Per oltre vent’anni, dal 1972 al 1994, hanno lavorato il tonno nello stabilimento della Palmera. Ora un giudice ha detto che quel capannone alla zona industriale era una bomba di amianto, concedendo alle due operaie i benefici previsti dalla legge: una perizia tecnica ha stabilito che,almeno fino al 1996 (quando l’azienda ha chiuso) i 400 dipendenti avevano sulle teste mezzo ettaro di amianto. «Ma ora – garantiscono i nuovi proprietari dell’opificio – qui è stato tutto bonificato».
La vicenda è però significativa perché alza il coperchio su una situazione diffusissima nell’ultimo trentennio: l’amianto era (è?) praticamente dappertutto. E a Bari – non solo nell’area industriale, come ha insegnato il caso della Fibronit – si è barattata la sicurezza di un posto di lavoro con il diritto alla salute.
Quello dell’Alco Palmera è un esempio delicatissimo, perché riguarda una grande società: le due operaie (difese dall’avvocato Andrea Azzone, tramite il patronato Inca Cgil) hanno portato avanti una lunga battaglia, sfociata in una vertenza giudiziaria durata cinque anni, ed hanno ottenuto la sentenza per il riconoscimento dell’esposizione all’amianto secondo la legge 257/92.
Proprio il procedimento di fronte al giudice del lavoro ha alzato il velo su quanto accadeva in quegli anni nello stabilimento Palmera: «È stato indiscutibilmente accertato – è detto nelle sentenze – che per anni la società ha utilizzato tale materiale (l’amianto, ndr) in quasi tutte le fasi del ciclo produttivo, inoltre sono state individuate le macchine e le attrezzature che prevedevano componenti o apparecchiature contenenti amianto».
Circa metà del tetto del capannone principale (che sorge su un’area di 196mila mq, di cui 31mila coperti) era costituita da eternit, che – quando lo stabilimento era operativo (cioè fino al 1996) – era «a diretto contatto con l’ambiente di lavoro interno».
Nel corso del processo è emerso che quelle coperture con il tempo si erano progressivamente danneggiate e non si può escludere che le polveri di eternit finissero nelle scatolette di tonno: circostanza suggestiva ma – spiegano i medici – senza conseguenze per la salute, dal momento che l’amianto è dannoso solo quando inalato.
Dopo una serie di passaggi intermedi il complesso Alco Palmera è stato rilevato nel 2006 dalla società Stabilimento srl, che fa capo tra gli altri all’imprenditore barese Dante Mazzitelli: «Prima dell’acquisto – spiega Mazzitelli, che esibisce i documenti – abbiamo preteso che la società venditrice effettuasse la bonifica,così come richiesto dall’ordinanza comunale: di questo dà atto una relazione dell’Arpa.
Oggi il capannone ha un nuovo tetto in metallo. Anche perché, diversamente, non sarebbe stato rilasciato il certificato di agibilità». Nel capannone ex Alco Palmera è alloggiato un deposito di materiali della Fondazione Petruzzelli, ed è ospitato – per circa 2.000 metri quadrati – l’archivio delle schede elettorali della Corte d’appello di Bari.
Nel futuro dell’area industriale c’è dunque una riconversione. Ma i lavoratori della ex Alco Palmera – che nel periodo migliore hanno toccato le 400 unità – sono rimasti con un palmo di naso. Sia dal punto di vista occupazionale (lo stabilimento è stato ceduto al consorzio Madia Diana, che avrebbe dovuto riaprire ma non lo ha fatto), che da quello patrimoniale: a differenza di quanto accaduto in altri casi – quello più famoso è
proprio la Fibronit – gli avvocati non sono finora riusciti a chiedere conto all’azienda – dei danni alla salute.
Il riconoscimento dell’esposizione ad amianto previsto dalla legge è infatti a carico degli enti previdenziali: gli anni di contributi versati dal lavoratore che è stato a contatto con eternit per oltre un decennio vengono aumentati della metà. La stessa strada su cui si stanno avviando, ad esempio, anche i dipendenti regionali che lavorano (o hanno lavorato) nel complesso ex Ciapi, anche quello infestato dall’amianto.
da Gazzetta del Mezzogiorno