Il 21 gennaio 1921 – novanta anni fa – nasceva a Livorno il Pci. Nasceva da una rottura con la tradizione riformista e per impulso dell’Internazionale, sulla scia lunga dell’Ottobre, nonostante l’avanzare del fascismo e dopo la grave sconfitta subita dalla classe operaia italiana nel biennio precedente. Persisteva in molti la certezza di un’ondata rivoluzionaria destinata presto a sommergere l’Europa. La previsione si rivelò errata.
Dopo pochi anni di direzione bordighiana iniziò ad affermarsi nel partito un nuovo orientamento, a opera di Gramsci. Domani, 22 gennaio, ricorrono i 120 anni dalla nascita di Antonio Gramsci. Non bisogna sovrapporre completamente il lascito del dirigente sardo a quello del partito che contribuì a fondare nel ’21 e a ri-fondare nel ’24-26 e poi ancora nei Quaderni. Vi sono in Gramsci però alcuni motivi fondamentali per comprendere quello che è stato il Pci, la sua specificità. Gramsci aveva inteso (sulla scorta dello stesso Lenin) che non si poteva più “fare come in Russia”, che quel tipo di rivoluzione era stata l’ultima delle rivoluzioni ottocentesche. L’affermarsi della società di massa e il diffondersi degli apparati del consenso mutavano il concetto stesso di rivoluzione. Si trattava non di edificare barricate, ma di costruire contro-egemonia, di divenire dirigenti prima che dominanti, di “tradurre” nella propria lingua nazionale la tensione internazionalista.
E’ facile vedere oggi come alcuni aspetti di quella “giraffa” togliattiana fossero discutibili: dal permanere di una forma-partito gerarchica alla convivenza col mito sovietico, dall’accettazione del Concordato alla sottovalutazione della persistenza di settori del vecchio Stato. Si è molto parlato di “doppia lealtà”. A mio avviso, i comunisti italiani sono sempre stati leali soprattutto alla Costituzione repubblicana. Ma è indubbio che il legame con l’Urss permase ancora a lungo, fino al ’68 di Praga, alla presa di posizione dovuta al coraggio di Luigi Longo e poi ai ripetuti “strappi” di Berlinguer.
Non posso qui soffermarmi sui tanti limiti che indubbiamente vi furono, nel leggere ad esempio le modificazioni strutturali della società italiana degli anni ’60; oppure nel non saper proporre un modello di sviluppo nuovo, qualitativo e non solo quantitativo. D’altra parte l’Italia rimase a lungo, un paese caratterizzato dalla copresenza di arretratezza e sviluppo, come si vide anche nel “biennio rosso” 1968-1969. Il Pci fu certo colto di sorpresa dal grande sommovimento sociale di quegli anni. La scelta di interloquire coi movimenti permise però al partito di conservare e aumentare i consensi. Anche negli anni ’70, qualsiasi cosa si pensi della politica dei comunisti italiani (e dalla politica del compromesso storico continuo a essere non persuaso), il consenso nella società fu grande.
Non è questa la sede per ricordare di nuovo i motivi, vicini e lontani, della fine del Pci, nell’89-91, su cui già ci si è soffermati spesso negli ultimi anni. Va detto però che la scomparsa del Pci ha lasciato un vuoto grande. Anche la recente vicenda della Fiat ha dimostrato cosa significhi il fatto che non sia più in campo un forte e influente partito della classe operaia. E il vuoto non concerne solo l’aggettivo, “comunista”, a cui non rinunciamo, perchè significa opposizione radicale a questa società e speranza in una società fondata su valori del tutto diversi. Ma anche il sostantivo: “partito”.
C’è oggi molto da imparare dal Pci: la capacità di parlare alla gran parte della società; lo sforzo di trovare modi e linguaggi per arrivare ai ceti popolari; la concezione della centralità del Parlamento, di contro alla tesi della “governabilità”, che ha sfondato anche a sinistra. Ma c’è anche da imparare per quanto concerne il modo di essere del partito. Nell’epoca in cui sembra non vi siano più leader di partito, ma partiti al servizio dei vari leader, risalta l’esempio di un partito che ebbe alla sua testa grandi personalità, ma che non volle mai dimenticare cosa significhi avere un gruppo dirigente nè rinunciare alla tensione a essere “intellettuale collettivo”. Che seppe tenere aperte sezioni e non solo comitati elettorali, selezionare quadri e amministratori senza ridurre la politica alle cariche elettive; concepire la partecipazione come faticosa costruzione collettiva di un programma e di una identità e non, come oggi accade, scelta di una leadership attraverso primarie che rafforzano i processi di delega e passivizzazione, limitando la mobilitazione a un breve momento di scelta-identificazione con il “capo”. Non si tratta di essere nostalgici, ma di imparare dal nostro passato. E imparare dalla nostra storia è necessario, oggi più che mai, per non fare passi indietro sul terreno stesso della democrazia.
su Liberazione (21/01/2011)