Archivi giornalieri: 10 dicembre 2017

                                    

 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
CGIL
ARCHIVIO STORICO DELLA CAMPANIA
QUADERNI DELL’ARCHIVIO STORICO DI POMIGLIANO D’ARCO
(3)
FABBRICA E TERRITORIO
materiali d’archivio
sul Comprensorio sindacale di Pomigliano d’Arco
1980 – 1988
a cura di
Rocco Civitelli
Camera del Lavoro
Federazione Impiegati e Operai Metallurgici
Napoli
 
©ncs, Napoli primavera 2009
Archivio Storico Fiom Campania
Responsabile: Vincenzo Barbato
Progetto e cura editoriale: Antonella Cristiani, Luigi Varriale, Antonio De Martino
In quarta di copertina: Mario Macciocchi,
Per la pace
, 1981
Pubblicazione fuori commercio
 
 
 
III
I Comprensori sindacali
Verso la
fi
ne della primavera del 1980 si avviò anche in Campania, come già stava avvenendo in tutta
Italia, la realizzazione dei Comprensori sindacali, uno dei punti centrali della riforma organizzativa della
Federazione Cgil-Cisl-Uil varata nella Conferenza d’organizzazione di Montesilvano nel novembre del
1979.
Il Comprensorio era il punto d’approdo, per alcuni un cattivo compromesso, di un dibattito tormentato sui
contenuti e sulle forme in cui organizzare il rapporto tra sindacato e territorio, tra Consigli di fabbrica e
strutture sindacali esterne ai luoghi di lavoro.
Nel corso della stagione, che aveva visto affermarsi un ruolo nuovo del movimento sindacale quale
sollecitatore e garante dello sviluppo democratico del Paese, era emersa l’esigenza di rapportarsi alle
profonde trasformazioni territoriali che avevano caratterizzato la società italiana negli anni Cinquanta e
Sessanta. E così all’inizio degli anni Settanta, in alcuni territori in cui era forte la presenza dei Consigli di
fabbrica, erano nati i Consigli di zona, una proiezione esterna del ruolo conquistato dal sindacato nei luoghi
di lavoro per affrontare aspetti decisivi della condizione di vita dei lavoratori (casa, scuola, sanità, trasporti,
e nel Mezzogiorno, lavoro), come anche un contributo alla costruzione di un livello istituzionale intermedio
tra Regione e Comune, in cui de
fi
nire e attuare la programmazione dello sviluppo economico e sociale,
delle infrastrutture e dei servizi (pp. 4-8). Nel sindacalismo confederale era diffusa la consapevolezza che
alla crescita del movimento sindacale, che poneva problemi di più ampia partecipazione e di maggiore
democrazia, non si poteva rispondere più con un mero decentramento organizzativo delle Camere del
Lavoro provinciali, ancora espressione dell’organizzazione territoriale prefettizia dello Stato nella seconda
metà dell’Ottocento. L’esigenza di nuove articolazioni istituzionali, politiche e sociali era fortemente sentita
in Campania dove, al di fuori di qualsiasi logica di programmazione, si era formata una conurbazione di
circa quattro milioni di abitanti che di fatto andava da Capua a Battipaglia, con nuovi aggregati urbani e
industriali, con nuove e antiche contraddizioni.
Il dibattito sulle caratteristiche delle nuove strutture sindacali territoriali fu, come consuetudine, lungo
e tormentato. Alcuni volevano che fossero espressione diretta dei Consigli di fabbrica e vedevano nei
Comprensori un accentramento burocratico rispetto all’autonomia dei Consigli. Altri rilevavano che i
Comprensori non avevano controparti omogenee sul territorio. Era un dibattito sul rapporto tra sindacato-
movimento e sindacato-istituzione; sulla qualità del rapporto tra sindacato e lavoratori e tra sindacato e
istituzioni. Ma spesso venivano offuscati i tratti che avevano caratterizzato l’affermazione del sindacato
unitario e di classe tra la
fi
ne degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta: capacità di elaborare proposte di
qualità, scelta delle organizzazioni sindacali di aprirsi ai fermenti e ai movimenti che attraversavano la
società e protagonismo dei lavoratori nelle strutture sindacali. Era un dibattito nazionale che comunque
andava rapportato alla speci
fi
cità della realtà del Mezzogiorno dove la questione di fondo era la debolezza
del tessuto democratico. La riforma organizzativa nel sud d’Italia non poteva che essere un progetto di
democrazia sindacale per rafforzare, con la costruzione di un nuovo soggetto autonomo, la democrazia
meridionale, attuando quella che Vittorio Foa aveva de
fi
nito la “missione democratica del sindacato nel
Mezzogiorno”.
Su questa base si formò e iniziò a lavorare il gruppo dirigente della Camera del Lavoro di Pomigliano.
Molte sue scelte apparirebbero incomprensibili senza tener conto di questo punto di ancoraggio dell’azione
sindacale, cioè la pratica di un’autonomia fondata sui contenuti e sul protagonismo dei lavoratori che a
Pomigliano, realtà caratterizzata dalla grande fabbrica, era credibile perché di questo tipo di autonomia
erano sostanzialmente portatori innanzitutto, o solo, i sindacati dell’industria. L’autonomia era il risultato,
non scontato, di una battaglia contro il corporativismo, la quale
faceva coincidere gli interessi dei lavoratori
con quelli dell’azienda, così come a livello nazionale faceva coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli
del Paese.
La riforma organizzativa di Montesilvano prevedeva, oltre ai Comprensori, anche la generalizzazione dei
Consigli di fabbrica e i Consigli di zona, ma erano scelte destinate a restare sulla carta. Il clima politico-
sindacale dell’inizio degli anni Ottanta, infatti, era diverso da quello dell’inizio degli anni Settanta. Il
reganismo (lo Stato non è la soluzione, ma il problema) avanzava implacabile. Nella prima conferenza
d’or
ganizzazione del Comprensorio, che si svolse nella palestra della scuola media Mauro Leone, uno
dei punti in discussione furono le possibili forme di sostegno ai lavoratori impegnati davanti ai cancelli di
Mira
fi
ori (in concreto pensavamo a pullman di delegati da mandare a Mira
fi
ori per rafforzare la tenuta dei
 
IV
picchetti torinesi, ormai in dif
fi
coltà). Verso la
fi
ne dei lavori della mattinata Giovanni Sarubbi dell’Aeritalia
portò la notizia della marcia dei quarantamila a Torino. Il dibattito colse subito la portata dell’avvenimento.
La scon
fi
tta alla Fiat fu l’inizio di una fase nuova del sindacalismo italiano. Subito dopo la conclusione
della vertenza alla Fiat iniziò la trattativa sulla ristrutturazione dell’Alfa Romeo. I Consigli di fabbrica, che
dovevano essere la struttura propulsiva della nuova organizzazione territoriale, erano ormai ripiegati sulla
difesa della fabbrica e del posto di lavoro.
Anche il clima politico era cambiato e la nomina di Craxi a Presidente del Consiglio dei ministri ebbe sulla
sinistra politica e sindacale effetti peggiori delle più pessimistiche previsioni.
Inoltre, nella prima metà degli anni Ottanta il rapporto tra sindacato, istituzioni e sistemi d’impresa iniziò
a essere caratterizzato, nel Mezzogiorno e non solo, dai “protocolli”, i quali, non sostenuti da puntuali
e credibili contenuti dell’azione sindacale, furono uno scambio tra il riconoscimento del ruolo politico-
istituzionale del sindacato e la sua accettazione della collocazione subalterna e marginale del lavoro e
del Mezzogiorno nel sistema politico economico nazionale, dominato appunto dal reganismo. Uno degli
esempi più emblematici della stagione dei protocolli nel Mezzogiorno fu lo sciopero generale di Napoli
sulla “vivibilità”, espressione certo fantasiosa e suggestiva, ancora oggi in circolazione, ma che signi
fi
cava
contemporaneamente tutto e niente. Intervenendo al Comitato regionale della Cgil Campania non ebbi
esitazioni a de
fi
nirlo uno sciopero senza contenuti e senza controparti, come i risultati ampiamente
dimostrarono.
2.
Dal Comprensorio nolano-vesuviano interno al Comprensorio di Pomigliano d’Arco
Il territorio del nuovo Comprensorio comprendeva il tratto di pianura a est di Napoli, dalla periferia
del capoluogo
fi
no alle pendici del Partenio. L’inserimento del baianese, che apparteneva alla provincia
di Avellino, esprimeva un’opzione di organizzazione del territorio che privilegiava le caratteristiche
economiche e sociali rispetto agli assetti amministrativi e istituzionali.
Era un insieme di territori autonomi – il vesuviano, il nolano, l’acerrano, le grandi fabbriche di Pomigliano, il
baianese – caratterizzati da una storica spiccata identità. Nella documenti della Federazione Cgil- Cisl-Uil il
nuovo Comprensorio era chiamato “
nolano-vesuviano interno
”,
una de
fi
nizione burocratica e anonima, ma
soprattutto subalterna allo scontro politico culturale che si era aperto con la decisione di costruire l’Alfasud
a Pomigliano. La questione del nome fu posta all’ordine del giorno in una delle prime riunioni del Comitato
direttivo della Camera del Lavoro e fu deciso di cambiarlo: da Comprensorio nolano-vesuviano interno a
Comprensorio di Pomigliano d’Arco. Era una scelta d’identità e di unità territoriale basata su un’opzione
politico-ideale. C’era ovviamente la consapevolezza che il territorio esprimeva anche antiche e prestigiose
tradizioni culturali e politiche e rinnovate vocazioni produttive in agricoltura e nel commercio, ma si
voleva sottolineare e rivendicare il ruolo che l’area di Pomigliano – l’industria e i lavoratori dell’industria
di quest’area – avevano nello sviluppo non solo economico e sociale, ma democratico di Napoli e della
Campania.
Su Pomigliano era da tempo in atto una offensiva politica e culturale. Ignorando strumentalmente una realtà
economica e sociale ricca di impianti industriali (Alfa Romeo, Aeritalia e Monte
fi
bre) e con un’agricoltura
tra le più ricche del mondo, una storia politica, culturale e sociale di grande spessore, la stampa aziendale
parlava di un “habitat e di una cultura diversi da quelli che normalmente ospitano e producono la fabbrica
moderna”. Gli inviati speciali della stampa nazionale erano implacabili, ma ciò che colpisce, ieri come
oggi, è che in maniera incredibile anche autori napoletani di fama e prestigio accreditavano una simile
immagine. In una pubblicazione che ebbe in quegli anni un certo successo (Dario Salemi,
Sindacato e forza
lavoro all’Alfasud
, Einaudi, 1980) vengono riportate pagine di Domenico Rea nelle quali si parla di “un
hinterland tra i più derelitti, promiscui e turbolenti d’Italia”, di “ragazzi tra i più poveri del globo”, di “una
tranche de vie
anarcoide e violenta”! (p. 11)
Questa offensiva era ispirata dalle forze che avevano voluto la costruzione e il raddoppio di Mira
fi
ori, forze
che non erano solo nella Fiat e nella Con
fi
ndustria, ma che avevano forti radici e ampi consensi anche a
sinistra, nei partiti e nel movimento sindacale.
Negli stessi anni in cui si decideva la costruzione dell’Alfasud, i comuni dell’interland napoletano erano
tappezzati da manifesti con l’annuncio di offerte di lavoro della Fiat che stava procedendo all’assunzione di
quindicimila lavoratori a Mira
fi
ori. Queste forze erano state scon
fi
tte quando, per far fronte alla necessità di
 
V
aumentare la capacità produttiva dell’Alfa Romeo, non si era deciso il raddoppio di Arese, ma la costruzione
di una fabbrica al sud. Era apparso infatti coerente con le scelte di programmazione nazionale del governo
di centrosinistra costruire il nuovo stabilimento delle Partecipazioni Statali a Pomigliano, dove l’azienda si
era già insediata negli anni Trenta con risultati positivi.
Di questi temi ho parlato più volte con Sergio Garavini, che mi raccontava dei dibattiti e delle votazioni nel
Consiglio comunale di Torino. In una pubblicazione ho trovato il suo intervento nel Consiglio comunale di
Torino contro le quindicimila assunzioni della
fi
ne degli anni Sessanta e l’analisi degli errori e dei guasti
della politica “torinocentrica” della Fiat. Non ho invece trovato ancora riscontro di un altro episodio di
cui pure mi parlò: il suo voto solitario contro il raddoppio di Mira
fi
ori. Cioè contro la costruzione della
gigantesca fabbrica di circa sessantamila addetti, emblematica sia delle politiche industriali portate avanti
durante il miracolo economico sia per l’innesco dei fenomeni migratori di massa dal Mezzogiorno verso il
nord.
Le questioni dell’“habitat inospitale” non investirono le altre grandi fabbriche pubbliche e private dell’area,
dalla Monte
fi
bre all’Aeritalia, e anche per l’Alfasud svanirono come neve al sole quando la proprietà dello
stabilimento passò alla Fiat. Puntualmente ricompaiono in occasione dl ristrutturazioni che investono il
gruppo Fiat. Con questo non si vogliono negare le dif
fi
coltà che ci sono state nel funzionamento dello
stabilimento dell’Alfasud quando divenne “laboratorio politico”, né vanno occultate le incapacità aziendali,
volute o subite, nel far funzionare la fabbrica.
La Fiat, comunque, a partire dall’inizio degli anni Settanta, proprio come conseguenza della scon
fi
tta subita
con l’insediamento Alfa a Pomigliano, supera la teoria (torinocentrica) delle diseconomie esterne e vara un
imponente piano di insediamenti nel Mezzogiorno: da Cassino a Termini Imerese, da Lecce a Sulmona
vengono costruiti stabilimenti per complessivi 19.000 posti di lavoro diretti e altrettanti indiretti. La storia
del rapporto Fiat-Mezzogiorno dovrebbe essere uno dei cardini di una storia dell’industria meridionale che
incredibilmente nessuno ancora ha scritto e di cui, ancora più incredibilmente, nessuno sembra sentire il
bisogno. Per tornare al Comprensorio nolano-vesuviano interno, fatte le grandi opzioni politico-ideali, si
Manifestazione a Napoli. In primo piano Peppe Errico, dietro lo striscione Monica Tavernini, Angelo Simula e altri.
 
 
VII
4.
Formazione del gruppo dirigente
Alla
fi
ne di giugno del 1980, nella sede della Cgil di via Roma a Pomigliano d’Arco, la segreteria regionale
della Cgil Campania convocò una riunione dei rappresentanti dei Consigli di fabbrica, delle strutture di
base e delle categorie per designare un gruppo di lavoro cui af
fi
dare il compito di preparare la conferenza
d’organizzazione costitutiva della Camera del Lavoro territoriale nolana-vesuviana interna.
La Cgil regionale, la Camera del Lavoro di Napoli e le categorie fornirono alla nuova struttura autonomia
e risorse. Fu acquistata una nuova sede, caratterizzata da spazi collettivi e da un ampio salone in cui fu
collocato un bel quadro di Mario Maciocchi, scomparso non si sa se per furto o per incuria. Quasi tutte le
categorie avevano almeno una persona a tempo pieno e la Camera del Lavoro, oltre all’apparato tecnico, ne
aveva quattro. Il giorno che iniziai a lavorare a Pomigliano passai prima dalla Camera del Lavoro di Napoli
dove incontrai Antonio Lombardi che mi disse: “Ricordati che sei stato chiamato a dirigere la Stalingrado
del Sud”. A questa frase, che allo stesso tempo mi caricava di responsabilità e di orgoglio, ho quasi sempre
ispirato il mio lavoro. Quando dopo sei anni lasciai il Comprensorio, un compagno ricordò la presentazione
che di me aveva fatto il segretario della Camera del Lavoro di Napoli, Michele Tamburrino, in una riunione
di compagni dei Consigli di fabbrica: “È un professore, è un esperimento che vogliamo tentare, proviamo”.
Nella tradizione operaista della componente comunista del sindacato napoletano essere un professore era
una credenziale pessima.
A dirigere l’uf
fi
cio organizzazione fu chiamato Antonio Parrilli, tecnico dell’Ipsia di Ottaviano, che aveva
diretto l’uf
fi
cio organizzazione nella Cgil Scuola napoletana per molti anni. Con il suo impegno dopo pochi
mesi il Regionale Cgil e la Camera del Lavoro di Napoli resero autonomi il Comprensorio anche dal punto
di vista organizzativo e
fi
nanziario. Sul piano politico, la Camera del Lavoro fu autonoma dalla Conferenza
d’organizzazione; solo sulle questioni del terrorismo si decise che il riferimento restava il segretario
della Camera del Lavoro di Napoli. A Parrilli, che aveva diretto la rappresentanza della Cgil Scuola nella
commissione per il conferimento degli incarichi e delle supplenze del Provveditorato agli Studi, fu anche
af
fi
dato il delicato e dif
fi
cile compito di tenere i rapporti con il collocamento. Per assolvere i suoi impegni
si mise in aspettativa non retribuita. Quando dopo un anno fu chiaro che non poteva avere un distacco
sindacale si decise per il suo rientro a scuola, perché i periodi di aspettativa non venivano computati né ai
fi
ni pensionistici, né ai
fi
ni della progressione di carriera. Con il passare del tempo il suo rapporto con il
sindacato è
fi
nito. Ha poi continuato il suo impegno nella Comunità di Sant’Egidio. Ho sempre ritenuto
l’incapacità di utilizzare lui, come tanti altri compagni della Cgil Scuola degli anni Settanta, un limite
emblematico delle politiche organizzative della Cgil napoletana. Fu sostituito da Ciccio Ferrara, impiegato
della Spiezia, che aveva un’esperienza di lavoro organizzativo nel Pci di zona e una forte conoscenza del
territorio. Anche per l’apparato furono scelte persone di provata esperienza e fu colta al volo la richiesta di
Anna Cardone, una compagna dell’apparato nazionale dei chimici, che voleva rientrare a Napoli.
Ma la scelta decisiva per la direzione della Camera del Lavoro fu la presenza nella segreteria di Armando
Dell’Atti e di Luigi Petricciuolo, lavoratori dell’Alfasud con personalità molto complesse e dif
fi
cili, dotati
di forte senso politico, grande capacità nei rapporti di massa, molto radicati e legittimati nella fabbrica.
La loro presenza consentiva di intervenire in presa diretta sulla grande fabbrica. Ero convinto che senza la
possibilità di un rapporto diretto con l’Alfasud la Camera del Lavoro di Pomigliano non esisteva.
Fu costruito un forte gruppo dirigente non solo della Camera del Lavoro, ma anche delle categorie. Giuseppe
Errico dall’esecutivo del Consiglio di fabbrica dell’Alfasud fu chiamato a dirigere i chimici, Raffaele Lieto,
impegnato nella Federbraccianti, garantiva il collegamento con il baianese. Fu richiamato Luigi Servo
quando Giovanni De Maria lasciò la Fillea. Ciò che colpisce dei gruppi dirigenti di quegli anni era la
qualità della loro rappresentatività sociale. Oggi la personalità dei segretari che diressero il comprensorio
della Fiom negli anni Ottanta – Antonio Grieco, lavoratore dell’Alfa Romeo e Antonio Tubelli, lavoratore
dell’Aeritalia – può essere compresa
fi
no in fondo guardando alle qualità degli articoli, dei saggi e delle
pubblicazioni su segmenti di storia della cultura napoletana dell’uno o scorrendo le pagine del sito web
sulla brillante attività di cuoco manager dell’altro.
Il rapporto tra la struttura camerale e le categorie fu ricostruito sul piano politico e organizzativo: le risposte
alla crisi economica non potevano avere risposte categoriali, ma complessive e quindi sui temi confederali,
statuto della Cgil alla mano, il rapporto diretto tra la direzione camerale e le strutture di base andava
costruito senza mediazione delle strutture di categoria. Non si trattava di una misura organizzativa, ma
politica. Infatti la Camera del Lavoro non si doveva né si poteva sostituire alle categorie, come da alcuni
 
VIII
veniva paventato. Lo scontro sarebbe stato non su questioni categoriali, anche importanti, come i contratti
di categoria, ma su questioni generali, come la scala mobile. Su questi temi bisognava portare l’iniziativa
sindacale e costruire una partecipazione e un protagonismo forte dei lavoratori.
Anche sulla formazione dei gruppi dirigenti delle categorie fu affermato con decisione il ruolo della Camera
del Lavoro. Ci furono momenti di scontro e di tensione (pp. 47-49) ma nel complesso questa tensione tutta
politica rafforzò l’insieme della struttura sindacale di Pomigliano. I percorsi che successivamente hanno
fatto coloro che parteciparono all’esperienza del Comprensorio testimoniano la validità di quell’esperienza.
Ciccio Ferrara, chiamato a dirigere la Camera del Lavoro nel 1986, dopo alcune tappe nella Fiom regionale
e nazionale è ritornato all’impegno politico ricoprendo rilevanti incarichi organizzativi e parlamentari
in Rifondazione Comunista; Peppe Errico è stato chiamato a dirigere la Camera del Lavoro di Napoli;
Dell’Atti il regionale dei chimici; Petricciuolo la Fiom di Napoli.
Dall’esperienza di partito venne Giovanni Nughes. In generale, nella formazione del gruppo dirigente furono
privilegiati lavoratori in distacco sindacale e non l’assunzione di funzionari lavoratori dipendenti. Negli anni
Settanta e Ottanta questa era la scelta prevalente in tutta la Cgil ed era la conseguenza del protagonismo
dei lavoratori nelle strutture sindacali. Poi fu abbandonata con effetti di cristallizzazione e indebolimento
dei gruppi dirigenti. La segreteria della Camera del Lavoro acquisì da Roma i tabulati dell’Inca e chiese
all’uf
fi
cio legale regionale i dati sulle cause degli ultimi anni. Erano di una insuf
fi
cienza totale. Furono
radicalmente rinnovati l’uf
fi
cio legale (Giovanni Sarubbi prima e Pietro Cervino poi) e l’Inca (Biagio
Fico). Fu chiamato a lavorare a Pomigliano Lello Fortunato, giovane e brillante avvocato prematuramente
morto in una gara automobilistica. Con l’apporto di Peppe Nasti, furono avviate signi
fi
cative esperienze
per la tutela della salute anche nelle piccole fabbriche. A Giovanni Nunziata fu chiesto di collocarsi in
pensione ed egli, con grande generosità, accettò. Per un dipendente dell’Inca che interpretava con molta
disinvoltura l’orario di lavoro fu proposto il licenziamento, ma poi si decise il suo trasferimento all’Inca di
Napoli. Anche la Cisl fece scelte nette, inviando a Pomigliano Giovanni Guardabascio dirigente sindacale
di provata capacità ed esperienza che fu af
fi
ancato da Giovanni Novati dell’Alfa Romeo. Mentre la Uil
mantenne l’anziano, ma sempre combattivo, responsabile di zona Antonio De Falco. Il rapporto unitario fu
Antonio Tubelli a Timpani e Temperatura.
 
IX
fermo e costante. Il retroterra politico-
partitico dell’area era forte. Il Partito
socialista aveva a Pomigliano una sua
roccaforte. Il Partito comunista italiano
fece la scelta di rafforzare la direzione
di zona inviando due funzionari:
Gennaro Limone e Salvatore Cerbone.
La costruzione di un forte gruppo
dirigente comprensoriale fu possibile
perché c’erano solidi gruppi dirigenti
nei luoghi di lavoro. Essi si sentirono
e furono protagonisti del progetto
politico su cui nacque e si affermò il
Comprensorio. La partecipazione dei
lavoratori alla vita sindacale era alta.
I Consigli di fabbrica a Pomigliano
erano organismi politici di massa. La
qualità politica del dibattito era elevata
e non era patrimonio di poche persone,
ma estesa e collettiva. A volte, anche
quando la mia presenza non era
richiesta, partecipavo al Consiglio
di fabbrica dell’Alfasud per seguire
direttamente il funzionamento della
struttura.
Un circuito democratico virtuoso
legava territorio e fabbrica: alla
partecipazione nelle strutture sindacali
di base corrispondeva spesso una
partecipazione nella vita dei partiti
e nelle istituzioni. Molti i canditati,
ma anche gli eletti, al Parlamento
nazionale, nei Consigli regionali,
provinciali e comunali. Nei documenti
del Quaderno sono inserite testimonianze fotogra
fi
che di questo circuito democratico riferito ad alcuni
delegati scomparsi: Palmiro Panico di Acerra e Pierino A
fi
ero di Afragola.
Certo si intravedevano crepe e dif
fi
coltà, soprattutto tra i delegati più anziani (i senatori dell’Aeritalia) e i
 
X
giovani, ma complessivamente i Consigli erano delle roccaforti politiche. La vita democratica delle grandi
fabbriche era arricchita dalla presenza delle sezioni di partito.
Questa qualità politica non era un risultato spontaneo o casuale. Scaturiva da un impegno e da una cura
costante che i gruppi dirigenti politici e sindacali, regionali e provinciali, ma anche nazionali dedicavano
alle grandi fabbriche.
Anche per i delegati la rappresentatività sociale era a volte sorprendente. Chi oggi percorre via Sapienza ed
entra nella bottega di Carmine Castaldi dif
fi
cilmente riuscirà a scorgere nell’artigiano che nell’intaglio fa
rivivere modelli lignei del barocco napoletano un delegato sindacale dell’Alfasud in pensione. Alle pareti
del piccolo locale sono appesi un’incisione su tavola del volto di Mastriani, foto e ricordi di Gemito, del
nonno e del padre di Carmine. A volte, tornando dalla Biblioteca Nazionale, mi siedo su una delle poltrone
che stanno di fronte alla bottega per riposarmi e scambiare qualche parola. Il
fi
lo conduttore della nostra
conversazione è sempre lo stesso: perché un abile artigiano ha rinunciato al suo lavoro, alla sua identità,
per entrare nella grande fabbrica e lavorare alla catena di montaggio? “È stata la fuga dall’incertezza e
dalla precarietà”, ripete Carmine. Incertezza e precarietà, basate su un intreccio perverso tra mancanza di
autostima delle proprie capacità lavorative e mancanza di scelte politiche e imprenditoriali di tutela del
lavoro quali
fi
cato, sono tra gli aspetti più incomprensibili del problema lavoro a Napoli.
Per costruire sulle questioni politiche, come su quelle organizzative, orientamenti condivisi da tutto il gruppo
dirigente bisognava spesso seguire percorsi tortuosi. La cultura organizzativa dei Consigli, fortemente
egualitaria, a volte entrava in contraddizione con la cultura organizzativa della Cgil, democratica ma anche
chiaramente articolata in responsabilità e ruoli. Tenere insieme sensibilità politiche diverse non era facile:
Enrico Berlinguer tra i lavoratori dell’Alfasud: in primo piano Totonno Siniscalchi e Pierino A
fi
ero.
 
XI
tra Petricciuolo e Ferrara la distanza politica
era enorme. I rapporti tra coloro che venivano
dalle grandi fabbriche erano spesso tendenti
a una preventiva contrapposizione personale
(tra Dell’Atti e Petricciuolo era permanente
e radicale). Questo aspetto mi colpì subito
e in un incontro casuale ebbi occasione di
parlarne a lungo con Giuseppe Vignola, che
con il suo linguaggio ironico e colorito mi
raccontò delle lunghe e tormentate riunioni
con i compagni dell’Italsider di Bagnoli
quando, da dirigente del Pci, partecipava
agli incontri per individuare i candidati alle
elezioni.
Ho fronteggiato queste dif
fi
coltà ri
fi
utando
con fermezza, per tutti i sei anni che sono
rimasto a Pomigliano, qualsiasi discussione,
anche al bar, che fosse o apparisse personale
o di schieramento. Se la discussione e i
rapporti erano sul merito e sulla sostanza
il contributo che i singoli compagni erano
capaci di dare era veramente eccellente e la
sintesi impegnava realmente tutta la struttura
che si presentava unita e compatta (quasi
sempre).
Palmiro Panico al XXII Congresso di Sezione.
Manifestazione a Roma: in primo piano Dora Costa.
 

                                   

È morto don Antonio Riboldi

 
 
 
 
 

È morto don Antonio Riboldi, prete dei terremotati e vescovo anticlan

È morto don Antonio Riboldi, prete dei terremotati e vescovo anticlan
Monsignor Antonio Riboldi 
 

Disse: “Meglio ammazzato che scappato dalla camorra”. È stato uno dei primi vescovi a sbarcare su Internet nel 1997. Le sue omelie ascoltate da migliaia di persone

 

10 dicembre 2017

 

Era diventato vescovo emerito di Acerra (Napoli), monsignor Antonio Riboldi. Ma per tutti era don Antonio. È morto, a 94 anni, il prete che si fece voce dei terremotati del Belice, in Sicilia, che vivevano al freddo nelle baracche e che fu pastore in terra di camorra, in anni in cui i morti si contavano a centinaia.

LEGGI La resa dei camorristi 

Si è spento all’alba, a 94 anni, a Stresa, in Piemonte, nella casa dei rosminiani dove si trovava dalla scorsa estate. A darne l’annuncio la Curia di Acerra dove è stato vescovo dal ’78 al 2000.

“Profondo, indelebile è il legame che unisce la Chiesa acerrana al suo ‘don Antonio’, tanto da associare ancora oggi la città al nome del suo vescovo emerito. Legame rimasto tale anche dopo la rinuncia del presule all’esercizio episcopale per limiti di età nel dicembre del 1999, tanto da scegliere di rimanere a vivere in città continuando a celebrare Messa nella Chiesa dell’Annunziata, e da dichiarare più volte pubblicamente la volontà di essere seppellito in Cattedrale”, si legge nella nota della Curia.

“I nostri contatti erano costanti e fino a quando le forze glielo hanno consentito ha celebrato spesso la Messa domenicale in Cattedrale seguendo sempre con vivo interesse la vita della diocesi e chiamandomi personalmente nei momenti importanti di questa Chiesa locale”, spiega il vescovo di Acerra, Antonio Di Donna.

Nominato vescovo di Acerra il 25 gennaio 1978 dal Beato Papa Paolo VI, monsignor Antonio Riboldi fa il suo ingresso in diocesi il 9 aprile dello stesso anno. Sede vacante da 12 anni, ad Acerra c’è da rianimare la vita ecclesiale e da sostenere l’intera comunità tra le problematiche di un momento che richiede la difesa della dignità della persona. Attento fin dal primo momento alla vita e ai problemi di ogni giorno delle persone, l’azione più impegnativa per complessità e per durata è il contrasto alla camorra.

Storica la marcia che negli ’80 porta migliaia di giovani ad Ottaviano, città del capo indiscusso Raffaele Cutolo. “Meglio ammazzato che scappato dalla camorra”, disse don Riboldi ricordando la risposta della mamma al suo timore quando viveva sotto scorta. “In quel momento – ricordò in occasione dei suoi 90 anni celebrati nel 2013 nel Duomo di Acerra – mi sono sentito veramente di essere un vescovo, e ho capito cosa significava essere un prelato che deve amare la gente anche se non ricambiato, amare la Chiesa anche se non tutti ti capiscono”.

Anche la vita diocesana riprende vigore grazie al carisma e all’impegno di monsignor Riboldi: fiore all’occhiello sono gli annuali convegni diocesani, momenti forti di vita ecclesiale e grazie ai quali arrivano ad Acerra illustri relatori tra cui il cardinale Carlo Maria Martini. Lo stesso Riboldi ricordava spesso con sano orgoglio lo stupore che gli aveva confessato l’arcivescovo di Milano di fronte a tanta vitalità, nonostante le piccole dimensioni della diocesi.

Curioso e aperto alla modernità, Riboldi è stato uno dei primi vescovi a utilizzare Internet nel 1997: fino a poco tempo fa le sue omelie arrivavano a migliaia di persone.