedovanza, utilizzo della casa della suocera come rifugio per ragazze sbandate) all’assistenza come magnificenza patrizia.