Archivi giornalieri: 15 dicembre 2011

Università della terza Età di Quartu sant’Elena: 8° Lezione di Letteratura e poesia sarda. Francesco Ignazio Mannu, il cantore della rivoluzione antifeudale.

3. FRANCESCO IGNAZIO MANNU

 Il magistrato e il poeta cantore delle rivolte antifeudali in Sardegna alla fine del ‘700 (1758-1839)

Nasce a Ozieri (Sassari) il 18 Maggio del 1758 da Michele e Margherita. Frequenta l’Università di Sassari ed il 6 Febbraio del 1783 consegue la laurea in leggi e subito dopo si trasferisce a  Cagliari per esercitarvi la professione di procuratore legale.

Intellettuale proveniente dalla piccola nobiltà rurale, membro attivo dello stamento militare, è seguace di Giovanni Maria Angioy ed ha  un ruolo importante nel triennio rivoluzionario e antifeudale (1793-96).

 

 

 

 

E’ ricordato nella storia e dunque deve la sua fama all’Inno Su patriottu sardu a sos feudatarios, un volumetto di 12 pagine. L’edizione critica del testo fu curata da Raffa Garzia ed edito nel volume Il canto di una rivoluzione, Appunti di storia e storia letteraria sarda (Tipografia dell’Unione sarda, Cagliari 1809) .

L’Inno fu tradotto in inglese da John Ware Tendale (The Island of Sardinia, London, 1849) e in francese da Gaston Buillier (L’Ile de Sardaigne, Paris 1865), in prosa italiana da Enrico Costa  e  dal già ricordato Garzia. In versi italiani fu tradotto dal poeta Sebastiano Satta. Più recentemente sono state curate due edizioni critiche da parte degli storici Luciano Carta (con  Su patriota sardu a sos feudatarios, Editore CUEC-Centro di studi filologici sardi, Cagliari 2002) e Luciano Marroccu (con “Procurad’ ‘e  moderare” AMD edizioni, Cagliari 1996).

“La tradizione -scrive Luciano Carta- vuole che l’inno sia stato stam­pato clandestinamente in Corsica nel pieno del­la lotta antifeudale. R. Garzia, codificando una consolidata tradizione ottocentesca, volle ri­battezzare l’inno come la «Marsigliese sarda», attribuendogli significati e valenze di carattere democratico e giacobino storicamente impro­babili e sotto il profilo dell’analisi testuale del tutto improponibili. In realtà l’inno del M., co­me i più recenti studi hanno messo in luce, è il più noto manifesto politico della fase modera­ta del movimento antifeudale, avviata con le aperture del governo viceregio e dei feudatari del Capo meridionale nell’estate del 1795, al fine di sanare gli abusi di cui si era reso storicamente responsabile il sistema feudale. L’inno veicola una visione moderatamente riformatrice della società e del Regno di Sardegna di fine Sette­cento, sebbene i toni di alcune strofe denotino una convinta e robusta denuncia dei mali in­dotti dal sistema feudale nella società sarda. Ri­percorre, inoltre, con toni duramente polemi­ci, le principali vicende del «triennio rivoluzio­nario», denunciando il tradimento della «sarda rivoluzione» da parte di coloro che, per inte­resse personale e di parte, ne avevano abban­donato l’originaria ispirazione autonomistica e vanificato quel progetto di riforma politica e sociale, da realizzare all’interno dell’istituto mo­narchico, del tutto alieno da propositi di ca­rattere democratico e giacobino.

Questo sostanziale moderatismo po­trebbe spiegare il motivo per cui, dopo il fallimento del moto antifeudale, il M., in­dicato tra i più accesi fautori dell’Angioy e in quanto tale proposto per il confino, non fu né perseguitato né epurato. Anche dopo l’arrivo in Sardegna nel 1799 del sovrano sabaudo, cacciato da Torino dalle armate napoleoniche, il M. poté continuare indi­sturbato il suo servizio nei ruoli dell’alta magistratura. Giudice effettivo della sala civile della Reale Udienza nel 1807, nel set­tembre 1818 fu nominato giudice del Ma­gistrato del consolato, tribunale incaricato di dirimere le controversie sul commercio.

Parsimonioso e filantropo, alla sua mor­te, avvenuta a Cagliari il 19 ag. 1839, il M. lasciò un cospicuo patrimonio di 40.000 scudi all’ospedale cittadino”.

[Francesco Ignazio Mannu, Luciano Carta, in Dizionario bibliografico degli Italiani, Ed. Istituto dell’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 2007, pag.132].

 

Presentazione del testo

L’Inno è un lungo e complesso carme in sardo logudorese, di 47 ottave in ottonari,- modellato sui gosos, inni di origi­ne spagnola che nella tradizione religiosa locale venivano cantati in onore dei santi- per un totale di 376 versi in cui ripercorre le vicende di un momento cruciale della storia della Sardegna contemporanea: il periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-96) -che la ricerca storica più recente indica come l’alba della Sardegna contemporanea- anni drammatici, di profondissimi sconvolgimenti e di grandi speranze in cui il popolo sardo –oppresso da un intollerabile regime feudale- riuscì a esprimere in modo corale le sue rivendicazioni di autonomia politica e di riforma sociale.

L’inno è legato dunque ai momenti più fervidi della rivolta dei vassalli contro i feudatari, quando alla fine del secolo XVIII i Sardi, acquistata coscienza del loro valore contro i Francesi del generale Troguet, vollero spezzare il giogo dei baroni e dei Piemontesi e reclamarono per sé libertà  e giustizia. Esso è dunque imbevuto del diritto naturale della “bona filosofia” illuminista e delle letture degli enciclopedisti francesi: Diderot, Montesquieu, Rousseau.

Si tratta dunque di un terribile giambo contro i feudatari, anzi, più che un giambo il suo doveva essere un canto di marcia, una vibrata e ardente requisitoria contro le prepotenze feudali, animata dall’inizio alla fine da un’ira violenta. L’andamento della strofa è concitato e commosso, il contrasto fra l’ozio beato dei feudatari e la vita misera dei vassalli è rappresentata con crudezza: l’inno però, più oratorio che canto, raramente viene trasfigurato in una superiore visione poetica. Comunque dopo tanta arcadia è una voce schietta, maschia e vigorosa e come tale sarà destinato ad avere una enorme risonanza, tanto da diventare il simbolo stesso della sollevazione contro i baroni e da essere declamata dai vassalli in rivolta a guisa di “Marsigliese sarda”.

L’inno –che sotto il profilo linguistico, si articola su due livelli, uno alto e uno popolare- non è sardo solo nella lingua, ma anche nel repertorio concettuale e simbolico che utilizza. Infatti, anche se, come abbiamo visto, rappresenta un esplicito veicolo di cultura democratica d’oltralpe, esso è un primo esempio di discorso altrui divenuto autenticamente discorso sardo.

 

Giudizi critici

Scrive Raimondo Carta Raspi: “vigoroso e incisivo, dalle strofe tambureggianti, quasi a scuotere la sonnolenza dei Sardi, tutto il canto è un’incalzante e sferzante satira contro i feudatari e i Piemontesi e un incitamento perché la rivolta in atto divampi come un immenso incendio: <cando si tenet su bentu/est prezisu bentulare> (quando il vento è propizio/è il momento di ventilare [il grano]”.

Mentre Girolamo Sotgiu sostiene:”L’inno di Francesco Ignazio Mannu, stupendo canto di emancipazione, è ancora più esplicito nel denunciare la rapina del regime feudale e anche più incisivo nell’esortare alla lotta contro di esso”.

 

 

 

ANALIZZARE

Nelle prime tre ottave abbiamo s’isterrida (distesa) ovvero l’introduzione e la proposizione dell’argomento con un concitato monito e una minaccia scandita duramente, in ottonari sentenziosi e sostenuti: cercate di moderare, o baroni, la vostra tirannia o sarà per voi la fine: Il popolo non ne può delle sofferenze e delle angherie dovute alla vostra prepotenza e la guerra è ormai dichiarata. Ascoltate la mia voce, ammonisce  l’autore, o tutto andrà a fuoco: l’età buia della legge “inimiga” (nemica) –chiarissima l’allusione all’ordinamento feudale- deve finire. Lo pretende e lo insegna, la “buona filosofia”, ovvero l’Illuminismo. 

L’Inno è composto di versi ottonari: non molto usati nella poesia popolare sarda. Il primo e l’ultimo verso non rimano, gli altri sono legati da rime interne a-bb-cc-dd-e. C’è una curiosità ritmica: l’ultimo verso – ha solo due rime in –ia- ed in –are-  che si alternano senza limite fisso, nelle diverse strofe.

La lingua utilizzata è il sardo nella variante logudorese: esso per la sua armoniosità intrinseca ma anche per una certa vigoria dovuta al frequente succedersi di consonanti sonore, è particolarmente adatto ad esprimere sentimenti vivi e concitati.

Si può rimproverare la tessitura troppo vasta e non adatta a un inno di guerra e ancor di più il tono eccessivamente oratorio ma non gli si può negare di essere una voce ironica e sarcastica, schietta e commossa, dopo tanta arcadia e bamboleggiamenti idilliaci.

 

 

 

 

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-Inni patriottici  

La tradizione letteraria e musicale della Sardegna non offre molti canti patriottici. Dello stesso Inno sardo Cunservet deus su re,(Conservi Dio il re) che ricalca almeno nel titolo l’inno nazionale inglese, composto da Vittorio Angius nel 1844 e musicato dal maestro Giovanni Gonella, in voga tra i soldati dei reggimenti sardi fino alla Prima Guerra, oggi si conserva appena il ricordo.

A un solo componimento i Sardi, almeno a partire dalla fine del XVIII secolo, hanno riconosciuto dignità di canto patriottico, attraverso il quale esprimere il sentimento di ribellione contro le ingiustizie e per una società più equa: è Su patriota (o patriottu) sardu a sos feudatarios di Mannu.

Sono stati numerosi gli artisti –sardi e non- che lo hanno musicato, inciso e cantato: da ricordare fra gli altri i Cori di Orgosolo e  di Nuoro; i cantanti Peppino Marotto, Anna Maria Puggioni e Maria Carta, Anna Loddo e Franco Madau; i Gruppi dei Cordas e Cannas, dei Tazenda ma anche il gruppo siciliano Kunsertu e il canzoniere del Lazio. Nel 2000 i tenores di Neoneli incidevano un CD “Barones” cui partecipano noti personaggi del panorama musicale italiano che interpreteranno 17 delle 47 strofe dell’Inno: da Francesco Baccini a Angelo Branduardi, da Francesco Guccini a Luciano Ligabue e Elio delle Storie Tese.

Una manovra che spacca il tessuto sociale

 

La manovra Monti nella sua versione definitiva, con le modestissime modifiche apportate, alla fine sarà approvata, ma aprirà comunque un profondo solco nel tessuto sociale, ed anche politico, del paese.

La sua iniquità è palese e milioni di italiani, passata la luna di miele con il premier che ha sostituito il pessimo Berlusconi, ripresisi dallo stordimento provocato dal primo impatto con le misure anticrisi, si stanno mobilitando in tutta Italia per far capire a chi ci governa e a chi lo sostiene in Parlamento che così proprio non va, che lavoratrici e lavoratori, pensionati, il popolo delle persone perbene e che paga le tasse senza fiatare, non accettano di dover pagare da soli i costi della crisi.

E pagare salato, stavolta, molto salato. Sappiamo tutti che il nostro è un paese che ha vissuto oltre i limiti della decenza, economica e finanziaria, amministrativa, che ha utilizzato per decenni il debito pubblico per colmare le distanze sociali, specie rispetto alle difficoltà del Mezzogiorno. Un grande, immenso ammortizzatore sociale per tanti, quindi. Ma anche un pozzo senza fondo per arricchire affaristi e speculatori, in combutta con una classe politica spesso corruttibile e corrotta.

Perché i nostri amici e colleghi analisti economici e finanziari che dalle colonne dei principali quotidiani predicano il rigore e criticano le proteste, stavolta convintamene unitarie, dei sindacati, non ci raccontano le ragioni per le quali l’Italia è il più grande paese europeo a rischio?

Chi si rifiuterebbe di fare la sua parte, di ridurre il proprio tenore di vita, di accettare sacrifici anche duri, se fosse possibile modificare la manovra imponendo a chi si è arricchito, spesso sulle spalle della cosa pubblica, di pagare di più di un pensionato a mille euro al mese (lorde)? E’ demagogia questa? Andate a dirlo ai pensionati poco sopra il doppio del minimo che fanno la fila alle poste a fine mese!

Ci raccontano che in queste ore la politica, specie quella che ha ereditato i valori della sinistra, è in difficoltà. Ci stupiremmo del contrario. Si assumano le loro responsabilità. Come hanno fatto i sindacati, la Cgil in testa, che si sono mobilitati unitariamente. Noi siamo con loro, per un’Italia più equa.

Paolo Serventi Longhi – Direttore Rassegna Sindacale

Invalidità: i rebus dell’accertamento tecnico preventivo (speciale Esperienze)

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Le nuove regole introdotte con la manovra finanziaria di luglio, in materia di contenzioso previdenziale

Dal gennaio 2012, il cittadino che chiede il riconoscimento di invalidità civile, per cecità, sordità, handicap, disabilità, inabilità (disciplinati dalla legge n. 222, del 12/6/ 1984)  dovrà presentare al giudice competente l’istanza di accertamento tecnico sulle sue condizioni di salute, in base alle quali intende vedersi riconosciuto il diritto.

La norma in vigore stabilisce che la definizione dell’accertamento tecnico preventivo costituisce “condizione di procedibilità” della domanda. Concluse le operazioni di consulenza, il giudice, con apposito decreto, fisserà un termine perentorio, non superiore ai 30 giorni, entro il quale le parti dovranno dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni cui è pervenuto il consulente tecnico d’ufficio (Ctu).

Se non vengono sollevate contestazioni, il giudice conferma l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze che scaturiscono dalla relazione del Ctu.

Tale conferma si concretizza in un decreto, non impugnabile né modificabile che viene notificato alle parti in causa. L’ente coinvolto, previa verifica degli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, provvede entro 120 giorni al pagamento delle relative prestazioni. In caso di mancato accordo, la parte che ha sollevato contestazione alle conclusioni del Ctu ha tempo 30 giorni dalla formulazione del dissenso per depositare il ricorso.

Umbria Olii, non era colpa delle vittime…..

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Dunque, la colpa non era degli operai morti. Non sono stati loro, con la loro imperizia a far saltare in aria quel silos. E non è stato nemmeno Klaudio Demiri, l’unico sopravvissuto, ad innescare la terribile esplosione con una manovra sbagliata della gru che stava pilotando. Il colpevole è l’imprenditore, Giorgio Del Papa, titolare della Umbria Olii di Campello sul Clitunno, che evidentemente non ha fatto quanto avrebbe dovuto per evitare la tragedia che si è poi consumata.

Saranno le motivazioni della sentenza a chiarire i dettagli, ma intanto il giudice del tribunale di Spoleto, ha deciso di condannare l’imprenditore umbro a 7 anni e 6 mesi di reclusione per l’omicidio colposo dei 4 lavoratori di una ditta esterna che il 25 novembre del 2006 persero la vita nella sua azienda in una terribile esplosione.

Oltre al carcere ci sono poi i risarcimenti (in molti casi in via provvisionale) che ammontano complessivamente ad oltre 2,5 milioni di euro. Soldi che andranno sia ai parenti delle vittime che allo Stato (ministero dell’Ambiente e Inail) e alle istituzioni locali (Regione Umbria, Comune di Campello sul Clitunno).

Dopo cinque lunghi anni si chiude così almeno un primo capitolo di una delle vicende più grottesche e controverse della storia recente degli incidenti sul lavoro in Italia. Si ricorderà infatti la clamorosa richiesta di risarcimento che proprio Del Papa aveva avanzato ai familiari delle vittime, colpevoli, a suo dire, di aver danneggiato la sua azienda nell’ultimo atto della loro vita.

Presente in aula anche la Cgil, con il segretario regionale, Mario Bravi, e quello provinciale di Perugia, Vincenzo Sgalla. “Finalmente con la sentenza di oggi si chiarisce dove stanno le responsabilità alla base della tragedia di Campello sul Clitunno e si mette fine ai tentativi, reiterati fino all’ultimo da parte dell’imprenditore Giorgio del Papa, di spostare su altri le responsabilità, incolpando persino le vittime del disastro”, hanno dichiarato i due sindacalisti.

“Crediamo che questa sentenza – hanno aggiunto – parli anche agli imprenditori della nostra regione ed alla Confindustria, alla quale da tempo abbiamo chiesto, invano, di prendere le distanze da un imprenditore, oggi dichiarato colpevole, che ha avuto la sfrontatezza di chiedere 35 milioni di euro di risarcimento ai familiari delle vittime. Le esitazioni – hanno concluso Bravi e Sgalla – vanno a questo punto messe da parte, così come va superato un modo approssimativo di fare impresa e di gestire le aziende, che appartiene al passato e non può conciliarsi con l’esigenza di moderne relazioni industriali che la stessa Confindustria invoca a gran voce. Il rispetto rigoroso delle regole, come ha ricordato più volte il Presidente della Repubblica, è l’unico modo serio di fare impresa che noi possiamo accettare”.

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