Archivi giornalieri: 14 gennaio 2023

Coronavirus, l’elenco completo degli atti Osservatorio normativo

Coronavirus, l’elenco completo degli atti Osservatorio normativo

La fine dello stato di emergenza non ha comportato un’interruzione nella produzione di “atti Covid”. Sono molti gli attori coinvolti nella gestione della più grande crisi sanitaria del nostro paese. Ecco le decisioni che sono state prese.

 

Il 31 marzo del 2022, dopo oltre 2 anni, si è concluso lo stato di emergenza. Una condizione amministrativa resasi necessaria per assicurare il rapido ed efficace funzionamento dell’organizzazione (protezione civile, commissario straordinario, strutture sanitarie) predisposta per fronteggiare la pandemia.

Lo stato di emergenza è uno strumento giuridico che consente di attivare poteri straordinari in deroga alle leggi Vai a “Che cos’è lo stato di emergenza”

Dal 2020 a oggi molto è cambiato dal punto di vista della gestione dei contagi e di chi prende le decisioni. Sono cessate infatti le attività del commissario straordinario Figliuolo, ma anche di tutte quelle task force e comitati tecnico scientifici attivati nel corso del tempo sia a livello nazionale che regionale.

26 mesi la durata dello stato di emergenza per la gestione della pandemia da coronavirus.

La fine dell’emergenza da un punto di vista giuridico però purtroppo non sta coincidendo con la fine del Covid. Come ci ricordano gli atti pubblicati alla fine del 2022 la gestione dei contagi, seppur passata in secondo piano agli occhi di media e opinione pubblica, necessità ancora di grande attenzione. Infatti, alcuni poteri straordinari continueranno ad essere in vigore ancora per un po’ di tempo e la produzione di “atti Covid”, seppur ridotta, non si è fermata.

Atti Covid, i numeri

Dal 2020 a oggi gli atti pubblicati per contrastare l’avanzata del coronavirus nel nostro paese sono stati 1.022. Per una media di circa 29 al mese. Logicamente, le fasi iniziali sono state quelle più intense da questo punto di vista poiché era necessario strutturare l’organizzazione. A febbraio 2020 furono pubblicati 67 atti Covid, a marzo 103, ad aprile 65. Nel 2022 invece gli atti pubblicati sono stati 176 in totale. Sono già 99 infine gli atti pubblicati dopo il 31 marzo 2022.

Gli atti Covid emanati durante l’esecutivo Draghi sono stati 490 in totale, di cui 31 pubblicati dopo l’annuncio delle dimissioni da parte del presidente del consiglio, rimasto in carica solo per il disbrigo degli affari correnti. Tale cifra va quasi ad eguagliare le norme prodotte durante il governo Conte II. Complessivamente infatti i provvedimenti adottati dal precedente esecutivo sono stati 507.

176 gli atti Covid adottati nel 2022.

La crisi di governo seguita alle dimissioni di Giuseppe Conte aveva comportato un primo rallentamento nella produzione normativa, questa però non si è mai fermata del tutto. Con l’ingresso in carica del governo Draghi e l’esplosione delle nuove varianti la pubblicazione di “atti Covid” è poi ripresa con nuovo vigore. La produzione di misure volte a gestire i contagi è proseguita anche a seguito dell’insediamento del governo Meloni. Sono già 25 infatti gli atti pubblicati successivamente al 23 ottobre 2022.

Sono numerosi i soggetti chiamati a prendere decisioni finalizzate a fronteggiare l’avanzata del virus. Il più prolifico in assoluto è il ministero della salute con 411 provvedimenti emanati. Seguono la protezione civile (142), il governo nel suo complesso (68) e il ministero dell’interno (57). In 79 casi poi l’atto ha avuto come firmatari due o più ministri.

Per quanto riguarda la tipologia di atti adottati invece quello più ricorrente è l’ordinanza (367). D’altronde due dei soggetti maggiormente coinvolti nella gestione dell’emergenza (il ministero della salute e la protezione civile) hanno fatto frequente ricorso a questo strumento. Tra le altre tipologie più utilizzate le circolari (285), decreti ministeriali e interministeriali (123), decreti legge (63) e decreti del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm, 45).

Perché è importante proseguire nel monitoraggio

Come detto, anche a livello amministrativo, la fine dello stato di emergenza non ha comportato uno stop degli atti Covid emanati dai diversi soggetti. La produzione di ordinanze, decreti eccetera è proseguita già dal giorno successivo, quando sono state diramate una serie di ordinanze e circolari volte a delineare la fase di transizione tra la fine dello stato di emergenza e il ritorno alla normalità.

Fine dello stato di emergenza non vuol dire fine dei contagi.

Con il cambio di governo da Draghi a Meloni, l’atteggiamento delle istituzioni nei confronti del virus sembrerebbe essere cambiato. Solo per fare alcuni esempi, il decreto legge 162/2022 ha disposto il reintegro del personale sanitario non vaccinato. Una circolare del ministero della salute pubblicata il 31 dicembre ha invece “ammorbidito” le modalità di gestione dei contagiati e di chi ha avuto contatti stretti. In ogni caso infatti non si prevede un periodo di isolamento superiore ai 5 giorni.

Al contrario invece, un’altra circolare pubblicata 3 giorni prima aveva reso più stringenti – in accordo anche con quanto deciso a livello comunitario – le procedure e i controlli per quei viaggiatori che arrivano nel nostro paese dalla Cina. Ciò a causa dell’impennata di casi che si sta registrando nel paese.

È proprio in virtù di questa continua produzione normativa che è necessario continuare a monitorare al meglio l’evolversi degli eventi.

A seguire l’elenco di tutti gli atti presi da metà gennaio del 2020 ad oggi. L’elenco rappresenta un modo per consentire il monitoraggio di cittadini e società civile.

 

Il discorso di fine anno del presidente della repubblica Mappe del potere

Il discorso di fine anno del presidente della repubblica Mappe del potere

I discorsi di fine anno del capo dello stato sono una consuetudine che accompagna questa istituzione fin dai suoi esordi.

 

L’unico tipo di interventi previsti dalla costituzione in capo al presidente della repubblica sono i cosiddetti messaggi alle camere (art. 87 cost.). Nonostante questo in 75 anni di prassi costituzionale si sono consolidate varie occasioni in cui il capo dello stato si rivolge a diversi interlocutori.

Il caso più noto è il messaggio di fine anno, in cui il presidente si rivolge a tutti i concittadini. Una consuetudine che ha avuto inizio il 31 dicembre 1949 e che si è riproposta ogni anno fino ad oggi.

Analizzare come negli anni sono cambiati questi discorsi ci racconta dei diversi passaggi attraversati dalla politica italiana e dell’evoluzione del linguaggio politico istituzionale.

Lo scorso anno Mattarella aveva colto l’occasione per congedarsi dal ruolo di presidente che gli è stato invece confermato dal parlamento. Il discorso precedente invece era stato inevitabilmente caratterizzato dall’emergenza sanitaria.

Quest’anno il messaggio ha avuto come sfondo le novità istituzionali e la guerra in Ucraina. Muovendo da qui, le parole di Mattarella si sono orientate verso i valori repubblicani, la libertà e il futuro che appartiene prima di tutto ai giovani.

Messaggio di fine anno del Presidente Mattarella sottotitolato

La lunghezza dei discorsi

Ogni presidente ha i suoi tratti caratteristici, sia in termini sia politici che comunicativi. Un tratto personale che emerge nei discorsi di fine anno e che si interseca con le diverse fasi politiche attraversate dal paese.

Gli stessi discorsi di Mattarella hanno avuto una lunghezza significativamente diversa. Nei primi 2 anni del suo mandato i messaggi di fine anno si aggiravano intorno alle 2mila parole. Nel 2017 invece il capo dello stato optò per un discorso breve, circa la metà rispetto ai precedenti. Una scelta questa che va probabilmente contestualizzata nel particolare momento in cui si è tenuto il discorso, ovvero a pochi giorni dallo scioglimento delle camere e dunque in piena campagna elettorale.

Negli anni successivi invece la lunghezza dei discorsi presidenziali si è stabilizzata su una media di 1.740 parole, anche si il discorso di quest’anno è stato leggermente più lungo del solito.

1.838 le parole che compongono il discorso di fine anno di Mattarella del 2022.

Allargando lo sguardo, si può osservare come Mattarella si sia tenuto sostanzialmente in linea con la lunghezza media dei discorsi che i presidenti hanno pronunciato a partire dal 2000 (1.916 parole in media). Rimanendo però ben più breve rispetto ai discorsi del suo predecessore.

Infatti, anche se nessuno dei discorsi di Napolitano è stato eccezionalmente lungo, in media si tratta di quelli con la durata maggiore (2.218,2 parole). Questo perché tra gli anni ’80 e ’90, quando si sono registrati i discorsi più lunghi, la differenza tra l’uno e l’altro poteva variare moltissimo.

Il discorso di fine anno più lungo infatti è stato pronunciato da Scalfaro nel 1997, con 4.912 parole. L’anno precedente tuttavia, sempre Scalfaro si era limitato a 2.041 parole, meno della metà. Ma la differenza più consistente tra i messaggi di fine anno dello stesso presidente riguarda quelli pronunciati da Cossiga nel 1990, ben 3.542 parole, e nel 1991, appena 418 parole.

Nei primi anni i discorsi erano molto brevi.

Se si guarda ad anni ancora precedenti si può notare come agli inizi della storia repubblicana i discorsi fossero estremamente brevi, limitandosi sostanzialmente a degli auguri e qualche rapida considerazione. Non a caso il discorso più breve è stato pronunciato dal primo presidente della repubblica, Luigi Einaudi (nel 1950 con appena 148 parole).

La tendenza negli anni successivi è andata verso un progressivo aumento del numero di parole utilizzate, accompagnato però, come abbiamo sottolineato, da variazioni significative di anno in anno. Poi, a partire dal nuovo millennio, i discorsi non hanno più superato le 2.600 parole e anche le variazioni di durata sono diventate molto più contenute. Segno forse di una prassi che assume di anno in anno caratteristiche sempre più definite.

Come cambia il linguaggio

Ma se nei primi anni della repubblica i messaggi di fine anno erano estremamente brevi, la struttura delle frasi era però decisamente più complessa. Infatti sia il numero di parole che di caratteri per frase era decisamente maggiore. Poi, se pur con delle oscillazioni notevoli, tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’80 la lunghezza delle frasi è andata riducendosi, per poi tornare a crescere in maniera marcata durante la presidenza Cossiga (con una media di 36,5 parole per frase).

Poi con Scalfaro la lunghezza delle frasi è tornata a ridursi (17,6 parole per frase in media). E questo nonostante, come abbiamo visto, alcuni dei suoi discorsi di fine anno siano stati tra i più lunghi pronunciati da un presidente.

Con la presidenza Napolitano invece torna a crescere la lunghezza delle frasi (con una media di 28,9), parallelamente a quella complessiva del messaggio.

Per quanto alcuni discorsi abbiano raggiunto livelli ancora inferiori, in media i messaggi di Mattarella sono stati quelli con frasi più brevi.

16,2 parole per frase. la media nei discorsi di fine anno del presidente Mattarella.

Una struttura semplice e diretta in discorsi che come abbiamo visto sono piuttosto brevi rispetto ai precedenti.

Nell’ultimo discorso del presidente tuttavia si registra, rispetto allo scorso anno, da un lato un aumento del numero di caratteri per frase e dall’altro una riduzione del numero di parole per frase. Un’asimmetria che può essere spiegata solo con l’utilizzo di termini più lunghi e complessi. Se pur all’interno di frasi brevi e concise.

Le parole più utilizzate

La parola più utilizzata nell’ultimo discorso di Mattarella è stata “repubblica”, che compare 9 volte. Un termine che può sembrare scontato ma che in realtà di rado è comparso tra i più frequenti nei discorsi dei presidenti.

La Repubblica siamo tutti noi. Insieme. […] La Repubblica […] è costituita dalle donne e dagli uomini che si impegnano per le loro famiglie. La Repubblica è nel senso civico di chi paga le imposte […]. La Repubblica è nel sacrificio di chi, indossando una divisa, rischia per garantire la sicurezza di tutti. […] La Repubblica è nella fatica di chi lavora e nell’ansia di chi cerca il lavoro. Nell’impegno di chi studia. Nello spirito di solidarietà di chi si cura del prossimo. Nell’iniziativa di chi fa impresa e crea occupazione.

Al secondo posto “futuro”, ripetuta 8 volte. Un termine che, con altri simili molto utilizzati, ha segnato il carattere del discorso con il quale il presidente che ha invitato esplicitamente a “stare dentro il nostro tempo, non in quello passato”.

Al terzo posto a pari merito 3 parole distinte (escludendo i termini “Italia” e “anno”) che tuttavia si legano tra loro e con le precedenti, completandole. Sono infatti stati ripetuti 6 volte i termini “giovani“, “domani” e “libertà“. Parole che esprimono un senso di prospettiva e di fiducia verso un futuro che tuttavia, per essere realizzato ha bisogno del contributo di tutti.

 

La povertà energetica tra famiglie e minori in Italia #conibambini

La povertà energetica tra famiglie e minori in Italia #conibambini

Nel 2021 sembra essersi interrotto il calo delle famiglie con figli che non possono permettersi di riscaldare casa. Una tendenza da monitorare alla luce della crisi in corso. Nell’8% dei comuni in zona F, quella più fredda, oltre 4 contribuenti su 10 sono a basso reddito.

 
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Vivere in una casa confortevole è un fattore cruciale per la crescita sana di bambini e ragazzi. Per questo è centrale la questione delle famiglie in povertà energetica, a maggior ragione se hanno dei minori a carico.

Parliamo di quella condizione in cui un nucleo familiare non può permettersi le spese per riscaldare la propria abitazione in modo adeguato. Dopo aver raggiunto un picco nella prima metà degli anni ’10, la quota di famiglie con figli in questa situazione è progressivamente diminuita nell’ultimo decennio. Tuttavia i dati più recenti (2021) mostrano che questo trend potrebbe essersi interrotto.

La povertà energetica delle famiglie con figli in Italia e in Ue

La quota di famiglie che dichiarano di non potersi permettere di riscaldare adeguatamente la casa è cresciuta dopo la crisi del 2008, sia in Italia che in Ue, raggiungendo il picco nella prima metà del decennio scorso.

In particolare nel nostro paese, i nuclei con minori a carico in questa condizione hanno superato il 20% nel 2012, per poi ridiscendere gradualmente negli anni successivi.

Dopo la pandemia, in base ai primi dati relativi al 2021, si attestano al 7,9% in Italia. Un valore comunque da non trascurare, in primo luogo perché superiore alla media europea nello stesso anno (6,6%) e a quella dei maggiori paesi Ue.

La Germania nel 2021 si è attestata al 3,5%, la Francia al 5,8%. In Spagna invece le famiglie con figli che non potevano riscaldare a sufficienza l’abitazione sono state il 13,7%.

Dopo la pandemia si è interrotto il trend di diminuzione iniziato dopo il picco del 2012.

Ma non è solo il confronto europeo a rendere rilevante questo dato. Anche l’andamento in serie storica deve essere osservato con attenzione, dal momento che nel 2021 si avverte un primo segnale di crescita rispetto agli anni precedenti la pandemia. Dopo il picco raggiunto nella prima metà degli anni ’10, la quota si era infatti ridotta fino al 7,5% del 2020. Il dato del 2021 mostra la prima interruzione di un trend di diminuzione costante da quasi un decennio.

7,9% i nuclei con minori a carico che in Italia nel 2021 non si sono potuti permettere di riscaldare adeguatamente la casa.

Anche se siamo lontani dai livelli raggiunti dopo la recessione 2008-12, l’indicatore dovrà essere monitorato nella sua evoluzione nei prossimi mesi. Anche in relazione all’andamento della crisi economica ed energetica e ai suoi effetti sulla condizione di vita di famiglie e bambini.

In questo quadro è cruciale disporre di strumenti di analisi per valutare dove il fenomeno della povertà energetica può incidere di più, anche a livello territoriale.

Cosa può determinare la povertà energetica

Non è semplice ricostruire il fenomeno della povertà energetica, specialmente in chiave locale, anche per la limitatezza dei dati disponibili nel descrivere una questione tanto complessa.

Tuttavia vi sono due elementi da cui si può partire. Il primo sono le necessità energetiche delle famiglie, che ovviamente dipendono da una pluralità di fattori. Dal clima presente sul territorio alla condizione abitativa, fino alla presenza di soggetti fragili nel nucleo familiare.

Il secondo è la condizione economica: più è sfavorevole, maggiore sarà il rischio della famiglia di trovarsi in povertà energetica (ovviamente al netto di sussidi e aiuti economici disposti dalle istituzioni locali e nazionali per coprire le bollette).

Le famiglie italiane tra zone climatiche e condizione economica

Con molti caveat, possiamo ricostruire questi due elementi a livello territoriale, almeno in modo parziale.

A livello normativo, l’Italia è divisa in zone climatiche proprio che servono proprio a stimare l’impatto delle necessità energetiche sul territorio. Dalle aree più calde (classificate in zona A), come Lampedusa, dove i limiti all’uso del riscaldamento sono più stringenti. A quelle più fredde (zone F), in cui non vi sono limitazioni.

L’attribuzione di un comune a una fascia si basa sui gradi giorno, ovvero un’unità di misura finalizzata a classificare le necessità energetiche di una località.

I comuni con molti gradi giorno sono quelli sulla carta “più freddi”.

In base al Dpr 412/1993, viene calcolato come differenza, giorno per giorno nei periodi di riscaldamento, tra la temperatura ambiente degli interni (fissata per convenzione a 20°) e quella media esterna. Tutte queste differenze, giorno per giorno nei periodi di riscaldamento, se positive vengono sommate insieme per calcolare i gradi giorno. Quindi più è alto il numero di gradi giorno di una località, maggiori saranno le sue necessità in termini di dispendio energetico. Ovviamente al netto di altri fattori decisivi su cui non sono disponibili dati così aggiornati e disaggregati, come la qualità dell’edilizia abitativa.

L’altro aspetto determinante, la condizione economica delle famiglie, può essere ricostruito con altri indicatori. Uno di quelli più aggiornati è il livello dei redditi, desumibile dai dati sulle dichiarazioni raccolti dal ministero dell’economia e delle finanze. Anche in questo caso, si tratta di un’informazione soggetta a diversi limiti, primo tra tutti l’incidenza dell’evasione.

Con queste avvertenze, incrociando i due dati emerge come oltre 1.100 comuni italiani si trovino in zona F, quella più fredda. Di questi, quasi l’8% hanno più di 4 contribuenti su 10 nella fascia più bassa di reddito, tra 0 e 10mila euro dichiarati per il 2020.

Tra questi, gli unici territori calabresi e siciliani collocati in zona F. In particolare Nardodipace (Vibo Valentia), dove abitano 1.127 persone di cui 212 minori. Qui il 49,85% dei contribuenti ha dichiarato meno di 10mila euro nel 2020.

In Sicilia è Floresta, nel messinese, a trovarsi in zona F. Nel comune sui monti Nebrodi vivono 447 persone, di cui 35 con meno di 18 anni. Anche in questo territorio oltre 4 contribuenti su 10 (40,1%) hanno dichiarato tra 0 e 10mila euro.

Oltre alle 2 regioni meridionali, quella con la quota più alta di comuni a “basso reddito” in zona F è l’Abruzzo, con il 66,7%. Difatti, se si considerano i 30 comuni della regione in zona F, la più fredda, 20 hanno oltre 4 contribuenti su 10 che non arrivano ai 10mila euro annui di dichiarazione. Seguono il Lazio (22%), Liguria (12%), Lombardia (10%), Piemonte (9%).

Scarica, condividi e riutilizza i dati

I contenuti dell’Osservatorio povertà educativa #conibambini sono realizzati da openpolis con l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Mettiamo a disposizione in formato aperto i dati utilizzati nell’articolo. Li abbiamo raccolti e trattati così da poterli analizzare in relazione con altri dataset di fonte pubblica, con l’obiettivo di creare un’unica banca dati territoriale sui servizi. Possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione. I dati relativi ai redditi sono di fonte ministero dell’economia e delle finanze; quelli sulla classificazione per zona climatica sono stati elaborati a partire dalla lista contenuta nel Dpr 412/1993.

Foto: Kelly Sikkema (Unsplash) – Licenza

 

Cosa prevede il Pnrr per contrastare l’evasione fiscale #OpenPNRR

Cosa prevede il Pnrr per contrastare l’evasione fiscale #OpenPNRR

Il piano italiano prevede tra le sue riforme anche quella del fisco, con il principale obiettivo di ridurre l’evasione. Ne abbiamo ricostruito i passaggi, anche alla luce della nuova legge di bilancio.

 

L’evasione è un fenomeno grave che storicamente colpisce il nostro paese. Per monitorarlo, ogni anno un’apposita commissione istituita presso il ministero dell’economia elabora una relazione sul tema e, più in generale, sui fenomeni dell’economia non osservata.

99,2 miliardi € il tax gap dell’Italia nel 2019, cioè il divario tra imposte e contributi che dovevano essere versati e quelli effettivamente pagati.

Nell’ultima relazione – approvata il 19 settembre 2022 – emergono da un lato i progressi fatti dal nostro paese su questo fronte, dall’altro la strada e gli obiettivi che ha ancora davanti per ridurre questo fenomeno. In primis quelli indicati dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che prevede in questo senso una strutturata riforma dell’amministrazione fiscale.

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I recenti passi avanti

Nel rapporto si sottolinea come le politiche portate avanti in anni recenti abbiano avuto effetti positivi di riduzione dell’evasione. In particolare due interventi: lo split payment – cioè la scissione dei pagamenti – e la fatturazione elettronica obbligatoria.

Politiche recenti hanno ridotto l’evasione fiscale.

La prima è stata introdotta dalla legge di stabilità 2015 e regolamenta solo l’acquisto di beni o servizi da parte della pubblica amministrazione. Prevede che l’Iva (imposta sul valore aggiunto) sia pagata direttamente dalla pubblica amministrazione e non, come avviene in genere, che sia messa in fattura al cliente e poi versata dal fornitore.

La fatturazione elettronica obbligatoria, introdotta dalla legge di bilancio 2018, ha invece digitalizzato l’emissione, la trasmissione e la conservazione delle fatture. Un sistema obbligatorio per chiunque emetta fatture per la sua attività. La relazione evidenzia come questa politica abbia aumentato significativamente il gettito fiscale, soprattutto per le piccole imprese.

Rispetto ai 106 miliardi di imposte e contributi non versati nel 2015, i 99 miliardi registrati nel 2019 costituiscono sicuramente un passo avanti positivo. Tuttavia, si tratta di una cifra ancora troppo elevata per considerarla un traguardo.

Il quadro politico in cui interviene il Pnrr

Nelle raccomandazioni della commissione europea del 2019 – che costituiscono la base delle riforme del Pnrr – si chiede all’Italia un maggiore sforzo nel contrasto all’evasione da omessa fatturazione. Cioè quei casi in cui la fatturazione non viene proprio effettuata, oppure avviene in ritardo, o in formati non elettronici. La commissione, in questo senso, sottolinea come la promozione dei pagamenti elettronici possa incentivare l’emissione di fatture e scontrini e quindi il rispetto degli obblighi tributari. Al contrario dei pagamenti in contanti.

Tuttavia, il governo Meloni ha inserito nella legge di bilancio per il 2023, l’innalzamento del limite all’utilizzo dei contanti. Dai 2.000 euro per transazione a 5.000 euro. Inoltre, nelle intenzioni dell’esecutivo c’era anche quella di eliminare le sanzioni agli esercenti che rifiutano di usare il Pos per i pagamenti inferiori a 60 euro. Un passaggio che però è stato bloccato da Bruxelles, in quanto l’introduzione di queste multe corrisponde a un obiettivo del Pnrr, già raggiunto in precedenza dal governo Draghi.

I governi non possono revocare interventi passati che hanno permesso il conseguimento di scadenze del Pnrr. È una delle condizioni necessarie per ricevere i finanziamenti. Vai a “Come l’Ue verifica l’attuazione dei Pnrr negli stati membri”

Le questioni legate agli interventi di contrasto all’evasione sono incluse in una delle misure del piano italiano: la riforma dell’amministrazione fiscale. Questa è articolata in diversi punti. Dal rilascio della dichiarazione Iva precompilata a un uso migliore delle “lettere di conformità”. Dalle sanzioni ai fornitori che non accettano pagamenti elettronici a un utilizzo e analisi dei dati più efficace. Infine, la riforma prevede la riduzione dell’evasione da omessa fatturazione.

Lo stato di attuazione della riforma sul fisco

Per conseguire tutti i punti che abbiamo appena visto, la misura individua 11 scadenze da raggiungere tra il 2021 e il 2026, divise per trimestri:

Scadenza
Termine
Stato di avanzamento
Adozione di una revisione dei possibili interventi per ridurre l’evasione fiscale T4 2021 Completata
Entrata in vigore di atti di diritto primario e derivato e delle disposizioni regolamentari e completamento delle procedure amministrative per incoraggiare il rispetto degli obblighi fiscali (tax compliance) e migliorare gli audit e i controlli. T2 2022 Completata
Numero più elevato di “lettere di conformità” T4 2022 Completata
Ridurre il numero di “lettere di conformità” che rappresentano falsi positivi T4 2022 Completata
Aumentare il gettito fiscale generato dalle “lettere di conformità” T4 2022 Completata
Inviare le prime dichiarazioni IVA precompilate T2 2023 Da avviare
Migliorare la capacità operativa dell’amministrazione fiscale, come indicato nel Piano della performance 2021-2023 dell’Agenzia delle Entrate. T2 2024 Da avviare
Numero più elevato di “lettere di conformità” T4 2024 Da avviare
Aumento del gettito fiscale generato dalle “lettere di conformità” T4 2024 Da avviare
Riduzione dell’evasione fiscale come definita dall’indicatore “propensione all’evasione” T4 2025 Da avviare
Riduzione dell’evasione fiscale come definita dall’indicatore “propensione all’evasione” T2 2026 Da avviare

 

Come emerge dalla tabella, a oggi risultano completati 5 interventi, in linea con il cronoprogramma. La prima è stata raggiunta come previsto nel quarto trimestre del 2021, adottando una relazione mirata al contrasto dell’evasione da omessa fatturazione. La seconda scadenza invece è stata conseguita nel secondo trimestre del 2022 e ha comportato l’entrata in vigore di atti, disposizioni e procedure per incoraggiare il rispetto degli obblighi fiscali e migliorare i controlli. È con questa scadenza – e l’entrata in vigore del decreto legge 36/2022 – che sono state introdotte le sanzioni per mancata accettazione di pagamenti effettuati con carte di debito e credito, attive dal 30 giugno scorso.

Gli altri passaggi raggiunti riguardano tutti lo strumento delle lettere di conformità, cioè comunicazioni che l’agenzia delle entrate invia ai contribuenti per i quali sono state riscontrate anomalie. Queste 3 scadenze hanno comportato, in ordine: l’aumento del 20% del numero di lettere inviate, la riduzione del 5% dei falsi positivi e l’aumento del 15% del gettito fiscale generato dalle lettere. Tutte variazioni misurate rispetto ai valori di riferimento al 2019.

Risultano invece ancora da avviare le scadenze indicate per i prossimi anni. A partire dal 2023, che ha come unico obiettivo l’invio di dichiarazioni Iva precompilate ad almeno 2,3 milioni di contribuenti. Poi nel 2024 si mira ad ampliare il personale dell’agenzia delle entrate di 4.113 unità e a rilanciare i target legati alle lettere di conformità. In particolare con un aumento, rispetto al 2019, del 40% di comunicazioni inviate e del 30% del gettito fiscale generato.

Ridurre la propensione all’evasione

Le ultime 2 scadenze della riforma sono quelle che ne segneranno il completamento. E prevedono entrambe la riduzione dell’evasione fiscale, da misurare attraverso l’indicatore di propensione all’evasione. Cioè:

Il valore percentuale che rappresenta quanto viene evaso sul totale che dovrebbe entrare nelle casse statali. Vai a “Cosa sono evasione, elusione e frode fiscale”

Il Pnrr richiede che questo valore – calcolato su tutte le imposte escluse Imu e accise – sia inferiore del 5% nel 2023 e del 15% nel 2024, rispetto al valore di riferimento del 2019.

Va sottolineato che questi 2 obiettivi sono formalmente associati al quarto trimestre del 2025 il primo e al secondo trimestre del 2026 il secondo. Cioè le annualità in cui sarà possibile produrre e condividere analisi sui dati relativi al 2023 e 2024.

Come abbiamo sottolineato in precedenza, negli ultimi anni il nostro paese ha registrato un miglioramento nel contrasto all’evasione. In particolare grazie ad alcune politiche specificatamente mirate a quell’obiettivo.

-4 punti percentuali la riduzione della propensione all’evasione, dal 2014 al 2019.

Tuttavia, la quota del 2019 indica comunque che il 18,5% di imposte e contributi che lo stato avrebbe dovuto ricevere, non sono state pagate. Una percentuale ancora troppo elevata. In questo quadro quindi, il Pnrr richiede un’ulteriore riduzione della propensione all’evasione, che dovrebbe scendere al 17,6% nel 2023 e al 15,8% nel 2024.

Si tratta di obiettivi ambiziosi, come li definisce la relazione stessa. E considerando le posizioni espresse finora sul tema dal governo Meloni, il loro raggiungimento non è di certo scontato.

il tetto al contante sfavorisce la nostra economia […] in un mercato europeo un tetto al contante ha un senso solamente se ce lo hanno tutti.

Alzare il tetto dei contanti e più in generale non promuovere i pagamenti elettronici, sono posizioni in aperto contrasto con le raccomandazioni Ue specifiche per il nostro paese e con il Pnrr. Tanto che, come abbiamo visto in precedenza, l’esecutivo non ha potuto inserire nella legge di bilancio la rimozione delle multe agli esercenti che non usano il Pos.

E se da un lato è vero – come dice la presidente del consiglio Meloni – che in altri stati europei non esistono limitazioni all’utilizzo del contante, dall’altro lato va sottolineato che l’Italia è colpita in modo particolare dall’evasione fiscale. E quindi sono necessarie azioni decise di contrasto al fenomeno, non dei passi indietro.

Il nostro osservatorio sul Pnrr

Questo articolo rientra nel progetto di monitoraggio civico OpenPNRR, realizzato per analizzare e approfondire il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Ogni lunedì pubblichiamo un nuovo articolo sulle misure previste dal piano e sullo stato di avanzamento dei lavori (vedi tutti gli articoli). Tutti i dati sono liberamente consultabili online sulla nostra piattaforma openpnrr.it, che offre anche la possibilità di attivare un monitoraggio personalizzato e ricevere notifiche ad hoc. Mettiamo inoltre a disposizione i nostri open data che possono essere riutilizzati liberamente per analisi, iniziative di data journalism o anche per semplice consultazione.

Foto: palazzo Chigi – Licenza

 

Tutte le pensioni del 2023 e come cambieranno con la riforma del 2024

Tutte le pensioni del 2023 e come cambieranno con la riforma del 2024

Tutte le pensioni del 2023 e come cambieranno con la riforma del 2024

Molto variabili le condizioni di accesso alle pensioni per gli italiani. Nel 2021 si andava in pensione anche a 62 anni con la quota 100 (come nel 2020 e nel 2019). Nel 2022 invece ecco la pensione a 64 anni di quota 102. Adesso, con la nuova manovra di Bilancio, ecco la pensione a 62 anni ma con quota 103. E per il 2024 altre variazioni in arrivo, e forse anche più profonde rispetto agli ultimi anni. Ma come si va in pensione oggi e come nel 2024 è un argomento che interessa una grande parte della popolazione lavorativa.

La guida alle pensioni 2023, ecco come lasciare il lavoro

In estrema sintesi e senza addentrarci nelle particolarità che ogni misura ha al suo interno, possiamo dire che nel 2023 in pensione andranno le lavoratrici a partire da 56 anni di età ed i lavoratori con almeno 61 anni di età che hanno una invalidità specifica pari o superiore all’80% e 20 anni di contributi almeno. E poi, via alla pensione per chi ha almeno 63 anni di età ed è invalido, caregivers, disoccupato o alle prese coi lavori gravosi. La misura è l’Ape sociale. Servono 30 anni di contributi per le prime tre categorie e 36 per i lavori gravosi ad esclusione di ceramisti e edili per i quali ne bastano solo 32.

Cambiano anche le pensioni ordinarie?

Nel 2023 a partire dai 60 anni potranno uscire dal lavoro le donne con la loro opzione, e con i soliti 35 anni di contribuzione versata. Purché età e contributi sono stati completati entro il 31 dicembre 2022. Se la lavoratrice ha avuto un figlio l’età scende a 59 anni, con due o più figli si scende a 58 anni. Senza limiti di età potranno uscire i precoci (un anno di contributi prima dei 19 anni di età) con 41 anni di contributi completati se, alternativamente, invalidi, caregivers, gravosi o disoccupati. Con 42 anni e 10 mesi gli uomini e 41 anni e 10 mesi le donne, ecco la pensione anticipata ordinaria, fruibile senza limiti di età anche nel 2023. E nel 2024 questa misura potrebbe essere sostituita da una estensione a tuti della quota 41.

La pensione contributiva per tutti?

Nel 2023 a 64 anni di età, con 20 anni di versamenti e con il primo contributo dopo il 31 dicembre 1995, ecco la pensione anticipata contributiva, se assegno pari a 2,8 volte quello sociale. Una ipotesi per il 2024 è di allargare alla pensione contributiva per tutti la possibilità di lasciare il lavoro con la cosiddetta flessibilità. Le differenze tra attività lavorativa sono ancora oggetto di differenti vedute in termini di uscita dal lavoro. Per esempio la pensione a 61 anni e 7 mesi di età e 35 di contributi con la quota 97,6 degli usuranti, attiva anche nel 2023.

 

San Felice da Nola

 

San Felice da Nola


Nome: San Felice da Nola
Titolo: Confessore e martire
Nascita: metà del III secolo, Nola
Morte: 313 circa, Nola
Ricorrenza: 14 gennaio
Martirologio: edizione 2004
Tipologia: Commemorazione
Le poche notizie su San Felice ci vengono fornite da San Paolino di Nola nei suoi carmi natalizi, S. Felice detto anche in Pincis, sacerdote nolano nacque a Nola nella seconda metà del III secolo da nobile famiglia, fu posto in prigione dai nemici di nostra santa fede, fu liberato da un Angelo, che lo condusse ad un monte, dove diede soccorso a S. Massimo vescovo di Nola, ivi nascosto, e consumato dalla fame e dal freddo. Animava i suoi concittadini alla pazienza nella grave persecuzione, che per divina permissione, movevano contro i fedeli gl’idolatri, e coll’esempio suo insegnava loro il modo di farsi strada, per mezzo della sofferenza delle miserie temporali, alle consolazioni eterne.

Perseguitato di nuovo dagl’infedeli, Iddio miracolosamente lo liberò dalle loro mani, facendo che passasse in mezzo a loro, e che gli parlassero senza che lo riconoscessero; onde pensavano a cercarlo in altra parte, quando, da certi maligni manifestato, si salvò fra alcuni dirupi, ove coperto all’improvviso con tele di ragno dalla divina Provvidenza, non fu veduto dai persecutori. Non si curò di ricuperare i beni levatigli dai nemici della fede, sprezzando ciò che di buona voglia avea già per amore di Cristo abbandonato, ma operando e faticando si mantenne sino alla morte coi frutti d’un suo orticello, ch’ei lavorava con le proprie mani.

Nonostante San Felice non sia stato ucciso, fu riconosciuto come Martire dalla Chiesa per le numerose sofferenze patite nella vita. Il suo corpo fu seppellito presso le Basiliche paleocristiane di Cimitile. La sua tomba fu detta Ara Veritatis, perché gli si attribuiva particolare efficacia contro la falsa testimonianza.

PREGHIERA. Quando Dio è con noi, le tele di ragno ci servono per sicuri ripari; ma quando egli non è con noi, ogni riparo, benchè fortissimo, è come tela di ragno per nostra difesa. S. Paolino.

PRATICA. Cercate Cristo, e quando l’avrete sarete ricco e non avrete bisogno d’altro. Egli sarà il vostro provveditore e farà fedelmente i vostri interessi.

Lieto sarò se meco avrò il Signore, Nè de’ nemici miei avrò timore.

MARTIROLOGIO ROMANO. A Nola in Campania, san Felice, sacerdote, che, come riferisce san Paolino, durante l’imperversare delle persecuzioni, patì in carcere atroci torture e, una volta ristabilita la pace, fece ritorno tra i suoi, ritirandosi in povertà fino ad avanzata vecchiaia, invitto confessore della fede